COMPATIBILITA' TRA L'UDIENZA DI MERO RINVIO E
L'ESERCIZIO DEI POTERI GIUDIZIALI
RISERVATI ALLE PARTI

 

 

di Sergio Vergottini (*)

 

 

 

E’ noto a tutti quanto previsto dall’art. 183 c.p.c.: il Giudice alla seconda udienza (prima udienza di trattazione) può, se richiesti dalle parti, concedere o i termini per la precisazione e modificazione delle domande o, in difetto, sempre se vi è apposita richiesta di parte, concedere i termini per il deposito di documenti e per indicare nuovi mezzi di prova.
Non vi è dubbio, stante il carattere perentorio (e non ordinatorio) dei richiamati termini, che solo in quella fase del processo il Giudicante può acconsentire alle parti di formulare le proprie richieste probatorie e/o di meglio determinare le proprie domande/eccezioni.
Orbene, nel caso in cui il Giudice dispone il “mero rinvio” della seconda udienza ad una successiva (terza) senza che le parti abbiamo fatto alcuna istanza, sotto il punto di vista meramente procedurale, possono aversi le seguenti due alternative conseguenze: 1) le parti hanno fatto salvi i loro rispettivi poteri processuali, da esercitare quindi in un secondo momento; 2) la facoltà di precisare le domande e/o di formulare istanze istruttorie si è definitivamente consumata.
E’ bene premettere come la questione all’esame, oltre ad essere assai complessa per le gravi implicazioni che comporta, non è ancora stata compiutamente affrontata e risolta in giurisprudenza, sia di merito che di legittimità.
E’ quindi necessario cercarne la soluzione attraverso il corretto impiego dei principi generali del codice di rito nonché avendo ben a mente la logica ispiratrice della recente riforma normativa del processo (oralità – concentrazione – speditezza).
Si ripropone, in pratica, l’annosa questione relativa all’efficacia degli accordi processuali, intercorsi tra le parti o tra le parti e il giudice, che rende necessaria una breve digressione[1].
Non vi è dubbio che il processo dipende dall’iniziativa di una parte nei confronti di un’altra: è l’attore - ricorrente a dare impulso all’azione giudiziale con la notifica dell’atto di citazione o con il deposito del ricorso.
Le parti, concordemente, possono decidere di sospendere il processo, comunque per un certo lasso di tempo, oppure di porvi fine con la rinuncia e a loro spetta l’iniziativa probatoria.
Il Giudice, da parte sua, può indurre la parte interessata alla prosecuzione del giudizio ad evocare in quella causa un terzo soggetto oppure può esercitare una qualche (autonoma) iniziativa probatoria o ancora convocare le parti per la conciliazione.
Vi è quindi spazio perché attore – convenuto – giudice possano discrezionalmente gestire, o meglio amministrare, alcune delle significative vicende processuali a seconda delle loro scelte.
Sarebbe, peraltro, illogico costruire un procedimento giurisdizionale dove i soggetti risultino prigionieri, contro la loro diversa volontà, della disciplina e del codice di procedura.
Vero, tuttavia, che vi sono delle regole (del gioco) che tutti, pure il guidicante, devono rispettare e che non possono essere derogate nemmeno con una concorsuale espressione di volontà.
Vi sono quindi dei momenti del processo lasciati all’iniziativa della parti e delle fasi del procedimento rigidamente predeterminate dal legislatore.
Spetta all’interprete capire quando una regola dettata dal codice appartiene all’una o all’altra categoria.
Orbene, il momento – fase del processo –  in cui le parti possono chiedere che siano concessi i termini perentori, di merito e/o istruttori, costituisce una regola derogabile?
Possono quindi l’attore e il convenuto, d’accordo con il Giudice, posticipare il momento, altrimenti fissato dal codice di rito, per la dazione di quei termini.
La prima delle due soluzione proposte, ossia quella favorevole ai meri rinvii, comporterebbe il rischio (serio e grave) di acconsentire all’infinito il procrastinarsi del momento in cui il Giudice deve statuire in ordine alle richieste ex art. 183, ultimo comma ed ex art. 184, c.p.c. 
Le parti, a seguito di ripetuti concordati rinvii potrebbero di fatto paralizzare le sorti del processo.
Si ritornerebbe alla “vecchia” prassi dei procedimenti perennemente pendenti.
Facile, inoltre, osservare che il legislatore nel codice di procedura civile non ha riconosciuto, nemmeno implicitamente, alcuna facoltà di rinvio alle parti, anche al Giudice.
Anzi, dapprima per il processo del lavoro e poi per tutte le cause ordinarie, ha previsto il divieto di udienze di mero rinvio.
In sintesi, non si è in grado di rintracciare alcun appiglio  normativo in favore della tesi del “mero rinvio”.
Non sarebbe nemmeno possibile “salvare” la facoltà di rinvio del Giudicante appellandosi al fatto che  la necessità di una seconda (o terza o ulteriore) udienza di comparizione personale delle parti, per conciliare la causa, sarebbe incompatibile con la concessione dei predetti termini.
Non è infatti infrequente sentire nelle aule giudiziarie i difensori chiedere una nuova comparizione “salvi i termini” di legge solo  perché di fatto il deposito delle relative memorie (di merito o istruttorie) impedirebbe, a loro dire, la transazione.
La giustificazione  è alquanto debole.
Non vi è infatti alcun incompatibilità tra il deposito di memorie (istruttorie e di merito) e la conciliazione delle parti, che di fatto può essere tentata in ogni momento del giudizio.
L’interpretazione più severa, che appunto impedisce alla parti e al Giudice di disporre liberamente degli incombenti di cui all’art. 183 c.p.c., avrebbe invece il merito di rendere effettivamente (seriamente) più rapido il processo costringendo le parti al rigoroso rispetto dei tempi  della  causa.
Più chiaramente: chi vuole un processo più rapito non può che convenire per quest’ultima soluzione.
Si noti inoltre il testo del codice di rito, come sopra già evidenziato, laddove parla di termini “perentori” e divieto di udienze di mero rinvio è conforme a tale interpretazione piuttosto che all’altra.
Si obbietterà che sposando questa lettura della legge si corre il rischio, solo perché c’è stato un “mero rinvio”, di vedersi pregiudicato l’intero processo.
Se, infatti, le parti hanno confidato nella possibilità di far “slittare” i termini dell’art. 183 c.p.c. ad altra data, potrebbero in un secondo momento vedere punita la loro buona fede.
Ciò è vero.
E’ tuttavia giusto evidenziare che l’attuale schema di funzionamento del processo è caratterizzato dal fatto che il legislatore ha posto dei paletti che il procuratore deve rigorosamente rispettare.
Non esiste buona fede tutelabile quando si tratta di conoscere le regole del processo.
In sintesi è quindi preferibile ritenere che il mero rinvio consuma il potere delle parti che quindi non possono più essere rimesse in termini.
Infatti, “il processo  civile  si  articola in  varie  fasi  distinte non  solo  concettualmente  ma anche nella loro successione temporale. La prima,  di  proposizione delle domande e delle eccezioni, con allegazione dei  fatti dedotti  a  fondamento  di esse,  diretta  alla definizione del  "thema  decidendum" sottoposto al giudice si conclude con la chiusura  della prima  udienza  di trattazione ex art. 183 c.p.c. ovvero con la  scadenza  dei termini (perentori) in quella sede fissati dal giudice,  su richiesta  di  parte  ai sensi  del comma ultimo del medesimo art.  183. La  fase successiva,  che si sviluppa nell'udienza ex art. 184 e  nell'eventuale  sua  appendice costituita  dalle  memorie istruttorie  autorizzate,  ai sensi del comma 1 dello stesso articolo, dal giudice  (che a tal fine assegna termini di natura perentoria) è diretta alla  definizione del  "thema  probandum". La terza  fase,  dell'istruzione  probatoria, è diretta all'assunzione delle prove ammesse. In ultimo  c'e' la  fase  della  decisione. Tale scansione di regola non tollera  deroghe; e il mancato rispetto dei tempi stabiliti per la definizione  del "thema decidendum" e del "thema probandum" determina la decadenza  della parte  dalla  facoltà da un lato di "precisare e modificare le  domande,  le eccezioni  e le conclusioni già formulate" e dall'altro  di  completare  le produzioni  documentali "e indicare nuovi mezzi di  prova". Le  decadenze a  cui  si  è accennato  sono rivelabili anche  d'ufficio,  attesa   la natura  perentoria  dei  termini a  cui  sono  ricollegate  e  la loro  rispondenza  al  superiore interesse  ad una  spedita  conduzione  del processo  (nella  specie,  sulla base  delle  enunciate   premesse,  e'  stata   rilevata   "ex  officio"  sia   la  inammissibilità   della modifica,   in  sede  di precisazione  delle  conclusioni,  di  una domanda,  sia  la  tardività e  la conseguente  inutilizzabilità  di  documenti prodotti all'udienza di precisazione  delle conclusioni)” (Tribunale Milano, 8 maggio 1997, - Amoroso c. Sorelli e altro -, in Nuova giur. civ. commentata 1998, I, 577 nota (DALMOTTO); in Giur. it. 1998, 2309).
Pure di notevole interesse, al fine di interpretare correttamente l’effettiva “voluntas legis” racchiusa negli artt. 183 – 184 c.p.c., appare essere la seguente pronuncia di merito: “nella prima udienza di trattazione, qualora le parti chiedano un  termine per il deposito di memorie ai sensi dell'art. 183 comma 5  c.p.c., un termine per la produzione di documenti e l'indicazione  di nuovi  mezzi  di  prova, il giudice istruttore può immediatamente  esaminare le  richieste istruttorie già avanzate; in tal caso non è  ammessa la successiva produzione di nuovi documenti o la richiesta di  nuovi  mezzi   di prova  (nella  specie,  la concessione  di  termine  perentorio  per  ulteriori deduzioni istruttorie ovvero la fissazione  dell'udienza di  cui  all'art. 184 c.p.c. erano  state  invocate dopo  l'espletamento della  consulenza  tecnica  disposta dal giudice nella  stessa prima udienza di trattazione)” (Tribunale Brindisi, 26 maggio 1997, - Rizzo  c. Corsi -, in  Foro it. 1998, I, 2585)[2].
Come sopra già evidenziato, non si è riusciti a reperire dei significativi precedenti in termini.
La giurisprudenza tuttavia ha avuto occasione di soffermarsi sul rapporto tra l’udienza di mero rinvio e i poteri che le parti ivi avrebbero dovuto esercitare: 1) quanto alle contestazioni alla CTU[3]; 2) per proporre l’appello incidentale[4].
In entrambi i casi i Giudici sono giunti alla conclusione che il mero rinvio consuma i poteri riservati alle parti, anche se il Giudicante ha disposto la “salvezza dei diritti” di prima udienza poiché è materia che attiene all’ordine pubblico e dunque sfugge alla disponibilità delle parti.
Si noti, inoltre, che nella seconda delle accennate pronunce si afferma che l’inammissibilità dell’appello incidentale può essere rivelato anche d’ufficio in qualsiasi stato e grado del giudizio, salvo il giudicato.
Il rilievo non è di poco momento.
La parte, infatti, ha esercitato una facoltà processuale (in quel caso, ha impugnato un capo della sentenza) che non gli spettava.
A prescindere dall’accordo con controparte e con il Giudice, che invero ha rinviato “facendo salvi i diritti di prima udienza”, l’inammissibilità della domanda può essere rilevata sempre.
Mutatis mutandis, avvenuto il mero rinvio della seconda udienza e concessi solo successivamente i termini istruttori e/o di merito, l’eventuale attività svolta dalle parti è affetta da insanabile nullità, che può essere denunciata anche nella fase d’appello o in Cassazione.
Ne conseguirebbe l’inammissibilità delle prove eventualmente assunte e dei documenti depositati unitamente alla memoria ex art. 184 c.p.c. nonché l’irrilevanza delle modifiche alle domande e alle eccezioni.
Si tratta, con tutta evidenza, di una “sanzione” alquanto gravosa anche se, per quanto sopra esposto, inevitabile.

Note

(*) Dott. Sergio Vergottini - Studio Legale Associato Gerosa - Lecco

[1] Sul punto appare di notevole interesse la nota a commento della sentenza resa dalla  Pretura Verona, 22 settembre 1998, - Bertagnoli c. Soc. S.C.V. -, in  Giur. merito 1999, 712 di ASPRELLA, “Dell'accordo  processuale,  ovvero della derogabilità convenzionale  delle fasi che scandiscono il processo ordinario”.

[2] “Quando  nell'udienza  prevista dall'art. 183  c.p.c.,  per l'assenza  delle parti e la mancanza d'ogni iniziativa dei loro difensori non si  sia  svolta nessuna  attività  di  trattazione della  causa,  non e'  ammissibile una "emendatio libelli" e pertanto va disattesa l'istanza  di fissazione d'un termine per il deposito di memoria contenente tale  emendatio” (Tribunale Pavia, 15 febbraio 1999, -  Soc. Nuova Civardi  c. Soc. S.I.B -, in Giur. merito 1999, 711

[3] “Agli  effetti della norma di cui al comma 2 dell'art. 157 c.p.c., che  impone alla  parte  che vi abbia interesse di eccepire la nullita' di  un  atto nella  prima  istanza  o difesa  successiva all'atto od alla  notizia  di  esso, il  termine  istanza deve ritenersi comprensivo di  qualsiasi  richiesta  delle   parti  tendente  ad ottenere  anche  un  semplice  atto ordinatorio, quale è il provvedimento di rinvio della  udienza istruttoria.  Conseguentemente,  è  tardiva la  eccezione di  nullità  della  consulenza tecnica  che  non sia stata dedotta nella  udienza  successiva al deposito della consulenza stessa, ancorche' in  detta udienza sia stato chiesto e disposto un mero rinvio” (Cassazione civile Sezione III, 1 agosto 1995 n. 8383, - Tagliavini  c. Morini -, in Giust. civ. Mass. 1995,1455

[4] “Ai  fini della  proposizione  dell'appello incidentale, l'espressione  "prima  udienza" contenuta  nell'art. 343  c.p.c. indica l'udienza di  comparizione nella  quale  vi  sia stato  lo svolgimento di attivita'  processuale,  anche  se limitata  ad  un provvedimento di mero rinvio  della trattazione ad un'udienza successiva, con la conseguenza che in  tale  udienza non  può  essere  più proposto l'appello incidentale,  anche se  il rinvio era stato disposto con la formula della "salvezza  dei diritti di prima udienza". L'inosservanza del termine della prima  udienza   per   la proposizione   dell'appello  incidentale,  essendo  destinato  a  disciplinare l'ammissibilità dell'impugnazione, che è  materia di   ordine  pubblico,  sottratta alla  disponibilità  delle  parti, può essere rilevata anche d'ufficio in ogni stato e grado del  processo,  col  solo limite  del  giudicato  conseguente alla mancata  impugnazione della  pronuncia  esplicita in ordine all'ammissibilità dell'appello” (Cassazione civile Sezione I, 16 novembre 1994 n. 9655, -  Pepe e altro  c. Fall. Coples -, in Giust. civ. Mass. 1994, fasc. 11).

 

 

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