REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

 Tribunale Ordinario di Venezia

 Sezione III Civile

il Giudice Unico

 dott. Roberto Simone

ha pronunziato la seguente

SENTENZA

nella causa civile promossa con atto di citazione notificato in data   10.2.2000 

da

***, rappresentata e difesa dagli avv.ti Virgilio Calabrese e Donato Bruno,  presso il secondo elettivamente domiciliata, per mandato in calce all’atto di citazione,

- attrice -

contro

U.L.S.S. 13, in persona del Direttore generale p.t. ***, rappresentata e difesa dall’avv. Fabio Fabbrani, presso lo stesso elettivamente domiciliata, per mandato in calce alla copia notificata dell’atto di citazione,

-         convenuta –

in punto: risarcimento danni.

Causa trattenuta in decisione all’udienza del 5.3.2004 sulle seguenti conclusioni delle parti costituite

Per l’attrice:

“1) accertata la responsabilità dell’equipe medica che ha effettuato l’intervento chirurgico di cui è causa, per violazione dell’obbligo di consenso informato nei confronti della paziente *** a, condannarsi la convenuta al risarcimento di tutti i danni subiti dalla attrice (a titolo esemplificativo: biologico, alla vita di relazione, morale, materiale), ammontanti complessivamente a £.  200.000.000 o a quella minore o maggiore somma che risulterà di giustizia oltre alla rivalutazione monetaria e agli interessi legali dal sinistro al saldo.

2) Vittoria di spese, diritti ed onorari di causa”.

Per la convenuta:

“nel merito: respingersi la domanda; spese rifuse”.

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

            Con l’atto di citazione in epigrafe indicato *** conveniva dinanzi al Tribunale di Venezia la l’U.L.S.S. 13, al fine di sentir pronunciare sentenza di condanna al pagamento della somma di Lire 200.000.000 a titolo di risarcimento danni. Esponeva l’attrice che il 26.2.1998 era stata sottoposta presso la Divisione di cardiologia dell’Ospedale di Mirano ad un intervento chirurgico di sostituzione valvolare mitro-aortica con ricovero dal 24 febbraio al 1° aprile 1998; l’anno precedente era stata ricoverata presso l’Ospedale di Chioggia per “doppio vizio valvolare con embolia cerebrale; durante il decorso post-operatorio erano insorte gravi complicazioni a seguito di ictus embolico con conseguente emiparesi destra ed afasia motoria, sì da determinare l’incapacità di provvedere a se stessa; per quanto le fosse stato fatto sottoscrivere prima dell’intervento un modulo di consenso informato, peraltro neppure interamente compilato, non era stata informata in ordine ai rischi ed alle eventuali complicazioni correlabili all’intervento, anche alla luce dell’episodio di ischemia embolica dell’anno precedente; prima di sottoporsi all’intervento, accompagnata da B.L., aveva avuto un colloquio con il primario della divisione di cardiochirurgia dell’Ospedale di Mirano, dott. A.G., il quale l’aveva rassicurata del fatto che il tipo di intervento era fatto quotidianamente e così aveva accettato di sottoporvisi; il 24.2.1998 (il primo giorno del ricovero), presente il figlio A.M.,  lo stesso primario l’aveva nuovamente rassicurata che si trattava di un intervento routinario e l’aveva accompagnata nel reparto indicando altri pazienti, che avevano subito lo stesso intervento; la nuova rassicurazione l’aveva indotta a sottoporsi all’intervento poi eseguito dal dott. G. M.; se adeguatamente informata in ordine ai rischi di complicazione, tuttavia, avrebbe ragionevolmente rifiutato di soggiacere all’intervento; stanti le riferite complicazioni, lo stesso giorno delle dimissioni  era stata ricoverata presso l’Ospedale Villa Salus di Mestre e successivamente dal 19 giugno alla fine del luglio 1998 presso l’Ospedale San Camillo di Venezia Lido, ove era stata sottoposta a terapie di rieducazione neuromotoria, senza purtroppo ottenere alcun miglioramento; in data 30.10.1998 si sottoponeva a visita medico-legale, dalla quale emergeva che era praticamente impossibilitata a muoversi, riuscendo a deambulare trascinando faticosamente l’arto inferiore destro, mentre l’arto superiore destro risultava perennemente flaccido; inoltre non era più in grado di pronunciare correttamente le parole e presentava una marcata confusione mentale e frequenti stati depressivi con cambio di umore; il riferito quadro clinico attuale doveva ritenersi alquanto grave e le possibilità di conseguire un miglioramento in futuro erano praticamente inesistenti.

            Si costituiva l’U.L.S.S. 13 e resisteva alla domanda proposta. Deduceva la convenuta che alla fine del 1997 l’attrice, già sottoposta presso l’Ospedale di Padova ad un intervento al cuore, si era rivolta all’Ospedale di Mirano, dove era stata sottoposta ad accurati esami, all’esito dei quali si evidenziava la necessità di procedere all’intervento di sostituzione valvolare mitroaortica; in data 2.12.1997 era stata sottoposta ad una nuova visita, nel corso della quale, alla presenza dei familiari, i medici rappresentavano che non solo la valvola si era richiusa, ma a ciò si era aggiunta una stenoinsufficienza aortica con aggravamento della condizione emodinamica; in occasione di tale visita erano stati sottolineati i rischi dell’operazione, quantificati intorno al 20/25% (misura includente il rischio intrinseco dell’intervento e di quello collegato alla sua pregressa condizione); edotta in merito alla possibilità di sostituzione di entrambe le valvole malate ed ai benefici correlati, nonché prospettata la possibilità di impiantare una protesi biologica ovvero una meccanica, la *** aveva manifestato la preferenza per quest’ultima, concordando, tuttavia, che la scelta definitiva sarebbe avvenuta al momento del ricovero; il 25.2.1998, precedente quello dell’intervento, la paziente era stata nuovamente informata dall’anestesista in merito alle modalità ed ai benefici dell’interevento, nonché in ordine ai rischi dello stesso, alle complicazioni, inclusa la possibilità di un esito letale; alla presenza di terzi la paziente aveva sottoscritto il consenso informato anche per l’effettuazione del test volto ad accertare la presenza di anticorpi HIV e per un’eventuale trasfusione di sangue.

         Concludeva la convenuta in ordine all’assenza di qualsiasi profilo di responsabilità a carico dei sanitari, avendo questi ultimi informato correttamente ed esaurientemente la paziente in ordine alla natura, alle modalità ed ai rischi dell’intervento di sostituzione della valvola mitroaortica.

Radicato il contraddittorio, all’esito dell’udienza di prima comparizione erano concessi i termini per il deposito di memorie ai fini di cui all’art. 180, comma 2, c.p.c. A seguito di istruttoria orale e documentale, disposta C.T.U., la causa era trattenuta in decisione sulle conclusioni epigrafate all’udienza del 5.3.2004, previa concessione dei termini per il deposito degli atti ex art. 190 c.p.c.

MOTIVI DELLA DECISIONE

            Non è in discussione in questa sede la sussistenza, o no, della responsabilità della struttura sanitaria convenuta in ordine alla adeguatezza delle prestazioni rese in occasione dell’intervento di sostituzione valvolare mitro-aortica, quanto l’inadempienza da parte dei sanitari da quella dipendenti rispetto all’obbligo di informazione in ordine ai rischi ed alle eventuali complicazioni correlabili all’intervento. Complicazioni, queste ultime, in fatto verificatesi nell’immediatezza del decorso post-operatorio e consistite in un fenomeno di emiparesi ed afasia.

            Per  quanto,  come  emerso  nel  corso  dell’istruttoria,  all’attrice  sia

stato fatto sottoscrivere in data 24.2.1998 il modulo per il consenso informato anestesiologico e chirurgico (cfr. il doc. 4 del fascicolo dell’attrice), la questione oggi in esame non può certo ridursi all’espletamento di un passaggio di natura burocratica. Infatti, il consenso deve essere il frutto di una relazione interpersonale tra i sanitari ed il paziente sviluppata sulla base di un’informativa coerente allo stato, anche emotivo, ed al livello di conoscenze di quest’ultimo. In altri termini, la conformità della condotta dei sanitari rispetto all’obbligo di fornire un  adeguato bagaglio di informazioni deve essere valutata non tanto sul piano tecnico-operatorio, quanto sulla natura dell’intervento, sull’esistenza di alternatitive praticabili, anche di tipo non cruento, sui rischi correlati e sulle possibili complicazioni delle diverse tipologie di cura tali da compromettere il quadro complessivo del paziente, segnando il passaggio, come icasticamente osservato da una prestigiosa dottrina, dalla fase dell’assenso a quella del consenso, ossia del convergere delle volontà verso un comune piano di intenti.

In tal senso  l’art. 31 dell’allora vigente codice di deontologia medica (approvato il 24-25 giugno 1995) disponeva che: “Il medico non deve intraprendere attività diagnostica o terapeutica senza il consenso del paziente validamente informato. Il consenso, in forma scritta nei casi in cui per la particolarità delle prestazioni diagnostiche o terapeutiche o per le possibili conseguenze sulla integrità fisica si renda opportuna una manifestazione inequivoca della volontà del paziente, è integrativo e non sostitutivo del consenso informato di cui all'art. 29. Il procedimento diagnostico e il trattamento terapeutico che possano comportare grave rischio per l'incolumità del paziente, devono essere intrapresi, comunque, solo in caso di estrema necessità e previa informazione sulle possibili conseguenze, cui deve far seguito una opportuna documentazione del consenso”. Infatti, in base all’art. 29 citato: “Il medico ha il dovere di dare al paziente, tenendo conto del suo livello di cultura e di emotività e delle sue capacità di discernimento, la più serena e idonea informazione sulla diagnosi, sulla prognosi, sulle prospettive terapeutiche e sulle verosimili conseguenze della terapia e della mancata terapia, nella consapevolezza dei limiti delle conoscenze mediche anche al fine di promuovere la migliore adesione alle proposte diagnostiche-terapeutiche. Ogni ulteriore richiesta di informazione da parte del paziente deve essere comunque soddisfatta. Le informazioni relative al programma diagnostico e terapeutico, possono essere circoscritte a quegli elementi che cultura e condizione psicologica del paziente sono in grado di recepire ed accettare, evitando superflue precisazione di dati inerenti agli aspetti scientifici. Le informazioni riguardanti prognosi gravi o infauste o tali da poter procurare preoccupazioni e sofferenze particolari al paziente, devono essere fornite con circospezione, usando terminologie non traumatizzanti senza escludere mai elementi di speranza. La volontà del paziente, liberamente e attualmente espressa, deve informare il comportamento del medico, entro i limiti della potestà, della dignità e della libertà professionale. Spetta ai responsabili delle strutture di ricovero o ambulatoriali, stabilire le modalità organizzative per assicurare la corretta informazione dei pazienti in accordo e collaborazione con il medico curante”.
            Una volta chiarito che il problema della relazione informativa tra medico e paziente, nel costituire parte integrante del contratto di assistenza sanitaria intercorrente tra il paziente e la struttura sanitaria, non potendo lo stesso più essere chiuso in un obbligo di natura precontrattuale attinente al piano dell’art. 1337 c.c., né ridursi a quello meramente accessorio e strumentale rispetto alle prestazioni di diagnosi, di cura o di esecuzione dell’eventuale intervento chirurgico, per essere assurto al livello di piena autonomia nell’ambito del diritto all’autodeterminazione in ordine all’esistenza dell’individuo, senza per questo costituire l’elemento scriminante dell’attività medica, non resta che verificare se ed in quali termini siffatta obbligazione sia stata adempiuta nell’ambito degli incontri che hanno indotto la paziente a ricoverarsi ed a sottoporsi all’intervento di sostituzione valvolare.

            Non v’è bisogno di alcun riscontro per sostenere che versandosi in campo contrattuale l’onere della prova in ordine all’adempimento dell’obbligo di informazione incomba sul soggetto convenuto (cfr. Cass. 23-05-2001, n. 7027). Il teste G., dirigente medico presso il reparto di cardiochirurgia dell’Ospedale di Mirano, ha affermato: “parlai con la sig.ra Mantovan e le rappresentai i rischi connessi al tipo di intervento cui doveva sottoporsi. Si trattava comunque di un intervento di routine. Considerato che la signora aveva già avuto un episodio di embolia cerebrale, probabilmente le dissi che vi era il rischio di lesioni permanenti, tant’è che ho fatto eseguire una Tac cerebrale e un EEG. La visita preoperatoria con la sig.ra Mantovan durò circa un’ora, probabilmente le dissi che si trattava di un intervento di routine. Non ricordo se la signora manifestò paura per l’intervento.   Posso   riferire   che    se   la   signora   manifestò   paura  per

l’intervento la tranquillizzai”.

            Senonché le indicazioni appena riferite sono contraddette da quanto dichiarato dalla teste M.L. (sorella dell’attrice), la quale presente durante la prima visita fatta dal dott. G. ha riferito: “ricordo che il dottore illustrò tutto l’intervento, disse che il ricovero sarebbe durato 10 giorni e che mia sorella sarebbe stata in sala rianimazione per tre giorni. Nulla disse  in merito al rischio di lesioni permanenti …Ricordo che qualche giorno prima dell’intervento il dott. G. chiamò mia sorella per dirle che poteva ricoverarsi. Poiché mia sorella aveva paura dell’intervento il dott. Giacomin la rassicurò. Ciò posso riferire per averlo appreso da mia sorella. Ero presente al momento della telefonata…”. Che l’attrice fosse particolarmente impaurita per l’operazione (reazione pienamente comprensibile) emerge anche dalla testimonianza del Madarena (figlio dell’attrice), il quale ha ricordato che il giorno del ricovero per tranquillizzare sua madre, dopo una conversazione dal tono colloquiale, il dott. Giacomin disse che si trattava di un intervento di routine e le mostrò altri pazienti già operati in precedenza. Il dato, apparentemente relegabile nel quadro delle reazioni soggettive, in realtà rileva proprio al fine di calibrare l’ambito di estensione della prestazione informativa al fine di promuoverne la massima adesione alle proposte diagnostico-terapeutiche, come espresso nell’art. 29 del codice citato.

            Nessun apporto a sostegno della difesa di parte convenuta sovviene dalla testimonianza dell’anestesista (dott.ssa D.), la quale, come appreso, provvide a raccogliere la sottoscrizione della paziente sul modulo indicato. La teste ha precisato che (la ***) “era una paziente ansiosa per cui con qualche difficoltà ho potuto effettuare la visita anestesiologica… la visita l’ho effettuata due giorni prima dell’intervento, e in tale occasione ho fatto sottoscrivere il modulo per il consenso informato. Riconosco nel doc. 4 attoreo il modulo per il consenso informato. Ho informato la Mantovan in ordine ai rischi dell’operazione ma dal punto di vista anestesiologico, indicandole l’attività cui sarebbe stata sottoposta a partire dalla cannula al successivo risveglio … Non mi sono occupata dei profili cardiologici, poiché esulanti le mie competenze”.

            Da tali indicazioni non appare provato, dunque, l’espletamento della prestazione informativa in ordine ai rischi ed alle possibili complicazioni dell’intervento. Nozioni che, come già detto, debbono essere somministrate in funzione della capacità di comprensione della paziente. Ciò non è avvenuto in occasione della visita eseguita dal dott. G., tant’è che lo stesso ha riferito di aver probabilmente informata la paziente in ordine al rischio di lesioni permanenti, pur dichiarando di aver rappresentato i rischi connessi al tipo di intervento, emergendo dalle dichiarazioni delle teste Mantovan una indicazione di segno contrario. Ciò può significare o che l’informazione non fu resa affatto ovvero non fu espressa con linguaggio pienamente comprensibile da chi tecnico non è. In ogni caso un’informazione fornita in modo non pienamente comprensibile dall’intercolutore, nella sostanza non è in grado di assolvere la sua funzione ed equivale ad una non informazione, ossia l’esatto contrario del dovuto.

            Ad ogni modo non può non rilevarsi come il minor livello di interesse della teste M.L., rispetto alla posizione del dott. G., ben giustifichi in questa sede la preminenza riservata al suo racconto.

            Si consideri ancora che il fatto stesso che il modulo per il consenso sia stato fatto sottoscrivere il giorno del ricovero, avvenuto il 24.2.1998, è rappresentativo di una non adeguata valorizzazione del problema da parte della struttura sanitaria, tanto più che, come appreso, il consenso fu raccolto dall’anestesista, dando per scontata la definizione della questione sul piano cardiologico. Ma così non è stato.

            Senza per questo voler contraddire quanto riferito più sopra, probabilmente al fine di rendere meno problematica la prova relativa, sarebbe stato quantomai opportuna, come peraltro segnalato dal C.T.U., una maggiore puntualizzazione in ordine ai rischi ed ai possibili sviluppi all’interno dello stesso modulo. Questo lo si afferma non tanto per svilire al piano cartaceo il problema in esame, ma per meglio calibrare la stessa possibilità di prova diretta o contraria, dovendo comunque valutarsi le modalità ed il tipo di informazioni rese al paziente.

Siffatta affermazione si basa su una regola di distribuzione dell’onere della prova in base alla prossimità delle parti rispetto alla fonte di prova. È evidente che pretendere in capo al paziente la puntuale allegazione e la dimostrazione del tipo di informazione resa (sebbene nel caso di specie, la teste Mantovan ha fornito un quadro sufficientemente chiaro)  pare irrealizzabile non foss’altro per l’evidente asimmetria informativa esistente tra le parti.  Per contro, esigere dalla struttura sanitaria di documentare e conservare traccia di quanto effettuato, anche in considerazione del trattamento e della conservazione dei dati personali ai sensi dell’allora vigente l. 675/1996 (ed ora del D.leg. 196/2003), appare, oltre che più ragionevole, certamente in linea con la regola di cui all’art. 1218 c.c., da leggersi in unione con l’art. 1176, comma 2, c.c. (cfr. Cass. 23 maggio 2001, n. 7027;  sez. unite 30 ottobre 2001, n. 13533; 10-5-2002, n. 6735; 28-5-2004, n. 10297).

            In altri e più diretti termini, l’affermazione di responsabilità della convenuta non si basa su una regola inferenziale, che trae dalla scarsità di dati disponibili il difetto di diligenza del personale, quanto piuttosto dal fatto che  a causa di tale assenza di informazioni non è dato sapere cosa sia stato comunicato alla paziente e, quindi, far ritenere assolto l’obbligo di informazione.

Nell’ambito di una vicenda di natura contrattuale, laddove, come nel caso di specie, emerga una situazione di carenza di prova in merito all’ambito delle informazioni rese alla paziente, non v’è spazio per una discussione in merito alla sussistenza del nesso di causa sul piano dell’an (cfr. indicativamente Cass. 13-12-2001, n. 15759), ponendosi a valle il problema correlabile alla c.d. causalità giuridica ex art. 1223 c.c., che presuppone la già avvenuta identificazione dell’evento oggetto di addebito.  Evento, quest’ultimo, da intendersi come inadempimento rispetto all’obbligazione informativa, come tale incidente in via diretta sul diritto della paziente all’autodeterminazione in ordine alle scelte involgenti la propria salute, poco rilevando sapere come l’attrice si sarebbe comportata qualora avesse avuto piena contezza in ordine ai rischi di complicazioni, stimati nell’ordine del 20% da parte del consulente. Quello che rileva è che la *** non è stata in condizioni di esprimere un consenso realmente informato, non senza rilevare che l’eventuale prova diretta a dimostrare che, quand’anche informata, la paziente avrebbe optato per l’intervento a fronte dell’elevato rischio connesso alla sua condizione di soggetto affetto da stenosi mitro-aortica incombeva sulla convenuta (cfr. Cass., sez. III, 10-05-2002, n. 6735).

            A questo punto, una volta accertata l’inadempienza della convenuta rispetto all’obbligazione contrattuale, sebbene da più parti si è rilevato che quello del consenso informato esula il piano strettamente contrattuale, ossia è un problema ben diverso da quello che attiene al procedimento di formazione dell’accordo contrattuale, fondandosi sulla natura stessa dell’attività medica, occorre passare all’esame dell’ambito delle conseguenze pregiudizievoli risarcibili.

Al riguardo il giudizio di valutazione, esulante il piano della causalità materiale, perché involgente quello della causalità giuridica deve operarsi in base all’art. 1223 c.c. In altri termini, il criterio di selezione delle conseguenze risarcibili, che come autorevolmente sostenuto involge un problema di opportunità, non può essere governato in base agli stessi parametri che sovraintendono al piano della causalità naturale ed in primo luogo secondo il criterio della condicio sine qua non. È pur vero che in base al giudizio controfattuale basato sull’eliminazione mentale dell’antecendente l’evento in concreto accaduto (emiparesi ed afasia) non si sarebbe verificato, ma in quest’ordine di idee, allora, dovrebbe trovare piena applicazione una valutazione basata sulla comparazione dei rischi, ossia confrontare il rischio di complicazione collegato all’intervento con la possibile evoluzione del quadro di salute della paziente nel caso contrario.

In questa prospettiva la bilancia del giudizio dovrebbe pendere dal lato della convenuta, considerato che secondo il consulente tecnico d’ufficio la patologia da cui era affetta la Mantovan era soggetta ad inevitabile evoluzione sfavorevole a breve, sì da giustificare pienamente l’intervento.

            Senonché una tale prospettiva risulta fuorviante, posto che finisce per non tenere conto del fatto che l’inadempimento non investe le modalità di esecuzione dell’operazione chirurgica, ma l’obbligazione informativa, con il rischio di mettere in secondo piano l’interesse oggetto di tutela: il diritto alla scelta della paziente. Non ignora il giudicante che ben più autorevoli consessi hanno ritenuto il nesso di causa tra la lesione della salute, legata alla complicazione di un trattamento clinico, e la violazione dell’obbligo di una piena informazione da parte dei sanitari (cfr. Cass. 6.10.1997, n. 9705; 24-9-1997, n. 9374; App. Genova 5-4-1995). Osserva al riguardo lo scrivente che una tale affermazione, probabilmente, è il frutto di una configurazione del consenso del paziente quale scriminante dell’operato del medico. Impostazione, quest’ultima, ormai da tempo recessiva, per essere stato da tempo portato in esponente che l’attività medico-chirurgica si autogiustifica in funzione della sua utilità sociale, mentre il consenso attiene al piano dei diritti della personalità e, più nel dettaglio, quello all’autodeterminazione in ordine alla propria salute. Diversamente argomentando si dovrebbe dare piena cittadinanza anche alle nostre latitudini ai casi di wrongful life (come accaduto oltralpe nel caso affrontato da Cour de Cassation, ass. plen. 17.11.2000, in Nuova giur. civ. comm., 2001, I, 209), ossia alla pretesa risarcitoria del soggetto che nasce affetto da gravi patologie a seguito dell’erronea diagnosi prenatale con la correlativa perdita per la partoriente della   possibilità  di    decidere   in    ordine    alla   opportunità,   o   no,   di  interrompere la gravidanza.

            Seguendo  la  traiettoria  prescelta dal giudicante, comunque allegata

dall’attrice, ma allargata al piano della salute, appare possibile circoscrivere l’ambito del pregiudizio di natura non patrimoniale (l’allegazione fatta in comparsa conclusionale alle spese per la futura assistenza è tardiva rispetto a quanto dedotto nel limite per la formazione del thema decidendum) a quello correlato al piano esistenziale, da intendersi come riparazione correlata alla privazione del diritto alla scelta consapevole da parte della Mantovan. Data la particolarità delle prestazioni, in quanto incidenti sulla sfera personale dell’individuo, non è possibile escludere la risarcibilità di una tale posta di danno in base all’art. 1225 c.c., posto che, pur non essendo possibile operare una stima economica esatta del pregiudizio connesso alla lesione di un interesse non patrimoniale, comunque la natura dell’attività svolta deve dare per scontato che la prestazione involge la sfera dell’individuo, sicché il pregiudizio di natura non patrimoniale può essere risarcito senza dover necessariamente far leva su un concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale. Infatti, la rilettura in chiave costituzionale dell’art. 2059 c.c. operata dalla Cassazione (sentenze 31-5-2003, nn. 8827 e 8828) fa sì che anche in ambito contrattuale possa darsi rilievo a pregiudizi di natura non patrimoniale, sempre che i correlativi interessi possano ritenersi inclusi nell’ambito di tutela del contratto.

            Al riguardo, consapevole della mancanza di una scala parametrata su basi oggettive o che quantomeno siano in grado di tradurre in termini economici oggettivi il pregiudizio patito, non resta che una valutazione puramente equitativa, liquidando all’attualità il danno patito dall’attrice nella somma di Euro 100.000. Su tale somma, inoltre, saranno dovuti gli interessi legali dall’evento al saldo.

Tale valore, per quanto stocastico, tiene conto della specificità del caso di specie, posto che l’operato dei sanitari anche se non censurabile sul piano delle modalità di esecuzione dell’intervento, comunque ha finito per espropriare l’attrice del suo diritto a scegliere in ordine alla propria esistenza. Ora in una visione della libertà come assenza di “coercizione” da parte di terzi, non può non rilevarsi come quello all’autodeterminazione in ordine alla propria salute costituisca un valore primario di rango costituzionale, da cui non si può prescindere, pena la rinuncia al valore di base della nostra società.

La domanda proposta, pertanto deve essere accolta e, per l’effetto, l’U.L.S.S. 13, in persona del Direttore generale p.t., deve essere condannata al pagamento, a titolo di risarcimento danni, della somma di Euro 100.000, oltre gli interessi legali dall’evento al saldo.

Le spese di lite, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

Spese di C.T.U. a definitivo carico della convenuta.

Sentenza provvisoriamente esecutiva per legge.

P.Q.M.

            Il Tribunale, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe riportata, respinta ogni altra  domanda o eccezione, così provvede:

1) in accoglimento della domanda proposta, condanna l’U.L.S.S. 13, in persona del Direttore generale p.t., al pagamento, a titolo di risarcimento danni per le causali indicate, in favore di *** della somma di Euro 100.000, oltre gli interessi legali dall’evento al saldo;

2) condanna l’U.L.S.S. 13, in persona del Direttore generale p.t., alla rifusione in favore dell’attrice delle spese di lite, liquidate in complessivi Euro 13.431,49, di cui Euro 396,68 per spese, Euro 3.072,35 per diritti ed Euro 9.962,46 per onorari, oltre IVA e CPA se dovuti per legge;

3) spese di C.T.U. a definitivo carico della convenuta;

4) sentenza provvisoriamente esecutiva per legge.

            Venezia, li  24 giugno 2004

                                                                                              Il Giudice Unico

Il Collaboratore di Cancelleria

Depositata in cancelleria

Il Collaboratore di Cancelleria

 

PUBBLICATA IL 4 OTTOBRE 2004

 

 

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