L’avvocato nella “rete”: uso di Internet e questioni deontologiche nell’esercizio della professione forense
di Marzio V. Vaglio*
Intervento
al Convegno di Lanciano del 17 e 18 maggio 2002, “Internet e Diritto fra
tecnologia e disciplina giuridica”, organizzato dall’Ordine degli Avvocati
del Foro di Lanciano e da www.cyberlex.it.
1. Premessa.
L’enorme, capillare, diffusione dell’Internet, cui si è assistito negli
ultimi anni, ha portato ovunque e in ogni campo a ridisegnare – qualche volta
a re-inventare – gli scenari tradizionali della comunicazione,
dell’informazione, della circolazione delle idee, della condivisione delle
risorse culturali, scientifiche, artistiche, economiche, commerciali e
professionali.
La globalità ed acentricità dell’Internet rappresenta uno degli aspetti più
caratterizzanti del fenomeno e, però, allo stesso tempo, anche un fattore
problematico, laddove la globalità si scontra con esigenze (normative, etiche,
regolamentari, di costume e quant’altro) geograficamente localizzate e la
extraterritorialità mal si concilia con la effettività di eventuali istanze di
controllo, prevenzione, repressione.
Si svolge tale premessa solo per evidenziare, almeno sommariamente, una
difficoltà, per così dire, “ontologica” nel trattare efficacemente le
questioni problematiche generate dall’Internet e dalla diffusione di esso.
In sintesi, è tuttora aperto – e lungi dal trovare una risposta definitiva
– il dibattito tra chi propugna la necessità e l’urgenza
dell’introduzione di nuove, specifiche, norme regolatrici di ogni aspetto
dell’Internet e chi, invece, ritiene che l’Internet, come spazio
dell’attività dell’uomo, risulti ampiamente ed efficacemente soggetto al
diritto vigente che, tranne particolarissimi casi in cui sarebbero eventualmente
necessarie norme di dettaglio o di adattamento (per lo più di natura tecnica),
offre adeguata risposta ad ogni istanza di disciplina concreta.
Una terza posizione sul punto, che, a ben vedere, costituisce uno sviluppo della
seconda appena ricordata, muovendo dal carattere congenito della
extraterritorialità dell’Internet, sottolinea la necessità di un
coordinamento e di una armonizzazione a livello internazionale e sovranazionale
degli ordinamenti giuridici.
Come si può cogliere da tale brevissimo riepilogo, è grande l’incertezza su
come debbano essere affrontate e risolte le varie (numerose) questioni di
regolamento dell’Internet.
Ciò non ostante, l’atteggiamento più prudente ed anche scientificamente più
corretto impone di trattare tali problemi alla luce di un principio
fondamentale: quello dell’autosufficienza e della capacità espansiva degli
ordinamenti. Non si può pensare che esista alcun caso in cui l’attività
dell’uomo, ovunque e comunque estrinsecata, possa essere giuridicamente
indifferente e, così, sottratta a qualsiasi regolamento. L’imperativo che
allora si pone all’interprete e all’operatore, così come all’Autorità,
è quello di ricercare innanzitutto nel diritto positivo vigente la
qualificazione di questo o quel comportamento, di questa o quella attività.
Venendo al punto che riguarda direttamente il tema del presente intervento, è
noto a tutti come, anche in Italia, il mondo delle libere professioni si sia
velocemente avvicinato alla comunicazione attraverso l’Internet. Per esempio,
sono sempre più diffuse le home page di architetti, avvocati, commercialisti,
notai, medici e così via; dai primi timidi e pionieristici esperimenti di
qualche ardito, si è passati ad una sempre più intensa e qualificata presenza
sul web di professionisti ed associazioni di professionisti, nonché degli
stessi ordini e sindacati professionali.
Nel nostro ordinamento, ove le professioni liberali sono fortemente
regolamentate il problema della rispondenza della visibilità sul web di un
professionista ai canoni deontologici è stato finora considerato con specifico
riguardo all’esigenza di stabilire limiti o imporre divieti alla pubblicità.
Sempre più numerosi avvocati e studi legali, in effetti, hanno dato vita, anche
in Italia, ad una proliferazione di siti web, semplici home page o veri e propri
portali di informazione giuridica, che – sotto certi aspetti – ha dello
straordinario: è senz’altro, nella nostra esperienza professionale, forse il
primo e, finora, l’unico esempio di massiccio ricorso a strumenti di
comunicazione di massa da parte della categoria forense.
A fronte di tale situazione, ovviamente, si è posta immediatamente la questione
della compatibilità del sito web dell’avvocato con le regole deontologiche
che, dapprima (fino al 1999), vietavano e, oggi, disciplinano con limitazioni la
pubblicità degli avvocati. Ne è derivata, per la novità del fenomeno e per la
sostanziale scarsa conoscenza delle logiche e delle caratteristiche del web, una
certa incertezza, lungi a tutt’oggi dall’essere efficacemente superata, nel
definire ciò che è consentito e ciò che deve essere evitato. Di ciò,
tuttavia, si darà conto nella parte conclusiva del presente lavoro.
Occorre invece affermare senza pudori che la questione della pubblicità
attraverso il web, pur così sentita e dibattuta – non solo nell’ambito
della professione forense – non è l’unica né, per sé, a sommesso avviso
di chi scrive, la più urgente o la più delicata.
2. Un punto di vista autorevole… ma poco noto: le linee guida per gli
avvocati europei sulla comunicazione elettronica ed Internet.
Il Consiglio degli ordini forensi dell’Unione europea (CCBE) ha pubblicato nel
novembre del 2000 un interessantissimo quanto, almeno in Italia, misconosciuto
documento, intitolato “Communication electronique et Internet”[1], che
contiene preziose indicazioni per l’argomento oggi trattato.
Naturalmente non si tratta di un testo vincolante, tuttavia, per
l’autorevolezza della fonte e per essere espressione di valori comuni e
condivisi dell’avvocatura europea, meriterebbe senza alcun dubbio di essere
tenuto in adeguata considerazione, soprattutto oggi, alla vigilia della riforma
del codice deontologico italiano.
Da un punto di vista più sostanziale, il documento ha il notevole pregio di
proporre regole di condotta assai concrete ed assolutamente aderenti alle
caratteristiche di Internet e, più in generale, delle comunicazioni per via
telematica.
Il canone generale è il richiamo alle norme professionali, non solo
deontologiche, che anche nell’ambito telematico conservano la loro naturale
efficacia. Accanto alle norme professionali, poi, deve sempre essere assicurata
l’osservanza di norme specifiche, particolarmente rilevanti in questo
contesto, quali quelle sulla protezione dei dati personali o sul diritto
d’autore.
Secondo il CCBE, è fondamentale l’esigenza della massima trasparenza e della
correttezza: l’avvocato dovrà assicurare, quanto al contenuto della posta
elettronica o dei siti web, che i dati e le informazioni divulgate siano
veritieri ed aggiornati e che siano sempre disponibili quanto meno le
informazioni minime essenziali relative al nome e all’indirizzo del
professionista e dello studio legale, con l’indicazione degli associati e
collaboratori. Nel contempo, dovrà essere sempre reso evidente quale sia la
natura della consulenza legale (qui intesa in senso molto lato) eventualmente
disponibile per via telematica, sì da prevenire ogni possibile equivoco presso
i terzi e scongiurare eventuali responsabilità dell’avvocato per pareri poco
accurati o addirittura errati.
Sempre in questa stessa ottica, per quanto riguarda l’Internet, si raccomanda
che nel caso si utilizzino, sul sito web dell’avvocato, link o altri
riferimenti a terzi, questi non siano di per sé offensivi per la professione
forense o, comunque, incompatibili con i principi informatori di essa. Per fare
un esempio, è evidente che in un sito di un avvocato, o comunque ad esso
riferibile, non potrebbe essere tollerato l’inserimento di un link, poniamo,
ad un sito web avente contenuti pornografici. Sarebbe anche da discutere, sempre
per fare degli esempi, se e in che limiti possa essere consentito ospitare dei
link “promozionali” dell’altrui attività economica.
Le indicazioni più interessanti riguardano però il problema dei rischi
connaturati alla rete Internet. Sembrerebbe un’esigenza scontata quella di
raccomandare la massima attenzione nell’utilizzo degli strumenti telematici,
eppure non si può non constatare che finora questo argomento è stato
inspiegabilmente trascurato, sia nella discussione scientifica sia – almeno
per quanto risulta a chi scrive – nell’agenda dei lavori dei nostri
riformatori della deontologia forense, che finora si sono concentrati
soprattutto sulla questione della pubblicità e dei limiti di essa.
L’avvocato, che utilizza gli strumenti telematici, deve avere scrupoloso
riguardo ai rischi ad essi connessi: l’avvocato è tenuto, in altre parole, ad
un uso consapevole e responsabile delle nuove tecnologie. Pertanto, egli dovrà
sviluppare una strategia di sicurezza intesa a scongiurare le intercettazioni
deliberate, le attività di pirateria informatica, le intrusioni (anche
involontarie), i virus e gli altri software insidiosi.
Ma non basta: sempre con un occhio di riguardo alla trasparenza ed alla
correttezza, l’avvocato ha anche il dovere di non utilizzare trasmissioni non
protette (ossia, non cifrate) senza espresso consenso del cliente, previamente
reso edotto della natura confidenziale delle informazioni scambiate con il
proprio legale.
Altro punto rilevante e, per certi versi particolarmente suggestivo per le
evidenti implicazioni con la natura strettamente fiduciaria che deve
contraddistinguere il rapporto tra avvocato e cliente, è la raccomandazione che
il professionista, quando intrattiene una relazione professionale per via
telematica, abbia sempre cura di verificare l’identità del “cliente on
line”. Certamente, non è del tutto chiaro che cosa significhi, in concreto,
“verificare l’identità del cliente” e fin dove si debba estendere un
siffatto controllo: basterà che il cliente si firmi con un nome e un cognome ed
indichi un indirizzo di superficie? Una possibile risposta a questa esigenza
verrà senza dubbio dalla diffusione degli strumenti di firma digitale, con cui
l’identità dell’autore di un messaggio viene obiettivamente certificata. Da
altro punto di vista, la verifica dell’identità del cliente, potrebbe offrire
un argomento ulteriore contro l’ammissibilità dell’offerta di prestazioni
gratuite di consulenza a soggetti indeterminati ed indiscriminati.
Aprendo una piccola parentesi, occorre ricordare, a proposito dell’obbligo di
verificare l’identità del cliente, che il nostro C.N.F., con delibera del 13
novembre 2001, ha proposto di integrare l’art 36 del codice deontologico con i
seguenti canoni:
II) L’avvocato prima di accettare l’incarico deve accertare l’identità
del cliente e dell’eventuale suo rappresentante.
III) In ogni caso, nel rispetto dei doveri professionali anche per quanto
attiene al segreto, l’avvocato deve rifiutare di ricevere o gestire fondi che
non siano riferibili a un cliente esattamente individuato.
IV) L’avvocato deve rifiutare di prestare la propria attività quando dagli
elementi conosciuti possa fondatamente desumere che essa sia finalizzata alla
realizzazione di una operazione illecita.
Il documento del CCBE, infine, alle linee guida sopra cennate fa seguire un “annexe”,
più articolato e dettagliato, che ne costituisce allo stesso tempo una sorta di
commentario ed un completamento: per motivi di spazio, in questa sede è
opportuno rimandare ad una lettura più approfondita del testo originale
(http://www.ccbe.org/Documents/Fr/commelfr.pdf).
3. Consulenza on line:
un’espressione equivoca e fuorviante.
Il successo di Internet risiede in gran parte nella straordinaria capacità
della rete di diffondere a livello planetario, in tempo reale e a costi
irrisori, qualsiasi tipo di informazione. Da un punto di vista, per dir così,
filosofico, Internet rappresenta probabilmente lo strumento di democrazia e
libertà più importante della storia, consentendo a chiunque, senza eccezioni,
di mettere in circolazione le proprie idee, con la certezza che ben
difficilmente – una volta consegnate al web – potranno essere oggetto di
censure, controlli, limitazioni di sorta.
Da un punto di vista più pragmatico, anche il mondo delle professioni non ha
potuto restare indifferente ad un tale potere di seduzione ed ha quasi subito
compreso che l’Internet e le nuove tecnologie rappresentano una concreta
possibilità di migliorare la qualità e velocità dei propri servizi.
Fin qui nulla di male. Il problema vero è che la [apparente] facilità dello
strumento e delle strategie di comunicazione sul web, hanno ingenerato la
malintesa convinzione che basti “metter su” una home page qualsiasi, per
ritrovarsi, immediatamente, sommersi da richieste di prestazioni professionali e
da contatti di potenziali clienti.
Di qui, il delirante dilagare di siti web che offrono la famigerata
“consulenza on line”, il più delle volte gratuita (alla stregua di
un’altrettanto malinteso spirito free della rete) ma sempre più spesso a
pagamento (con formule, oltretutto, alquanto dubbie sotto il profilo della
corrispondenza alle tariffe professionali obbligatorie nonché sicuramente
vietate alla stregua del divieto di accaparramento di clientela di cui
all’art. 19 del codice deontologico).
Innanzi tutto, occorre sottolineare che l’espressione “consulenza on line”
non vuol dir nulla: l’espressione “on line” (letteralmente, in linea),
invero, per avere un significato corretto dovrebbe riferirsi esclusivamente a
trasmissioni “in diretta”, con i due interlocutori – professionista
cliente – che si “parlano” nella stessa dimensione di tempo. In questo
senso, è vera e propria consulenza on line la cara, vecchia, “consultazione
telefonica”, peraltro espressamente contemplata dalla tariffa forense. Sul
web, consulenza on line potrebbe essere solo quella che si attua attraverso la
video conferenza o programmi di instant messaging, chat e quant’altro.
In realtà, quella che comunemente viene contrabbandata “on line”, giacché
il termine è oramai di moda e fa molto new economy, non è altro che consulenza
“off line”, attraverso la posta elettronica ovvero anche la messa a
disposizione di informazioni su una pagina web.
Questa precisazione non vuole essere fine a sé stessa: essa mira ad evidenziare
come il nodo della questione non stia nel ragionare della consulenza on line o
off line, che dir si voglia, bensì nel prendere in considerazione il fatto,
oramai acquisito, che oggi, con la diffusione delle nuove tecnologie, la
prestazione professionale ben si presta ad essere svolta anche per via
telematica.
In fondo, non è poi questa grande novità: che cos’è l’utilizzo
irrinunciabile del fax e del telefono, se non lo svolgimento di una prestazione
professionale per via telematica? È appena il caso di ricordare che tanto la
telefonata e il telefax quanto la mail o la chat “scorrono” sul medesimo
doppino telefonico.
Non si vuole banalizzare ed è pur vero che telefonia e web sono distanti anni
luce; ma è altrettanto vero che non si deve enfatizzare, né in senso positivo
né in senso negativo, la novità della comunicazione elettronica rispetto al
recente passato.
Solo per dare un’idea di quanto concreto sia il problema, basterà ricordare
che è oramai diritto positivo, nel nostro ordinamento, il c.d. processo
telematico, che porterà, già domani, a “digitalizzare” la prestazione
professionale per eccellenza dell’avvocato: la difesa in giudizio.
La domanda pertinente da porsi, dunque, è “quali sono le regole deontologiche
che debbono ispirare l’avvocato nello svolgimento di una prestazione
professionale per via telematica?”
La risposta è semplice e non può che essere una sola: tutte, quelle vigenti.
Non è possibile, infatti, concepire l’Internet come una sorta di zona franca,
priva di regole e garanzie.
Ciò non toglie, ovviamente, che, come per ogni altro contesto normativo
preesistente, occorrerà , da un lato, procedere in molti casi ad uno sforzo di
adattamento e di interpretazione evolutiva di quelle disposizioni che, per esser
state pensate con riferimento a situazioni ed esperienze molto diverse da quella
telematica, trovano oggi un momento di applicazione problematico; d’altro
canto, laddove strettamente necessario in considerazione delle peculiarità del
fenomeno, occorrerà introdurre le opportune novelle al fine di disciplinare,
con il corretto coordinamento sistematico, quelle fattispecie del tutto nuove,
che non trovano ancora una disciplina coerente.
4. Extraterritorialità dell’Internet e ubiquità della deontologia
forense.
Un esempio interessante di norma deontologica che pone dei seri problemi di
effettività con riguardo al fenomeno telematico è il canone di cui all’art.
4 del vigente codice deontologico forense[2].
È evidente che la norma in discorso è stata concepita con riferimento al caso
di attività transfrontaliera dell’avvocato, laddove questi si trovi ad
operare in un ambito territoriale diverso da quello di appartenenza, il che, con
la libera prestazione dei servizi e la libertà di stabilimento riconosciute
dall’ordinamento comunitario, è oramai evenienza niente affatto remota.
Entro quest’ottica, il principio della territorialità dell’ordinamento
deontologico, come introdotto nel 1999, appare assolutamente adeguato al caso,
anche se esso – al di là della formulazione letterale – non pare avere
abbandonato il precedente principio dell’ubiquità (o della doppia
deontologia) accolto dalla previsione antivigente[3].
Ma che dire dell’attività professionale dell’avvocato svolta per via
telematica? Non si può non tener conto della realtà concreta del mezzo: si è
già enfatizzato il carattere extraterritoriale dell’Internet, della globalità
ed acentricità di esso.
Si potrà affermare che la prestazione telematica comunque “nasce” presso lo
studio dell’avvocato (ma sarà poi vero? Con Internet si può lavorare anche
dalla barca a vela, se uno ce l’ha…) e, quindi, la prestazione è comunque
localizzata ai fini dell’individuazione della deontologia applicabile; per
converso si potrà anche ritenere che possa valere il criterio della
localizzazione del cliente, destinatario della prestazione.
Tuttavia, sono interpretazioni che non convincono fino in fondo, essendo
strettamente condizionate a “criteri di collegamento” che non danno adeguate
garanzia di certezza e che possono condurre a soluzioni apparentemente corrette,
sotto il profilo formale, ma del tutto prive di effettività da un punto di
vista sostanziale.
Inoltre, sono soluzioni che nemmeno dal punto di vista formale assicurano
uniformità di regime a tutte le possibili casistiche in cui si può
concretizzare la prestazione telematica dell’avvocato.
Si consideri l’esempio di un avvocato che, sul proprio sito web, offre servizi
di consulenza legale oppure mette a disposizione, magari a pagamento, un
formulario di contratti o dei pareri preconfezionati su questioni giuridiche
generali. Potrebbe darsi che questa attività, lecita secondo questo o
quell’ordinamento deontologico e professionale, non lo sia altrove… e,
siccome la pagina web è disponibile a livello planetario, occorre chiedersi se
l’avvocato in questione è chiamato ad uniformarsi a tutte le deontologie
forensi del mondo.
Probabilmente la risposta adeguata a questo tipo di problemi non sta più nella
territorialità della prestazione, criterio – che anche prescindendo
dall’Internet – inizia a dimostrare tutta la sua debolezza laddove stiamo
tutti assistendo ad una smaterializzazione dei servizi, dei beni… persino
della ricchezza. Sarebbe dunque da valutare se, piuttosto, non sarebbe il caso
di ripensare all’antico principio della personalità del diritto e, nel nostro
contesto, della deontologia, imponendo così all’avvocato l’osservanza del
proprio ordinamento professionale di appartenenza a prescindere dalla
localizzazione delle sua attività o della sua singola prestazione.
Del resto, anche senza “andare all’estero” analoghi problemi si pongono
per l’attività dell’avvocato fuori del proprio foro nel territorio
nazionale: come è noto, anche la competenza disciplinare degli Ordini è ubiqua,
essendo chiamati a giudicare il comportamento dell’avvocato tanto il Consiglio
dell’ordine di appartenenza quanto quello del luogo dove è stato commesso il
fatto.
L’illecito disciplinare commesso via Internet richiama la competenza
simultanea di tutti gli ordini forensi d’Italia? Se l’illecito riguarda un
sito web, occorre guardare il luogo ove si trova il server? E se il server si
trova all’estero, viene meno la competenza disciplinare?
5. Il dovere di segretezza e riservatezza.
L’obbligo del segreto, come tutti sanno, non è solo di natura deontologica,
essendo previsto e sanzionato sia dalla norma civile sia dalla norma penale. A
tutto ciò si è aggiunta la legge sulla privacy e la regolamentazione sulle
misure minime di sicurezza, che hanno, se possibile, colmato ogni possibile
lacuna in materia.
Per quanto riguarda la deontologia forense, soccorre il canone di cui all’art.
9[4], che – si dice incidentalmente – è allo stesso tempo vincolo e
garanzia per l’avvocato.
Orbene, a sommesso avviso di chi scrive, questa è assolutamente la norma
deontologica più rilevante, da tenere nella massima considerazione
nell’attività professionale svolta per via telematica.
Si pensi soltanto all’impatto di certi virus, come il famoso Sircam, che
autoreplicandosi nel sistema colpito, diffondono a terzi, indeterminati ed
indiscriminati, stralci di documenti riservati memorizzati sul pc dello Studio
“infettato”; oppure anche ai problemi della possibilità di intrusione, ad
opera di soggetti malintenzionati, nella rete di uno Studio legale.
Altra nota dolente riguarda l’utilizzo di strumenti telematici nelle
comunicazioni professionali: avvocato/cliente; avvocato/co-difensore;
avvocato/controparte. L’argomento è davvero delicato, solo che si rifletta
sul fatto che una semplice e-mail, inviata tramite internet, ha lo stesso grado
di protezione del contenuto che ha una cartolina postale… cioè nessuna
protezione.
Pochi sono consapevoli che una comunicazione e-mail, tra il momento in cui viene
“spedita” dal computer del mittente, a quello in cui viene effettivamente
visualizzata sul computer del destinatario, compie i percorsi più diversi,
passando da server a server, in ogni capo del mondo, e restando ivi
immagazzinata senza alcuna possibilità di controllo.
Queste “debolezze” dello strumento, viste alla luce dell’obbligo
professionale del segreto, non meno che del canone deontologico della
riservatezza, rendono doveroso per l’avvocato di munirsi di cautele, offerte
dalla tecnologia, peraltro oramai positivamente imposte anche da specifiche
norme di legge.
Una risposta a queste preoccupazioni sta, per esempio, nella crittografia:
semplicissime tecniche informatiche per rendere illeggibile un documento a chi
non ne sia il legittimo destinatario.
L’utilizzo “spavaldo” della tecnologia informatica conduce dunque ad
esporsi inconsapevolmente ad insidie assai gravi, tanto più perniciose quanto
meno conosciute e controllabili dagli utenti e, soprattutto, implicanti la
diretta responsabilità dell’avvocato.
Sembra anche di poter rilevare come, del resto, non si possa invocare – da
parte in chi incorra per leggerezza in certi inopportuni o vietati comportamenti
– una incolpevole ignoranza o l’inconsapevolezza della condotta.
6. Sito web dell’avvocato e pubblicità.
Come si accennava all’inizio, il tema oggi più dibattuto di fronte
all’aumento dell’interesse degli avvocati per il web è la preoccupazione
generalizzata di evitare ogni forma non consentita di pubblicità
dell’avvocato. È senza dubbio una preoccupazione più che legittima ma, come
già si evidenziato, non così urgente come potrebbe apparire e come invece
viene avvertita dalla maggior parte.
Per inciso, se i Consigli degli Ordini conoscessero un po’ meglio il web
marketing e le strategie di comunicazione dell’Internet, probabilmente si
renderebbero conto che certe forme di web presence degli avvocati nostrani…
fanno male solo ai loro propri autori: lungi da procurare loro l’auspicata
visibilità ed un incremento di clientela, costituiscono più una insignificante
forma di goliardia telematica che un reale – ed efficace – strumento
pubblicitario. Piuttosto, si potrebbe con fondamento sostenere che non tanto il
divieto di pubblicità sia offeso da tali iniziative, quanto l’obbligo – ben
più rilevante – di cui all’art. 5 del codice deontologico forense, secondo
il quel l’avvocato deve ispirare la propria condotta all’osservanza dei
doveri di probità, dignità e decoro.
A prescindere da ciò, il pregiudizio di fondo che sembra emergere a tal
proposito è che vi sia un’assoluta equivalenza tra sito web e pubblicità.
Tale convinzione non risponde alla realtà e non può essere condivisa in
quanto, a ben guardare, non è possibile affermare che ogni forma di
comunicazione attraverso la rete Internet equivale, sic et simpliciter, ad un
messaggio pubblicitario, in quanto – a tacer del resto – non si può
trascurare il fatto che la natura pubblicitaria di un messaggio non dipende
affatto dal veicolo utilizzato per la sua diffusione. Giova a questo punto
richiamare la norma, di cui all’art. 2, 1° comma, lett. A, del D.lgs. n°
74/92, che definisce “la pubblicità” come “qualsiasi forma di messaggio
che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell’esercizio di un’attività
commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere
la vendita di beni mobili o immobili, la costituzione o il trasferimento di
diritti ed obblighi su di essi oppure la prestazione di opere o servizi”.
Solo se rispondente a questi criteri, un sito web – come qualsiasi altro tipo
di messaggio presso il pubblico – potrà essere considerato avente carattere
pubblicitario. Diversamente, esso andrà considerato alla stregua di qualsiasi
altra manifestazione del pensiero o forma di comunicazione di idee, informazioni
e quant’altro.
L’attuale art. 17[5] del codice deontologico ha superato il divieto tout court
della pubblicità per introdurre il principio della libertà
dell’informazione, con pieno riconoscimento del fondamento giuridico del
diritto di dare informazioni sull’attività professionale (Danovi), quale
autentica espressione dei principi costituzionali sulla libertà di
manifestazione del pensiero e della libertà di iniziativa economica, nonché
dei consolidati canoni – anche di matrice comunitaria – in ordina alla
libertà di concorrenza e, da ultimo, financo del principio fondamentale di cui
all’art. 10 della Convenzione dei diritti dell’uomo, sulla libertà di
espressione.
Il prossimo mese di giugno, il C.N.F. dovrebbe deliberare sulla riforma del
vigente codice deontologico e, tra i temi all’esame, vi è pure il progetto di
riforma dell’art. 17[6], come approvato il 14 dicembre 2001 dalla Commissione
deontologia presieduta dall’Avv. Remo Danovi.
Un dato di novità è rappresentato dalla particolare tecnica normativa adottata
dal C.N.F., non solo in questa materia, per la riforma, con cui verranno
introdotti appositi “regolamenti” ai singoli canoni.
In tema di pubblicità informativa, viene dettagliatamente regolato tutto ciò
che è consentito con espressa previsione che quanto non regolato debba
intendersi vietato: ne deriva, come si può leggere nel testo riportato alla
nota precedente, una disciplina articolata ma non necessariamente esauriente. Il
risultato ipotizzato non è del tutto rassicurante: l’impressione di fondo è
che una norma troppo dettagliata e, per così dire, casistica non sia la
soluzione migliore in termini di certezza e chiarezza. L’intento è
sicuramente di segno contrario, mirando evidentemente il C.N.F. a realizzare una
uniformità di regime elidendo la possibilità di interpretazioni difformi
presso gli Ordini territoriali. Tuttavia, dettare disposizioni troppo di
dettaglio può condurre al risultato opposto, laddove il principio generale si
diluisce in una spinta esemplificazione ed i casi non nominati restano senza
sicura disciplina.
7. Considerazioni conclusive: attività professionale e non.
Da ultimo, si vuole portare attenzione un’ultima considerazione. In ogni
ragionamento in tema di deontologia forense applicata al mondo telematico,
correttamene si ha esclusivo riguardo all’attività professionale in senso
proprio. Tuttavia, l’esperienza dimostra che, soprattutto per quanto riguarda
il web, l’attività dell’avvocato in rete non è sempre esclusivamente di
carattere professionale. Anzi, qualche volta non lo è affatto.
Ci si riferisce a tutta quella mole di pagine web, spesso preziosissime, in cui
gli avvocati pubblicano commenti, articoli, testi normativi, raccolte di
sentenze: un’attività che, spesso, per il suo valore e serietà, non si
dovrebbe esitare a definire scientifica e che poco ha a che fare con
l’esercizio della professione.
Ciò è stato visto da qualcuno come una forma indebita di pubblicità indiretta
o addirittura occulta. Ovviamente, occorrerà valutare il caso concreto;
tuttavia, in via generale non si può non rilevare che questo è un
atteggiamento un po’ troppo integralista.
Nessuno si è mai scandalizzato se un avvocato scrive di diritto su questa o
quella rivista o su questa o quella testata editoriale ovvero se pubblica una
monografia o un formulario. Ora che Internet ha aperto le porte alle infinite
potenzialità di un’autopubblicazione efficace e penetrante, non si vede perché
valutare in modo differente l’attività scientifica o anche solo divulgativa
che si esprima sul web piuttosto che sulla carta stampata.
Marzio V. Vaglio
marzio@vaglio.org
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[1] Disponibile su Internet all’indirizzo http://www.ccbe.org/Documents/Fr/commelfr.pdf
(versione francese) o http://www.ccbe.org/Documents/En/commeluk.pdf
(versione inglese).
[2] Art. 4. Attività all’estero e attività in Italia dello straniero.
Nell’esercizio di attività professionali all’estero, che siano consentite
dalle disposizioni in vigore, l’avvocato italiano è tenuto al rispetto delle
norme deontologiche paese in cui viene svolta l’attività.
Del pari l’avvocato straniero, nell’esercizio dell’attività professionale
in Italia, quando questa sia consentita, è tenuto al rispetto delle norme
deontologiche italiane.
[3] Secondo la vecchia formulazione, l’avvocato era tenuto al “rispetto
delle norme deontologiche interne nonché delle norme deontologiche del paese in
cui viene svolta l’attività”.
[4] Art. 9. Dovere di segretezza e riservatezza.
È dovere, oltreché diritto, primario e fondamentale dell’avvocato mantenere
il segreto sull’attività prestata e su tutte le informazioni che siano a lui
fornite dalla parte assistita o di cui sia venuto a conoscenza in dipendenza del
mandato.
I - L’avvocato è tenuto al dovere di segretezza e riservatezza anche nei
confronti degli ex-clienti, sia per l’attività giudiziale che per l’attività
stragiudiziale.
II - La segretezza deve essere rispettata anche nei confronti di colui che si
rivolga all’avvocato per chiedere assistenza senza che il mandato sia
accettato.
III - L’avvocato è tenuto a richiedere il rispetto del segreto professionale
anche ai propri collaboratori e dipendenti e a tutte le persone che cooperano
nello svolgimento dell’attività professionale.
IV - Il difensore può fornire ai sostituti , collaboratori di studio,
consulenti ed investigatori privati gli atti processuali necessari per
l’espletamento dell’incarico, nonché le informazioni in suo possesso, anche
nell’ipotesi di intervenuta segretazione dell’atto.
(…omissis…)
[5] Art. 17. Informazioni sull’esercizio professionale.
È consentito all’avvocato dare informazioni sulla propria attività
professionale, secondo correttezza e verità, nel rispetto della dignità e del
decoro della professione e degli obblighi di segretezza e di riservatezza .
I - L’informazione può essere data attraverso opuscoli, carta da lettera,
rubriche professionali e telefoniche, repertori, reti telematiche, anche a
diffusione internazionale.
II - È consentita l’indicazione nei rapporti con i terzi di propri
particolari rami di attività.
III - È consentita l’indicazione del nome di un avvocato defunto, che abbia
fatto parte dello studio, purché il professionista a suo tempo lo abbia
espressamente previsto o abbia disposto per testamento in tal senso, ovvero vi
sia il consenso unanime dei suoi eredi.
[6] Consiglio nazionale forense - Commissione deontologia. Proposte di
Regolamenti integrativi del codice deontologico forense (approvate a Roma il 14
dicembre 2001)
Regolamento per l’informazione
Articolo 17 (Informazioni sull'esercizio professionale)
È consentito all'avvocato dare informazioni sulla propria attività
professionale, secondo correttezza e verità, nel rispetto della dignità e del
decoro della professione e degli obblighi di segretezza e riservatezza.
I - L'informazione è data con l'osservanza delle disposizioni di cui al
Regolamento allegato.
Regolamento
Il presente Regolamento è allegato all’art. 17 del codice deontologico
forense
e ne rappresenta una parte integrante.
I) Quanto ai mezzi di informazione:
A) Devono ritenersi consentiti:
- i mezzi ordinari (carta da lettere, biglietti da visita, targhe);
- le brochures informative (opuscoli, circolari) inviate anche a mezzo posta (è
da escludere la possibilità di proporre questionari o di consentire risposte
prepagate):
- gli annuari professionali, le rubriche, i repertori e i bollettini con
informazioni giuridiche (ad es. con l’aggiornamento delle leggi e della
giurisprudenza);
- i rapporti con la stampa (secondo quanto stabilito dall’art. 18 del codice
deontologico forense);
- i siti web e le reti telematiche (Internet), purché propri dell’avvocato o
di studi legali associati o di società di avvocati, nei limiti della
informazione, e previa segnalazione al Consiglio dell’ordine. Con riferimento
ai siti già esistenti l’avvocato è tenuto a procedere alla segnalazione al
Consiglio dell’ordine di appartenenza entro 120 giorni dalla data di
approvazione del presente Regolamento.
B) Devono ritenersi vietati:
- tutti i mezzi non espressamente consentiti.
A titolo esemplificativo sono vietati:
- i mezzi televisivi e radiofonici (televisione e radio);
- i giornali (quotidiani e periodici) e gli annunci pubblicitari in genere;
- i mezzi di divulgazione anomali (distribuzione di opuscoli o carta da lettere
o volantini a soggetti indeterminati, nelle cassette delle poste o attraverso
depositi in luoghi pubblici o distribuzione in locali, o sotto i parabrezza
delle auto, o negli ospedali, nelle carceri e simili, attraverso cartelloni
pubblicitari, testimonial, e così via);
- le sponsorizzazioni;
- le telefonate di presentazione e le visite a domicilio non specificatamente
richieste;
- l’utilizzazione di Internet per offerta di servizi e consulenze gratuite, in
proprio o su siti di terzi.
C) Devono ritenersi consentiti se preventivamente approvati dal Consiglio
dell’Ordine (in relazione alla modalità e finalità previste):
- i seminari e i convegni organizzati direttamente dagli studi professionali.
II) Quanto ai contenuti della informazione:
A) Sono consentiti e possono essere indicati i seguenti dati:
- i dati personali necessari (nomi, indirizzi, anche web, numeri di telefono e
fax e indirizzi di posta elettronica, dati di nascita e di formazione del
professionista, lingue conosciute, articoli e libri pubblicati, attività
didattica, onorificenze, e quant’altro relativo alla persona, limitatamente a
ciò che attiene l’attività professionale esercitata);
- le informazioni dello studio (composizione, nome dei fondatori anche defunti,
attività prevalenti svolte, numero degli addetti, sedi secondarie, orari di
apertura);
- l’indicazione di un logo;
- l'indicazione della certificazione di qualità (l'avvocato che intenda fare
menzione di una certificazione di qualità deve depositare presso il Consiglio
dell'ordine il giustificativo della certificazione in corso di validità e
l'indicazione completa del certificatore e del campo di applicazione della
certificazione ufficialmente riconosciuta).
B) E' consentita inoltre l’utilizzazione della rete Internet e del sito web
per l'offerta di consulenza, nel rispetto dei seguenti obblighi:
- indicazione dei dati anagrafici, P. Iva e Consiglio dell’ordine di
appartenenza;
- impegno espressamente dichiarato al rispetto del codice deontologico, con la
riproduzione del testo, ovvero con la precisazione dei modi o mezzi per
consentirne il reperimento o la consultazione;
- indicazione della persona responsabile;
- specificazione degli estremi della eventuale polizza assicurativa, con
copertura riferita anche alle prestazioni on-line e indicazione dei massimali;
- indicazione delle vigenti tariffe professionali per la determinazione dei
corrispettivi.
C) Devono ritenersi vietati tutti i dati non espressamente consentiti.
A titolo esemplificativo non possono essere indicati i seguenti dati:
- i dati che riguardano terze persone;
- i nomi dei clienti (il divieto deve ritenersi sussistente anche con il
consenso dei clienti);
- le specializzazioni (salvo le specifiche ipotesi previste dalla legge);
- i prezzi delle singole prestazioni (è vietato pubblicare l’annuncio che la
prima consultazione è gratuita);
- le percentuali delle cause vinte o l’esaltazione dei meriti;
- il fatturato individuale o dello studio:
- le promesse di recupero;
- l’offerta comunque di servizi (in relazione a quanto disposto dall’art. 19
del codice deontologico).
III) E' consentita l'indicazione del nome di un avvocato defunto, che abbia
fatto parte dello studio, purché il professionista a suo tempo lo abbia
espressamente previsto o abbia disposto per testamento in tal senso, ovvero vi
sia il consenso unanime dei suoi eredi.
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* Avvocato nel Foro di Padova. Dottore di ricerca in diritto delle Comunità
europee. Post-dottorato in diritto delle Comunità europee. Membro del comitato
scientifico di www.dirittoeuropeo.it;
di www.e-curia.it; di www.lapraticaforense.it;
di www.notiziariogiuridico.it;
di www.scint.it (Centro Studi per
l'Internazionalizzazione). Curatore del sito www.vaglio.org.
Curatore della rubrica di deontologia forense sul web su www.studiumfori.it.
Moderatore del Gruppo di discussione sulla deontologia forense http://it.groups.yahoo.com/group/DeontologiaForense.