La nozione comunitaria di «origine» radica al territorio solo piante e animali

di Andrea Sirotti Gaudenzi
Avvocato e Professore a contratto nell'Università di Padova

Tratto da Guida al Diritto del Sole 24 Ore - Numero 25 del 25 giugno 2005 

 

 

Nota a Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 17 febbraio-14 aprile 2005 n. 13712
La lettura fornita dalla Suprema Corte deve essere ritenuta la più aderente
alla ratio della norma, nonché ai principi generali della disciplina del diritto industriale
Il commento di Andrea Sirotti Gaudenzi
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In tema di tutela delle indicazioni di origine, la Suprema corte ha interpretato le disposizioni della legge 24 dicembre 2003 n. 350 nel modo più favorevole alle imprese italiane che si avvalgano per la cosiddetta «delocalizzazione» del procedimento produttivo, facendo fabbricare i propri prodotti in Paesi stranieri.
L'evoluzione dell'articolo 517 del Cp - Come noto, l'articolo 517 del Cp punisce la vendita di prodotti industriali con segni mendaci.
Il comma 49 dell'articolo 4 della legge 24 dicembre 2003 n. 350 ha esteso il contenuto dell'articolo 517 del Cp all'importazione ed esportazione ai fini della commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza, nonché alla commercializzazione degli stessi.
La portata dell'articolo 517 Cp è stata recentemente ampliata. Infatti, il comma 9 dell'articolo 1 del decreto legge 14 marzo 2005, n. 35 (il cosiddetto «decreto competitività») ha stabilito che venissero soggette all'applicazione della sanzione penale di cui all'articolo 517 Cp (le cui sanzioni sono state peraltro rideterminate) non solo l'importazione e l'esportazione a fini di commercializzazione, ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza, ma anche quelli che presentino false o fallaci indicazioni di origine.
L'interpretazione della Suprema corte - Con la pronuncia n. 13712, datata 17 febbraio 2005, la Corte di cassazione ha ritenuto che l'articolo 517 Cp, nonostante l'intervento dovuto alla legge 350/2003, abbia la funzione di tutelare non tanto l'origine e la provenienza di un prodotto, quanto quelle di un produttore, vale a dire del soggetto che ha la responsabilità in merito alla realizzazione della merce.
La giurisprudenza di merito ha in passato chiarito che, per la configurabilità del delitto previsto dall'articolo 517 Cp, è necessaria l'inequivoca attitudine della merce oggetto dell'incriminazione ad ingannare l'eventuale compratore in ordine alla sua origine, alla sua provenienza o alle qualità del bene (Corte d'appello di Perugia, sentenza 24 febbraio 1994). Pertanto, sulla base del tenore letterale della norma, la Suprema corte ha stabilito che si dovesse ritenere assicurata la garanzia in merito all'origine ed alla provenienza della merce «non da un determinato luogo, bensì da un determinato produttore» (Cassazione penale, sentenza 7 luglio 1999 n. 2500).
Infatti, come chiarito dalla Cassazione, «non può negarsi che l'imprenditore, nel campo dell'attività industriale, possa affidare a terzi sub-fornitori l'incarico di produrre materialmente, secondo caratteristiche qualitative e ricette pattuite con l'esecutore, un determinato bene, e che possa imprimervi il proprio marchio con i suoi segni distintivi e quindi lanciarlo in commercio» (Cassazione penale, sentenza 29 gennaio 1979 n. 633).
La stessa Suprema corte ha evidenziato che, dovendosi tutelare l'affidamento del consumatore in ordine all'esistenza di determinati requisiti nei prodotti acquistati, è del tutto irrilevante che il prodotto sia confezionato in un Paese diverso da quello del produttore, ai fini della qualità del prodotto stesso. Ciò comporta che «anche una indicazione errata o imprecisa relativa al luogo di produzione non può costituire motivo di inganno su uno dei tassativi aspetti considerati dall'articolo 517 Cp in quanto deve ritenersi pacifico che l'origine del prodotto deve intendersi in senso esclusivamente giuridico, non avendo alcuna rilevanza la provenienza materiale posto che origine e provenienza sono indicate, a tutela del consumatore, solo quali origine e provenienza dal produttore» (Cassazione penale, sentenza 7 luglio 1999 n. 2500).
Tale interpretazione della Corte, poi recuperata dalla recente pronunzia in esame, indubbiamente privilegia il dato letterale, in forza della specifica oggettività giuridica del reato previsto e punito dall'articolo 517 Cp. Del resto, letture precedenti avevano posto al centro dell'attenzione la necessità di tutelare non tanto la «provenienza» del produttore, quanto quella del prodotto. Così, ad esempio, la giurisprudenza di merito aveva rilevato come l'importazione dall'estero di auto che recassero il solo marchio Fiat, privo dell'indicazione del Paese di provenienza, fosse idonea a indurre in inganno il compratore sull'origine, provenienza e qualità del prodotto, ravvisando così gli estremi del reato previsto dall'articolo 517 Cp (Pretore di Torino, sentenza 25 gennaio 1984).
La lettura fornita dalla decisione della Cassazione in commento, pertanto, dev'essere ritenuta più aderente alla ratio della norma, nonché ai principi generali della disciplina del diritto industriale.
Infatti, la normativa in tema di marchio non esige affatto che venga indicato il luogo di produzione della merce. Peraltro, lo stesso marchio apposto dal produttore non dev'essere interpretato come «marchio di qualità» del prodotto, ma costituisce esclusivamente il collegamento tra un determinato prodotto e l'impresa, «non nel senso della materialità della fabbricazione, ma della responsabilità del produttore il quale, solo di fatto, ne garantisce la qualità nel senso che è il solo responsabile verso l'acquirente» (sul punto, si rinvia ulteriormente alla preziosa lettura offerta dalla sentenza della Cassazione penale 7 luglio 1999 n. 2500).
Peraltro, appare chiaro che nel caso in cui si effettuino lavori su commissione, il sub-produttore dovrà attenersi alle regole tecniche impartite dal committente, giacché l'attività del primo rappresenta una operazione meramente esecutiva sulla base delle indicazioni che giungono da chi commissiona il lavoro, il quale sarà ben legittimato a contraddistinguere il prodotto con il suo segno distintivo. Nella stessa pronunzia si chiariva che la funzione del marchio fosse ben diversa da quella di una denominazione di provenienza e, pertanto, «la apposizione del marchio notoriamente riferentesi ad un determinato prodotto italiano non è equiparabile ad una informazione relativa ad una produzione totalmente avvenuta in Italia» (sentenza n. 2500/99 citata). Peraltro, non si deve dimenticare che anche l'Arrangement di Madrid è formulato in maniera tale da reprimere il comportamento di chi dichiara una provenienza geografica diversa da quella effettiva o si avvale di segni atti a trarre in inganno gli acquirenti sulla stessa provenienza geografica.
I prodotti agroalimentari - La Corte ha chiarito che assai diversa rispetto alla disciplina dei prodotti industriali è la normativa in tema di prodotti agroalimentari, in considerazione del fatto che la «qualità è connessa in modo rilevante all'ambiente geografico nel quale sono coltivati, trasformati o elaborati», richiamando la disciplina comunitaria.
Da tempo le istituzioni comunitarie si occupano della protezione delle indicazioni geografiche presenti sui prodotti, soprattutto al fine di tutelare il pubblico nel settore alimentare. In particolare, il regolamento (Cee) n. 2081/92 del Consiglio datato 14 luglio 1992, relativo alla protezione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d'origine dei prodotti agricoli e alimentari nasce dall'esigenza di realizzare «un quadro normativo comunitario recante un regime di protezione», che avrebbe dovuto favorire la diffusione delle indicazioni geografiche e delle denominazioni d'origine che avrebbero dovuto garantire «condizioni di concorrenza uguali tra i produttori dei prodotti che beneficiano di siffatte diciture», con la conseguenza di ottenere il risultato di una maggiore tutela dell'utente finale.
Ai sensi dell'articolo 2 del regolamento citato, è «denominazione d'origine» il nome di una regione, di un luogo determinato o, in casi eccezionali, di un Paese «che serve a designare un prodotto agricolo o alimentare originario di tale regione, di tale luogo determinato o di tale paese» e «la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente all'ambiente geografico comprensivo dei fattori naturali ed umani e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell'area geografica delimitata», mentre è «indicazione geografica» il nome di un determinato luogo, utilizzato per designare un prodotto agricolo o alimentare originario di tale luogo e «di cui una determinata qualità, la reputazione o un'altra caratteristica possa essere attribuita all'origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengano nell'area geografica determinata» (articolo 2).
Inoltre, il regolamento (Cee) 2913/92, nell'istituire un codice doganale comunitario, secondo quanto già anticipato, definisce come originarie di un Paese le merci interamente ottenute in quel Paese (pur senza introdurre speciali disposizioni in tema di marchi).
La conclusione cui è giunta la Corte di cassazione, con la recente pronuncia, è che la legge del 2003, nel riferirsi alla nozione comunitaria di origine abbia voluto tutelare la sola categoria di derivazione geografica esclusivamente per i prodotti di tipo agricolo, minerario o animale, le cui caratteristiche siano in qualche modo collegate al loro ambiente nazionale, escludendone l'applicazione per qualsiasi altro prodotto.

 

Corte di cassazione - Sezione III penale - Sentenza 17 febbraio-14 aprile 2005 n. 13712
(Presidente Zumbo; Relatore Onorato; Pm - difforme - Monetti)

 

Svolgimento del processo
1.
Su opposizione dell'interessato proposta ai sensi dell'art. 263, comma 5, c. p.p., il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Napoli, con ordinanza del 16/4/2004, ha disposto la restituzione all'avente diritto di numerosi capi d'abbigliamento sportivo della (A) s.r.l., sottoposti a sequestro probatorio in data 10/2/2004 dalla polizia giudiziaria del Servizio Vigilanza Antifrode Doganale (S.V.A.D.) di Napoli, perché ritenuti commercializzati in violazione dell'art. 4, comma 49, della Legge Finanziaria 2004 (n. 350 del 24/12/2003).
Sui capi d'abbigliamento, prodotti in Cina e successivamente importati in Italia, era apposta un'etichetta recante la indicazione della composizione del tessuto e la dicitura «(A) - ITALY» oppure un cartellino con la scritta «(A)» e con una striscia sottostante recante i colori della bandiera italiana e un riquadro con la dicitura «ITALY».
Il giudice ha ritenuto che nel caso di specie le diciture non fossero idonee a indicare il luogo di fabbricazione della merce, ma indicassero semplicemente il nome e la nazionalità del produttore (la s.r.l. A), che è il soggetto garante e responsabile del prodotto finale: sicché non si verificava alcuna lesione del bene tutelato dalla norma incriminatrice, che coincide con l'interesse del consumatore a non essere ingannato sulla qualità e provenienza della merce.
2. Il Procuratore della Repubblica di Napoli ha proposto ricorso per erronea applicazione dell'art. 4, comma 49, della legge n. 350/2003.
Sostiene che il delitto previsto da questa norma, che fa rinvio all'art. 517 c. p. (vendita di prodotti industriali con segni mendaci) solo quoad poenam, non ha lo stesso oggetto giuridico del delitto codicistico, e prevede una condotta materiale più ampia e precisa, soprattutto laddove configura come falsa indicazione la dicitura Made in Italy su prodotti non originari dell'Italia, e come fallace indicazione l'uso di segni, figure o quant'altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto sia di origine italiana, anche qualora sia indicata l'origine e la provenienza estera del prodotto.

Motivi della decisione
3.
Secondo l'art. 517 c. p. (vendita di prodotti industriali con segni mendaci) è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032, se il fatto non è previsto come reato da altra disposizione di legge, chiunque pone in vendita o mette altrimenti in circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali con nomi, marchi, o segni distintivi nazionali od esteri atti a trarre in inganno il compratore sull'origine, provenienza o qualità dell'opera o del prodotto.
Per «origine» deve intendersi il luogo o il soggetto di produzione, fabbricazione o coltivazione della merce; mentre per «provenienza» deve intendersi il luogo o il soggetto che funge da intermediario tra il produttore e gli acquirenti.
L'oggetto giuridico della norma è la tutela dell'ordine economico, comprensivo sia della libertà e buona fede del consumatore, sia della protezione del produttore dalla illecita concorrenza.
Giova precisare - anche per le considerazioni che si svolgeranno in seguito - che tale reato è sussidiario rispetto a quello previsto dall'art. 474 c. p. (introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi); e si distingue da questo perché il secondo, tutelando la fede pubblica, richiede la contraffazione o l'alterazione di un marchio o segno distintivo della merce che sia giuridicamente protetto e riconosciuto, mentre il primo, tutelando solo l'ordine economico, richiede la semplice imitazione del marchio o del segno distintivo, non necessariamente registrato o riconosciuto, purché essa sia idonea a trarre in inganno l'acquirente (cfr. da ultimo, Cass., Sez. V. n. 3940 del 13/3/1987, Canfora, rv. 175321; nonché Cass. Sez. V, n. 4534 del 13/4/198, Minichetti, rv. 178128; Cass. Sez. V. n. 5427 del 12/5/1995, Parisi, rv. 201326).
3.1. Anche in ragione della specifica oggettività giuridica del reato di cui all'art. 517 c. p., la giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere che la garanzia assicurata dalla norma riguarda l'origine e la provenienza della merce, non già da un determinato luogo bensì da un determinato produttore, cioè da un imprenditore che ha la responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di produzione. (Cass. Sez. III, n. 2550 del 26/8/1999, P.M. in proc. Thum, rv. 214438; Cass. Sez. III, n. 1263 del 2/2/2005, ud. 21/10/2004, ric. Fro s.r.l.).
Infatti ciò che è generalmente rilevante per l'ordine economico come sopra specificato non è l'origine o la provenienza geografica, bensì la fabbricazione, da parte di un determinato imprenditore, il quale, coordinando giuridicamente, economicamente e tecnicamente il processo produttivo, assicura la qualità del prodotto. Come sottolinea la sentenza Thum «la induzione in inganno di cui all'art. 517 c. p. riguarda l'origine, la provenienza o la qualità dell'opera o prodotto, ma i primi due elementi sono funzionali al terzo, che è in realtà il solo fondamentale, posto che il luogo o lo stabilimento in cui il prodotto è confezionato è indifferente alla qualità del prodotto stesso».
Lo strumento che rassicura il mercato sulla qualità del prodotto è il marchio, registrato o no, che si configura come segno distintivo del prodotto medesimo, nella forma di un emblema o di una denominazione. Com'è noto, la funzione tradizionale del marchio è triplice, perché indica la provenienza imprenditoriale, assicura la qualità del prodotto e agisce come richiamo per la clientela ovverosia come suggestione pubblicitaria.
Orbene questa triplice funzione del marchio non è modificata neppure nella realtà economica contemporanea, nella quale numerose imprese si avvalgono legittimamente di imprese situate in altri paesi per fabbricare i propri prodotti contrassegnati da un proprio marchio distintivo.
Si pensi al fenomeno tipico delle imprese multinazionali o alla pratica della c. d. delocalizzazione, in cui il processo produttivo, per ragioni economiche o fiscali, viene dislocato in tutto o in parte presso aziende straniere secondo tecniche di produzione che sono tuttavia imposte e controllate dalla impresa madre.
3.2. Diverso è invece il caso dei prodotti agroalimentari la cui qualità è connessa in modo rilevante all'ambiente geografico nel quale sono coltivati, trasformati o elaborati.
Il diritto comunitario ha disciplinato questa materia con il Regolamento del Consiglio n. 2081 del 14/7/1992, che ha previsto la possibilità di registrare:
a) la «denominazione di origine protetta» (DOP) per i prodotti agricoli o alimentari originari di un determinato territorio la cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente o esclusivamente all'ambiente geografico, comprensivo dei fattori naturali ed umani, e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengano nell'area geografica d'origine;
b) la «indicazione geografica protetta» (IGP) per i prodotti agricoli o alimentari originari di un determinato territorio, di cui una qualità o caratteristica possa essere attribuita all'origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avvengano nell'area geografica determinata (art. 2 Reg. CEE 2081/92).
La registrazione avviene purché, in entrambi i casi, sia rispettato un determinato «disciplinare», che indica soprattutto le materie prime o le principali caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche e/o organolettiche del prodotto, nonché il metodo di ottenimento del prodotto stesso (art. 4 reg. CEE 2081/92).
Per siffatti prodotti agroalimentari, come è evidente, anche quando non si arrivi a registrare un marchio di denominazione o indicazione geografica, ciò che rileva per l'ordine economico, inteso come protezione dei consumatori e dei produttori, è proprio l'origine territoriale. Si pensi per i prodotti agricoli alle arance di Sicilia, o per i prodotti alimentari al parmigiano reggiano.
Ne deriva che per simili prodotti agroalimentari, o più esattamente per i prodotti industriali di natura alimentare aventi una tipicità territoriale, la origine a cui si riferisce la norma dell'art. 517 c. p. non è soltanto quella imprenditoriale ma anche e soprattutto quella geografica. In tal senso deve essere quindi precisata ed integrata la giurisprudenza di legittimità sopra richiamata.
4. In questa materia, peraltro, è recentemente intervenuta la legge 24/12/2003 n. 350 (finanziaria 2004) che nell'art. 4 (finanziamento agli investimenti) ha inteso proteggere e promuovere il prodotto made in Italy «anche attraverso la regolamentazione dell'indicazione di origine o l'istituzione di un apposito marchio a tutela delle merci integralmente prodotte nel territorio italiano o assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine» (comma 61), stabilendo al riguardo la necessità di un apposito regolamento governativo (comma 63), che non risulta ancora emanato.
Nell'ambito di questa finalità l'art. 4 ha anche previsto strumenti di tutela penale dell'ordine economico, sempre comprensivo degli interessi dei produttori e di quelli dei consumatori. Il comma 49, infatti, con una tecnica normativa che lascia a desiderare e con una sintassi non sempre perspicua, stabilisce che:
«L'importazione e l'esportazione a fini di commercializzazione ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza costituisce reato ed è punita ai sensi dell'art. 517 c. p. Costituisce falsa indicazione la stampigliatura “made in Italy” su prodotti e merci non originari dall'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l'origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l'uso di segni, figure o quant'altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana. Le fattispecie sono commesse fin dalla presentazione dei prodotti o delle merci in dogana per l'immissione in consumo o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio».
Giurisprudenza e dottrina si sono già affiancate nel compito di chiarire la portata normativa della disposizione. Al riguardo questa Corte ritiene che la voluntas legis che ne risulta debba essere precisata nel modo seguente:
a) viene esplicitamente penalizzata ai sensi dell'art. 517 c. p. non soltanto la messa in vendita o in circolazione ma anche la importazione e la esportazione ai fini di commercializzazione di prodotti con segni mendaci. In tal modo non si realizza una estensione della fattispecie penale codicistica, atteso che nel concetto di «porre in vendita o mettere altrimenti in circolazione» di cui all'art. 517 era già implicito quello di «importare o esportare a fini di commercializzazione». Peraltro, col nuovo intervento legislativo si può dire risolto il contrasto giurisprudenziale esistente sul momento consumativo del reato previsto dallo stesso art. 517.
Infatti la nuova norma stabilisce positivamente che il reato si perfeziona sin dal momento in cui i prodotti sono presentati in dogana per l'immissione in consumo o in libera pratica; sicché altrettanto deve ritenersi per l'analogo reato di cui all'art. 517 (così, in sostanza, la sentenza Fro succitata);
b) per altro verso viene estesa la fattispecie penale di cui all'art. 517, includendovi oltre ai prodotti «industriali» anche quelli «agricoli», attesa la innegabile distinzione tra i due tipi di prodotti e la crescente importanza che hanno assunto i prodotti agricoli per la coscienza ecologica e alimentare della popolazione. Infatti nell'art. 517 si menzionano solo i prodotti industriali (oltre che le opere dell'ingegno), mentre nel suddetto comma 49 si fa riferimento ai prodotti tout court. Applicare l'art. 517 c. p. ai prodotti tipici agricoli prima dell'entrata in vigore della norma in esame avrebbe configurato una violazione del principio di legalità e tassatività del diritto penale;
c) oltre che l'oggetto materiale, viene anche dilatata la condotta del reato, giacché se l'art. 517 incrimina la commercializzazione di prodotti con segni atti a indurre in inganno il compratore, il ripetuto comma 49 penalizza la commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza. Orbene, secondo il significato proprio delle parole, «falsa» è quella indicazione di origine o provenienza che non corrisponde alla realtà; mentre «fallace» è un'indicazione che, pur non essendo propriamente falsa, trae o può trarre in inganno i soggetti che agiscono nel mercato circa la origine o provenienza del prodotto. Ne deriva che la condotta del reato previsto dalla norma codicistica coincide con una fallace indicazione della origine o provenienza del prodotto, mentre la condotta del nuovo reato comprende non solo la fallace ma anche la falsa indicazione della origine o provenienza.
Per quest'ultimo aspetto la nuova fattispecie è assimilabile al reato di cui all'art. 474 c. p., da cui peraltro si differenzia perché in questo la falsità è per così dire specifica, perfezionandosi attraverso una contraffazione o alterazione del marchio. Si può coerentemente concludere che il reato introdotto dalla legge finanziaria 2004 ha una duplice oggettività giuridica perché tutela non solo l'ordine economico, ma anche la fede pubblica.
In linea con questa concettualizzazione, il legislatore del 2003, che, come si è già notato, era mosso soprattutto dall'intenzione di tutelare il made in Italy rispetto ai prodotti stranieri, ha cura di precisare, peraltro, si badi bene, a mo' di semplice esemplificazione, che costituisce falsa indicazione la stampigliatura «made in Italy» su prodotti non originari dell'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine; mentre costituisce fallace indicazione l'uso di segnali atti a far ritenere che l'origine del prodotto è italiana, anche quando sia indicata l'origine italiana del medesimo (in tal caso l'indicazione complessiva non è falsa, perché attesta la derivazione estera, ma è appunto fallace, ossia ingannevole, perché può far ritenere che il prodotto abbia origine o provenienza dall'Italia).
5. A questo punto occorre però precisare qual è la normativa europea sull'origine a cui si riferiscono i citati commi 49 e 61 dell'art. 4 della legge finanziaria e come essa definisce la nozione di origine.
Si deve considerare al riguardo il Regolamento CEE n. 2913 del 12/10/1992, che ha istituito il codice doganale comunitario e ha definito negli artt. 22-26 l'origine delle merci ai fini doganali.
Orbene, nell'art. 23 si definiscono originarie di un paese le merci interamente ottenute in tale paese, precisando che per tale devono intendersi: a) i prodotti minerali estratti nel suo territorio; b) i prodotti del regno vegetale ivi raccolti; c) gli animali vivi, nati e allevati in detto paese; d) i prodotti che provengono da animali vivi che ivi sono allevati; e) i prodotti della caccia e della pesca ivi praticate; f) i prodotti della pesca marittima e gli altri prodotti estratti dal mare da navi immatricolate o registrate in tale paese e battenti bandiera del medesimo; g) le merci ottenute a bordo di navi-officina utilizzando i prodotti di cui alla lettera f); h) i prodotti estratti dal suolo o dal sottosuolo marino situato al di fuori delle acque territoriali, sempreché tale paese eserciti diritti esclusivi per lo sfruttamento di tale suolo o sottosuolo; i) i rottami e i residui risultanti da operazioni manifatturiere e gli articoli fuori uso, sempreché siano stati ivi raccolti e possano servire unicamente al recupero di materie prime; j) le merci ottenute esclusivamente dalle merci di cui alle lettere da a) a i) e i loro derivati, in qualunque stadio essi si trovino.
Come è evidente si tratta sempre di merci la cui qualità è in qualche modo identificabile in relazione alla loro origine geografica, così come per i prodotti agricoli e alimentari di cui al Reg. CEE n. 2801/1992. Sembra logico dedurne che il legislatore nazionale del 2003 nel riferirsi alla nozione europea di origine abbia inteso richiamare la categoria di derivazione geografica (solo) per quei prodotti di tipo agricolo, minerario o animale, le cui caratteristiche siano in qualche modo collegate al loro ambiente territoriale.
È ben vero che quando alla produzione delle merci contribuiscono due o più paesi l'art. 24 del Reg. CEE n. 2913/92 definisce come paese d'origine quello in cui è avvenuta l'ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, atteso che per le esigenze del commercio internazionale l'origine della merce deve essere sempre radicata in un solo paese. Ma si tratta appunto di una nozione di origine che è stabilita per il funzionamento del codice doganale comunitario, non già per la tutela dei consumatori dalle frodi e dei produttori dalla illecita concorrenza.
Si può quindi concludere che, richiamando la nozione europea di origine l'art. 4, comma 49, della legge 350/2003 non ha modificato la corretta interpretazione che si deve dare della origine o provenienza di un prodotto ai fini della tutela penale dell'ordine economico o della fede pubblica. Posto che a tali fini origine e provenienza sono funzionali alla qualità del prodotto, rileverà la derivazione territoriale o quella imprenditoriale secondo che la qualità del prodotto dipenda dall'ambito geografico o dalla tecnica produttiva in cui la merce nasce.
6. Così precisata la portata normativa della nuova disposizione, sembra doversi concludere che essa configura una nuova fattispecie di reato, che rinvia quoad poenam all'art. 517 c. p., ma che si distingue sia dalla vendita dei prodotti industriali con segni «mendaci» (rectius ingannevoli) di cui all'art. 517 c. p., sia dalla importazione e commercio di prodotti industriali con segni «falsi» (rectius contraffatti o alterati) di cui all'art. 474 c. p. In sintesi, la propensione casistica del nostro legislatore penale ha elaborato nella soggetta materia tre fattispecie penali, le quali non possono distinguersi tra loro che nel modo seguente:
a) il reato di cui all'art. 474 c. p. punisce la commercializzazione di prodotti industriali (oltre che di opere dell'ingegno) con marchi o segni distintivi contraffatti o alterati, e tutela propriamente la fede pubblica: la rubrica dell'articolo non è esatta laddove menziona i segni «falsi», giacché vi possono essere segni distintivi falsi, in quanto non rispondenti alla realtà (per esempio una bottiglia di vino indica falsamente la sua provenienza toscana), senza che costituiscano contraffazione o alterazione di marchi preesistenti;
b) il reato di cui all'art. 517 c. p. punisce la commercializzazione di prodotti industriali (oltre che di opere dell'ingegno) con marchi o segni distintivi fallaci, cioè atti a trarre in inganno sulla origine, provenienza o qualità del prodotto, anche se i marchi non sono registrati o giuridicamente protetti come tali;
c) il reato di cui al comma 49 dell'art. 4 della legge 350/2003 punisce la commercializzazione di di prodotti industriali ed agricoli con indicazione di origine o provenienza falsa, cioè non corrispondente alla realtà, oppure fallace, cioè atta a trarre in inganno sulla origine o provenienza medesima; e ciò anche se si tratta di indicazioni consistenti in segni distintivi, emblemi o denominazioni non registrati né giuridicamente riconosciuti.
Poiché la fattispecie di cui all'art. 517 ha carattere sussidiario, applicandosi espressamente solo se il fatto non è previsto come reato da altra disposizione di legge, bisognerebbe concludere che il suo specifico ambito di operatività è limitato alla commercializzazione con segni ingannevoli di opere dell'ingegno (letterarie, musicali etc.). Per il resto essa è stata assorbita dalla nuova figura criminosa, che ha un'estensione più ampia sia per l'oggetto materiale (prodotti non sol industriali, ma anche agricoli) sia per la condotta (indicazione di segni distintivi falsi e non solo fallaci).
Com'è evidente, solo negli ultimi due reati assume rilevanza la provenienza, l'origine o la qualità del prodotto, trattandosi di reati contro l'ordine economico: Ma, come già osservato, dei tre elementi menzionati, quello che ha rilievo decisivo è la qualità, giacché provenienza e origine sono sempre in funzione della qualità.
In conclusione si può a questo punto osservare quanto segue, in linea con le considerazioni già svolte nei seguenti paragrafi:
– in genere, relativamente ai prodotti industriali la cui qualità dipende dalla affidabilità tecnica del produttore, per origine del prodotto deve intendersi la sua origine imprenditoriale, cioè la sua fabbricazione da parte di un imprenditore che assume la responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo produttivo;
– invece, relativamente ai prodotti agricoli o alimentari che sono identificabili in relazione all'origine geografica, la cui qualità dipende essenzialmente dall'ambiente naturale e umano in cui sono coltivati, trasformati e prodotti, per origine del prodotto deve intendersi propriamente la sua origine geografica o territoriale.
7. Questa lunga analisi è stata necessaria per dipanare la matassa di una normativa eccessivamente casistica; ma consente ora di affrontare molto più agevolmente la fattispecie oggetto del ricorso.
La società italiana (A), produttrice di capi d'abbigliamento sportivo, si è avvalsa della delocalizzazione del processo produttivo, facendo fabbricare in Cina i capi d'abbigliamento, verosimilmente per lucrare il minor costo del lavoro sempre conservando per sé un qualche controllo sulla tecnica di fabbricazione, e successivamente ha importato in Italia i prodotti finiti. Le confezioni importate recavano un'etichetta con la composizione del tessuto e con la dicitura (A)-ITALY, oppure un cartellino con la scritta (A) e un riquadro sottostante con la dicitura ITALY e i colori della bandiera italiana.
All'evidenza si tratta di prodotti la cui qualità dipende dalla identità del produttore e non dall'ambiente geografico di fabbricazione.
Perciò il comportamento della s.r.l. (A) non integrava il reato di cui al comma 49 dell'art. 4 legge 350/2003, giacché i prodotti tessili così importati non recavano alcuna falsa o fallace indicazione sulla origine imprenditoriale, l'unica rilevante per la qualità dei prodotti. Al contrario le etichette e i cartellini contenevano l'indicazione veritiera sulla identità del produttore (A) e sulla nazionalità del medesimo (italiana), a nulla rilevando che non fosse indicato anche il luogo di fabbricazione (cinese), giacché i capi d'abbigliamento sportivo e in genere i prodotti tessili non sono identificabili in relazione alla origine geografica, atteso che la loro qualità è assicurata dalla materia prima usata e dalla tecnica produttiva e non certo dall'ambiente territoriale dove il processo produttivo si svolge.
Vero è che il marchio nazionale made in Italy è stato pensato per tutelare le «merci integralmente prodotte sul territorio italiano o assimilate ai sensi della normativa europea in materia di origine» (comma 61 del ripetuto art. 4). Ma è anche vero che tale marchio non è stato istituito e che i capi d'abbigliamento sportivo fabbricati in Cina dalla società (A) non recavano alcuna stampigliatura con la scritta made in Italy.
Correttamente quindi il giudice per le indagini preliminari ha ritenuto mancante il fumus del reato ipotizzato e insussistente il presupposto legale del sequestro probatorio disposto sui capi d'abbigliamento importati dalla società. Il ricorso del Pubblico Ministero contro la ordinanza di dissequestro è pertanto destituito di fondamento giuridico.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso.
 

 

 

 

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