Svolgimento del processo
1. Su opposizione
dell'interessato proposta ai sensi dell'art. 263, comma 5, c.
p.p., il giudice per le indagini preliminari del tribunale di
Napoli, con ordinanza del 16/4/2004, ha disposto la restituzione
all'avente diritto di numerosi capi d'abbigliamento sportivo
della (A) s.r.l., sottoposti a sequestro probatorio in data
10/2/2004 dalla polizia giudiziaria del Servizio Vigilanza
Antifrode Doganale (S.V.A.D.) di Napoli, perché ritenuti
commercializzati in violazione dell'art. 4, comma 49, della
Legge Finanziaria 2004 (n. 350 del 24/12/2003).
Sui capi d'abbigliamento, prodotti in Cina e successivamente
importati in Italia, era apposta un'etichetta recante la
indicazione della composizione del tessuto e la dicitura «(A) -
ITALY» oppure un cartellino con la scritta «(A)» e con una
striscia sottostante recante i colori della bandiera italiana e
un riquadro con la dicitura «ITALY».
Il giudice ha ritenuto che nel caso di specie le diciture non
fossero idonee a indicare il luogo di fabbricazione della merce,
ma indicassero semplicemente il nome e la nazionalità del
produttore (la s.r.l. A), che è il soggetto garante e
responsabile del prodotto finale: sicché non si verificava
alcuna lesione del bene tutelato dalla norma incriminatrice, che
coincide con l'interesse del consumatore a non essere ingannato
sulla qualità e provenienza della merce.
2. Il Procuratore della
Repubblica di Napoli ha proposto ricorso per erronea
applicazione dell'art. 4, comma 49, della legge n. 350/2003.
Sostiene che il delitto previsto da questa norma, che fa rinvio
all'art. 517 c. p. (vendita di prodotti industriali con segni
mendaci) solo quoad poenam, non ha lo stesso oggetto giuridico
del delitto codicistico, e prevede una condotta materiale più
ampia e precisa, soprattutto laddove configura come falsa
indicazione la dicitura Made in Italy su prodotti non originari
dell'Italia, e come fallace indicazione l'uso di segni, figure o
quant'altro possa indurre il consumatore a ritenere che il
prodotto sia di origine italiana, anche qualora sia indicata
l'origine e la provenienza estera del prodotto.
Motivi della decisione
3. Secondo l'art. 517 c. p.
(vendita di prodotti industriali con segni mendaci) è punito con
la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a euro 1.032,
se il fatto non è previsto come reato da altra disposizione di
legge, chiunque pone in vendita o mette altrimenti in
circolazione opere dell'ingegno o prodotti industriali con nomi,
marchi, o segni distintivi nazionali od esteri atti a trarre in
inganno il compratore sull'origine, provenienza o qualità
dell'opera o del prodotto.
Per «origine» deve intendersi il luogo o il soggetto di
produzione, fabbricazione o coltivazione della merce; mentre per
«provenienza» deve intendersi il luogo o il soggetto che funge
da intermediario tra il produttore e gli acquirenti.
L'oggetto giuridico della norma è la tutela dell'ordine
economico, comprensivo sia della libertà e buona fede del
consumatore, sia della protezione del produttore dalla illecita
concorrenza.
Giova precisare - anche per le considerazioni che si svolgeranno
in seguito - che tale reato è sussidiario rispetto a quello
previsto dall'art. 474 c. p. (introduzione nello Stato e
commercio di prodotti con segni falsi); e si distingue da questo
perché il secondo, tutelando la fede pubblica, richiede la
contraffazione o l'alterazione di un marchio o segno distintivo
della merce che sia giuridicamente protetto e riconosciuto,
mentre il primo, tutelando solo l'ordine economico, richiede la
semplice imitazione del marchio o del segno distintivo, non
necessariamente registrato o riconosciuto, purché essa sia
idonea a trarre in inganno l'acquirente (cfr. da ultimo, Cass.,
Sez. V. n. 3940 del 13/3/1987, Canfora, rv. 175321; nonché Cass.
Sez. V, n. 4534 del 13/4/198, Minichetti, rv. 178128; Cass. Sez.
V. n. 5427 del 12/5/1995, Parisi, rv. 201326).
3.1. Anche in ragione della
specifica oggettività giuridica del reato di cui all'art. 517 c.
p., la giurisprudenza di legittimità è costante nel ritenere che
la garanzia assicurata dalla norma riguarda l'origine e la
provenienza della merce, non già da un determinato luogo bensì
da un determinato produttore, cioè da un imprenditore che ha la
responsabilità giuridica, economica e tecnica del processo di
produzione. (Cass. Sez. III, n. 2550 del 26/8/1999, P.M. in proc.
Thum, rv. 214438; Cass. Sez. III, n. 1263 del 2/2/2005, ud.
21/10/2004, ric. Fro s.r.l.).
Infatti ciò che è generalmente rilevante per l'ordine economico
come sopra specificato non è l'origine o la provenienza
geografica, bensì la fabbricazione, da parte di un determinato
imprenditore, il quale, coordinando giuridicamente,
economicamente e tecnicamente il processo produttivo, assicura
la qualità del prodotto. Come sottolinea la sentenza Thum «la
induzione in inganno di cui all'art. 517 c. p. riguarda
l'origine, la provenienza o la qualità dell'opera o prodotto, ma
i primi due elementi sono funzionali al terzo, che è in realtà
il solo fondamentale, posto che il luogo o lo stabilimento in
cui il prodotto è confezionato è indifferente alla qualità del
prodotto stesso».
Lo strumento che rassicura il mercato sulla qualità del prodotto
è il marchio, registrato o no, che si configura come segno
distintivo del prodotto medesimo, nella forma di un emblema o di
una denominazione. Com'è noto, la funzione tradizionale del
marchio è triplice, perché indica la provenienza
imprenditoriale, assicura la qualità del prodotto e agisce come
richiamo per la clientela ovverosia come suggestione
pubblicitaria.
Orbene questa triplice funzione del marchio non è modificata
neppure nella realtà economica contemporanea, nella quale
numerose imprese si avvalgono legittimamente di imprese situate
in altri paesi per fabbricare i propri prodotti contrassegnati
da un proprio marchio distintivo.
Si pensi al fenomeno tipico delle imprese multinazionali o alla
pratica della c. d. delocalizzazione, in cui il processo
produttivo, per ragioni economiche o fiscali, viene dislocato in
tutto o in parte presso aziende straniere secondo tecniche di
produzione che sono tuttavia imposte e controllate dalla impresa
madre.
3.2. Diverso è invece il caso
dei prodotti agroalimentari la cui qualità è connessa in modo
rilevante all'ambiente geografico nel quale sono coltivati,
trasformati o elaborati.
Il diritto comunitario ha disciplinato questa materia con il
Regolamento del Consiglio n. 2081 del 14/7/1992, che ha previsto
la possibilità di registrare:
a) la «denominazione di origine protetta» (DOP) per i prodotti
agricoli o alimentari originari di un determinato territorio la
cui qualità o le cui caratteristiche siano dovute essenzialmente
o esclusivamente all'ambiente geografico, comprensivo dei
fattori naturali ed umani, e la cui produzione, trasformazione
ed elaborazione avvengano nell'area geografica d'origine;
b) la «indicazione geografica protetta» (IGP) per i prodotti
agricoli o alimentari originari di un determinato territorio, di
cui una qualità o caratteristica possa essere attribuita
all'origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione
e/o elaborazione avvengano nell'area geografica determinata
(art. 2 Reg. CEE 2081/92).
La registrazione avviene purché, in entrambi i casi, sia
rispettato un determinato «disciplinare», che indica soprattutto
le materie prime o le principali caratteristiche fisiche,
chimiche, microbiologiche e/o organolettiche del prodotto,
nonché il metodo di ottenimento del prodotto stesso (art. 4 reg.
CEE 2081/92).
Per siffatti prodotti agroalimentari, come è evidente, anche
quando non si arrivi a registrare un marchio di denominazione o
indicazione geografica, ciò che rileva per l'ordine economico,
inteso come protezione dei consumatori e dei produttori, è
proprio l'origine territoriale. Si pensi per i prodotti agricoli
alle arance di Sicilia, o per i prodotti alimentari al
parmigiano reggiano.
Ne deriva che per simili prodotti agroalimentari, o più
esattamente per i prodotti industriali di natura alimentare
aventi una tipicità territoriale, la origine a cui si riferisce
la norma dell'art. 517 c. p. non è soltanto quella
imprenditoriale ma anche e soprattutto quella geografica. In tal
senso deve essere quindi precisata ed integrata la
giurisprudenza di legittimità sopra richiamata.
4. In questa materia, peraltro,
è recentemente intervenuta la legge 24/12/2003 n. 350
(finanziaria 2004) che nell'art. 4 (finanziamento agli
investimenti) ha inteso proteggere e promuovere il prodotto made
in Italy «anche attraverso la regolamentazione dell'indicazione
di origine o l'istituzione di un apposito marchio a tutela delle
merci integralmente prodotte nel territorio italiano o
assimilate ai sensi della normativa europea in materia di
origine» (comma 61), stabilendo al riguardo la necessità di un
apposito regolamento governativo (comma 63), che non risulta
ancora emanato.
Nell'ambito di questa finalità l'art. 4 ha anche previsto
strumenti di tutela penale dell'ordine economico, sempre
comprensivo degli interessi dei produttori e di quelli dei
consumatori. Il comma 49, infatti, con una tecnica normativa che
lascia a desiderare e con una sintassi non sempre perspicua,
stabilisce che:
«L'importazione e l'esportazione a fini di commercializzazione
ovvero la commercializzazione di prodotti recanti false o
fallaci indicazioni di provenienza costituisce reato ed è punita
ai sensi dell'art. 517 c. p. Costituisce falsa indicazione la
stampigliatura “made in Italy” su prodotti e merci non originari
dall'Italia ai sensi della normativa europea sull'origine;
costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata
l'origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci,
l'uso di segni, figure o quant'altro possa indurre il
consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine
italiana. Le fattispecie sono commesse fin dalla presentazione
dei prodotti o delle merci in dogana per l'immissione in consumo
o in libera pratica e sino alla vendita al dettaglio».
Giurisprudenza e dottrina si sono già affiancate nel compito di
chiarire la portata normativa della disposizione. Al riguardo
questa Corte ritiene che la voluntas legis che ne risulta debba
essere precisata nel modo seguente:
a) viene esplicitamente penalizzata ai sensi dell'art. 517 c. p.
non soltanto la messa in vendita o in circolazione ma anche la
importazione e la esportazione ai fini di commercializzazione di
prodotti con segni mendaci. In tal modo non si realizza una
estensione della fattispecie penale codicistica, atteso che nel
concetto di «porre in vendita o mettere altrimenti in
circolazione» di cui all'art. 517 era già implicito quello di
«importare o esportare a fini di commercializzazione». Peraltro,
col nuovo intervento legislativo si può dire risolto il
contrasto giurisprudenziale esistente sul momento consumativo
del reato previsto dallo stesso art. 517.
Infatti la nuova norma stabilisce positivamente che il reato si
perfeziona sin dal momento in cui i prodotti sono presentati in
dogana per l'immissione in consumo o in libera pratica; sicché
altrettanto deve ritenersi per l'analogo reato di cui all'art.
517 (così, in sostanza, la sentenza Fro succitata);
b) per altro verso viene estesa la fattispecie penale di cui
all'art. 517, includendovi oltre ai prodotti «industriali» anche
quelli «agricoli», attesa la innegabile distinzione tra i due
tipi di prodotti e la crescente importanza che hanno assunto i
prodotti agricoli per la coscienza ecologica e alimentare della
popolazione. Infatti nell'art. 517 si menzionano solo i prodotti
industriali (oltre che le opere dell'ingegno), mentre nel
suddetto comma 49 si fa riferimento ai prodotti tout court.
Applicare l'art. 517 c. p. ai prodotti tipici agricoli prima
dell'entrata in vigore della norma in esame avrebbe configurato
una violazione del principio di legalità e tassatività del
diritto penale;
c) oltre che l'oggetto materiale, viene anche dilatata la
condotta del reato, giacché se l'art. 517 incrimina la
commercializzazione di prodotti con segni atti a indurre in
inganno il compratore, il ripetuto comma 49 penalizza la
commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci
indicazioni di provenienza. Orbene, secondo il significato
proprio delle parole, «falsa» è quella indicazione di origine o
provenienza che non corrisponde alla realtà; mentre «fallace» è
un'indicazione che, pur non essendo propriamente falsa, trae o
può trarre in inganno i soggetti che agiscono nel mercato circa
la origine o provenienza del prodotto. Ne deriva che la condotta
del reato previsto dalla norma codicistica coincide con una
fallace indicazione della origine o provenienza del prodotto,
mentre la condotta del nuovo reato comprende non solo la fallace
ma anche la falsa indicazione della origine o provenienza.
Per quest'ultimo aspetto la nuova fattispecie è assimilabile al
reato di cui all'art. 474 c. p., da cui peraltro si differenzia
perché in questo la falsità è per così dire specifica,
perfezionandosi attraverso una contraffazione o alterazione del
marchio. Si può coerentemente concludere che il reato introdotto
dalla legge finanziaria 2004 ha una duplice oggettività
giuridica perché tutela non solo l'ordine economico, ma anche la
fede pubblica.
In linea con questa concettualizzazione, il legislatore del
2003, che, come si è già notato, era mosso soprattutto
dall'intenzione di tutelare il made in Italy rispetto ai
prodotti stranieri, ha cura di precisare, peraltro, si badi
bene, a mo' di semplice esemplificazione, che costituisce falsa
indicazione la stampigliatura «made in Italy» su prodotti non
originari dell'Italia ai sensi della normativa europea
sull'origine; mentre costituisce fallace indicazione l'uso di
segnali atti a far ritenere che l'origine del prodotto è
italiana, anche quando sia indicata l'origine italiana del
medesimo (in tal caso l'indicazione complessiva non è falsa,
perché attesta la derivazione estera, ma è appunto fallace,
ossia ingannevole, perché può far ritenere che il prodotto abbia
origine o provenienza dall'Italia).
5. A questo punto occorre però
precisare qual è la normativa europea sull'origine a cui si
riferiscono i citati commi 49 e 61 dell'art. 4 della legge
finanziaria e come essa definisce la nozione di origine.
Si deve considerare al riguardo il Regolamento CEE n. 2913 del
12/10/1992, che ha istituito il codice doganale comunitario e ha
definito negli artt. 22-26 l'origine delle merci ai fini
doganali.
Orbene, nell'art. 23 si definiscono originarie di un paese le
merci interamente ottenute in tale paese, precisando che per
tale devono intendersi: a) i prodotti minerali estratti nel suo
territorio; b) i prodotti del regno vegetale ivi raccolti; c)
gli animali vivi, nati e allevati in detto paese; d) i prodotti
che provengono da animali vivi che ivi sono allevati; e) i
prodotti della caccia e della pesca ivi praticate; f) i prodotti
della pesca marittima e gli altri prodotti estratti dal mare da
navi immatricolate o registrate in tale paese e battenti
bandiera del medesimo; g) le merci ottenute a bordo di
navi-officina utilizzando i prodotti di cui alla lettera f); h)
i prodotti estratti dal suolo o dal sottosuolo marino situato al
di fuori delle acque territoriali, sempreché tale paese eserciti
diritti esclusivi per lo sfruttamento di tale suolo o
sottosuolo; i) i rottami e i residui risultanti da operazioni
manifatturiere e gli articoli fuori uso, sempreché siano stati
ivi raccolti e possano servire unicamente al recupero di materie
prime; j) le merci ottenute esclusivamente dalle merci di cui
alle lettere da a) a i) e i loro derivati, in qualunque stadio
essi si trovino.
Come è evidente si tratta sempre di merci la cui qualità è in
qualche modo identificabile in relazione alla loro origine
geografica, così come per i prodotti agricoli e alimentari di
cui al Reg. CEE n. 2801/1992. Sembra logico dedurne che il
legislatore nazionale del 2003 nel riferirsi alla nozione
europea di origine abbia inteso richiamare la categoria di
derivazione geografica (solo) per quei prodotti di tipo
agricolo, minerario o animale, le cui caratteristiche siano in
qualche modo collegate al loro ambiente territoriale.
È ben vero che quando alla produzione delle merci contribuiscono
due o più paesi l'art. 24 del Reg. CEE n. 2913/92 definisce come
paese d'origine quello in cui è avvenuta l'ultima trasformazione
o lavorazione sostanziale, atteso che per le esigenze del
commercio internazionale l'origine della merce deve essere
sempre radicata in un solo paese. Ma si tratta appunto di una
nozione di origine che è stabilita per il funzionamento del
codice doganale comunitario, non già per la tutela dei
consumatori dalle frodi e dei produttori dalla illecita
concorrenza.
Si può quindi concludere che, richiamando la nozione europea di
origine l'art. 4, comma 49, della legge 350/2003 non ha
modificato la corretta interpretazione che si deve dare della
origine o provenienza di un prodotto ai fini della tutela penale
dell'ordine economico o della fede pubblica. Posto che a tali
fini origine e provenienza sono funzionali alla qualità del
prodotto, rileverà la derivazione territoriale o quella
imprenditoriale secondo che la qualità del prodotto dipenda
dall'ambito geografico o dalla tecnica produttiva in cui la
merce nasce.
6. Così precisata la portata
normativa della nuova disposizione, sembra doversi concludere
che essa configura una nuova fattispecie di reato, che rinvia
quoad poenam all'art. 517 c. p., ma che si distingue sia dalla
vendita dei prodotti industriali con segni «mendaci» (rectius
ingannevoli) di cui all'art. 517 c. p., sia dalla importazione e
commercio di prodotti industriali con segni «falsi» (rectius
contraffatti o alterati) di cui all'art. 474 c. p. In sintesi,
la propensione casistica del nostro legislatore penale ha
elaborato nella soggetta materia tre fattispecie penali, le
quali non possono distinguersi tra loro che nel modo seguente:
a) il reato di cui all'art. 474 c. p. punisce la
commercializzazione di prodotti industriali (oltre che di opere
dell'ingegno) con marchi o segni distintivi contraffatti o
alterati, e tutela propriamente la fede pubblica: la rubrica
dell'articolo non è esatta laddove menziona i segni «falsi»,
giacché vi possono essere segni distintivi falsi, in quanto non
rispondenti alla realtà (per esempio una bottiglia di vino
indica falsamente la sua provenienza toscana), senza che
costituiscano contraffazione o alterazione di marchi
preesistenti;
b) il reato di cui all'art. 517 c. p. punisce la
commercializzazione di prodotti industriali (oltre che di opere
dell'ingegno) con marchi o segni distintivi fallaci, cioè atti a
trarre in inganno sulla origine, provenienza o qualità del
prodotto, anche se i marchi non sono registrati o giuridicamente
protetti come tali;
c) il reato di cui al comma 49 dell'art. 4 della legge 350/2003
punisce la commercializzazione di di prodotti industriali ed
agricoli con indicazione di origine o provenienza falsa, cioè
non corrispondente alla realtà, oppure fallace, cioè atta a
trarre in inganno sulla origine o provenienza medesima; e ciò
anche se si tratta di indicazioni consistenti in segni
distintivi, emblemi o denominazioni non registrati né
giuridicamente riconosciuti.
Poiché la fattispecie di cui all'art. 517 ha carattere
sussidiario, applicandosi espressamente solo se il fatto non è
previsto come reato da altra disposizione di legge, bisognerebbe
concludere che il suo specifico ambito di operatività è limitato
alla commercializzazione con segni ingannevoli di opere
dell'ingegno (letterarie, musicali etc.). Per il resto essa è
stata assorbita dalla nuova figura criminosa, che ha
un'estensione più ampia sia per l'oggetto materiale (prodotti
non sol industriali, ma anche agricoli) sia per la condotta
(indicazione di segni distintivi falsi e non solo fallaci).
Com'è evidente, solo negli ultimi due reati assume rilevanza la
provenienza, l'origine o la qualità del prodotto, trattandosi di
reati contro l'ordine economico: Ma, come già osservato, dei tre
elementi menzionati, quello che ha rilievo decisivo è la
qualità, giacché provenienza e origine sono sempre in funzione
della qualità.
In conclusione si può a questo punto osservare quanto segue, in
linea con le considerazioni già svolte nei seguenti paragrafi:
– in genere, relativamente ai prodotti industriali la cui
qualità dipende dalla affidabilità tecnica del produttore, per
origine del prodotto deve intendersi la sua origine
imprenditoriale, cioè la sua fabbricazione da parte di un
imprenditore che assume la responsabilità giuridica, economica e
tecnica del processo produttivo;
– invece, relativamente ai prodotti agricoli o alimentari che
sono identificabili in relazione all'origine geografica, la cui
qualità dipende essenzialmente dall'ambiente naturale e umano in
cui sono coltivati, trasformati e prodotti, per origine del
prodotto deve intendersi propriamente la sua origine geografica
o territoriale.
7. Questa lunga analisi è stata
necessaria per dipanare la matassa di una normativa
eccessivamente casistica; ma consente ora di affrontare molto
più agevolmente la fattispecie oggetto del ricorso.
La società italiana (A), produttrice di capi d'abbigliamento
sportivo, si è avvalsa della delocalizzazione del processo
produttivo, facendo fabbricare in Cina i capi d'abbigliamento,
verosimilmente per lucrare il minor costo del lavoro sempre
conservando per sé un qualche controllo sulla tecnica di
fabbricazione, e successivamente ha importato in Italia i
prodotti finiti. Le confezioni importate recavano un'etichetta
con la composizione del tessuto e con la dicitura (A)-ITALY,
oppure un cartellino con la scritta (A) e un riquadro
sottostante con la dicitura ITALY e i colori della bandiera
italiana.
All'evidenza si tratta di prodotti la cui qualità dipende dalla
identità del produttore e non dall'ambiente geografico di
fabbricazione.
Perciò il comportamento della s.r.l. (A) non integrava il reato
di cui al comma 49 dell'art. 4 legge 350/2003, giacché i
prodotti tessili così importati non recavano alcuna falsa o
fallace indicazione sulla origine imprenditoriale, l'unica
rilevante per la qualità dei prodotti. Al contrario le etichette
e i cartellini contenevano l'indicazione veritiera sulla
identità del produttore (A) e sulla nazionalità del medesimo
(italiana), a nulla rilevando che non fosse indicato anche il
luogo di fabbricazione (cinese), giacché i capi d'abbigliamento
sportivo e in genere i prodotti tessili non sono identificabili
in relazione alla origine geografica, atteso che la loro qualità
è assicurata dalla materia prima usata e dalla tecnica
produttiva e non certo dall'ambiente territoriale dove il
processo produttivo si svolge.
Vero è che il marchio nazionale made in Italy è stato pensato
per tutelare le «merci integralmente prodotte sul territorio
italiano o assimilate ai sensi della normativa europea in
materia di origine» (comma 61 del ripetuto art. 4). Ma è anche
vero che tale marchio non è stato istituito e che i capi
d'abbigliamento sportivo fabbricati in Cina dalla società (A)
non recavano alcuna stampigliatura con la scritta made in Italy.
Correttamente quindi il giudice per le indagini preliminari ha
ritenuto mancante il fumus del reato ipotizzato e insussistente
il presupposto legale del sequestro probatorio disposto sui capi
d'abbigliamento importati dalla società. Il ricorso del Pubblico
Ministero contro la ordinanza di dissequestro è pertanto
destituito di fondamento giuridico.
P.Q.M.
La Corte Suprema di
Cassazione rigetta il ricorso.