L’imprenditore in Rete e i contratti telematici


di Andrea R. Sirotti Gaudenzi
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Avvocato e Professore a contratto nell'Università di Padova

 

 


Queste pagine rappresentano una trascrizione di alcune lezioni svolte durante l'anno accademico 2002/03 nel corso del Master in Diritto della Rete nell'Università degli Studi di Padova

 

 

 

1.             L’impresa in Rete

 

1.1. Il mercato e l’Information Technology

 

La nozione di “mercato” nell’epoca della “new economy” dev’essere ricondotta entro i confini dei principi espressi dalla Costituzione repubblicana. L’art. 41 della Costituzione stabilisce che «l'iniziativa economica privata è libera»[1]. Eppure, il legislatore costituzionale, ben consapevole del pericolo che aggressioni ai diritti potessero venire non solo dallo Stato, ma anche da organizzazioni private[2], chiarisce come l’iniziativa economica privata non possa «svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana»[3].

Tale formulazione sente indubbiamente l’influsso dell’art. 3 della Carta costituzionale, che impegna la Repubblica a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese»[4].

In questo quadro, non si può che ritenere come la nozione di mercato sia caratterizzato dal riconoscimento di una libertà che –a sua volta- deve rispettare le libertà degli altri.

In altre parole, il concetto di “concorrenza” aleggia sui principi della Carta costituzionale repubblicana, pur senza risultare formulato in modo specifico in alcun articolo.

Libertà di mercato e riconoscimento del valore della concorrenza sono gli elementi che caratterizzano anche la possibilità di realizzare una impresa che si avvalga degli strumenti delle nuove tecnologie fino ad utilizzare la rete Internet come unica “vetrina” della propria presenza.

Peraltro, come ricordano Giancarlo Livraghi e Sofia Postai, «È (…) sbagliato pensare che l’attività di un’impresa in rete possa limitarsi (solo) a un atto di presenza, come una comunicazione istituzionale, un’edizione elettronica di una generica brochure aziendale o un catalogo di prodotti o servizi»[5].

 

 

1.2.Le attività di commercio e Internet

 

Il D. Lgs. N. 114/98[6], nel disciplinare il settore del commercio, offre –all’art. 21- una norma dedicata al commercio elettronico:

«1. Il Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato promuove l'introduzione e l'uso del commercio elettronico con azioni volte a:

a) sostenere una crescita equilibrata del mercato elettronico;

b)                        tutelare gli interessi dei consumatori;

c) promuovere lo sviluppo di campagne di informazione ed apprendimento per operatori del settore ed operatori del servizio;

d)                        predisporre azioni specifiche finalizzate a migliorare la competitività globale delle imprese, con particolare riferimento alle piccole e alle medie, attraverso l'utilizzo del commercio elettronico;

e) favorire l'uso di strumenti e tecniche di gestione di qualità volte a garantire l'affidabilità degli operatori e ad accrescere la fiducia del consumatore;

f)  garantire la partecipazione italiana al processo di cooperazione e negoziazione europea ed internazionale per lo sviluppo del commercio elettronico.

2. Per le azioni di cui al comma 1 il Ministero dell'industria, del commercio e dell'artigianato può stipulare convenzioni e accordi di programma con soggetti pubblici o privati interessati, nonchè con associazioni rappresentative delle imprese e dei consumatori».

L’art. 4 inserisce la distinzione tra

a)             commercio all'ingrosso (“l'attività svolta da chiunque professionalmente acquista merci in nome e per conto proprio e le rivende ad altri commercianti, all'ingrosso o al dettaglio, o ad utilizzatori professionali, o ad altri utilizzatori in grande. Tale attività può assumere la forma di commercio interno, di importazione o di esportazione);

b)            commercio al dettaglio (“l'attività svolta da chiunque professionalmente acquista merci in nome e per conto proprio e le rivende, su aree private in sede fissa o mediante altre forme di distribuzione, direttamente al consumatore finale).

Dalle definizioni contenute nel D. Lgs. N. 114/98 si deve ritenere che lo svolgimento dell’attività commerciale debba essere professionale, ossia “organizzata” e quindi non occasionale[7]. Ciò comporta che il decreto si applica al business to business e al business to consumer non alle altre forme di commercio in rete (come il Person to Person o il Public Administration to Citizens).

Si applica al commercio in Internet l’art. 18 (Vendita per corrispondenza, televisione o altri sistemi di comunicazione), con cui si stabilisce che la vendita al dettaglio per corrispondenza o tramite televisione o altri sistemi di comunicazione è soggetta a previa comunicazione al comune nel quale l'esercente ha la residenza, se persona fisica, o la sede legale. L'attività può essere iniziata decorsi trenta giorni dal ricevimento della comunicazione. In tale comunicazione deve essere dichiarata la sussistenza del possesso dei requisiti di cui all'articolo 5 del decreto [8]e il settore merceologico.

 

Peraltro, è vietato inviare prodotti al consumatore se non a seguito di specifica richiesta, mentre è consentito l'invio di campioni di prodotti o di omaggi, senza spese o vincoli per il consumatore.

Qualora le operazioni di vendita siano effettuate tramite televisione, l'emittente televisiva deve accertare, prima di metterle in onda, che il titolare dell'attività sia in possesso dei requisiti prescritti dal decreto per l'esercizio della vendita al dettaglio. Durante la trasmissione debbono essere indicati il nome e la denominazione o la ragione sociale e la sede del venditore, il numero di iscrizione al registro delle imprese ed il numero della partita IVA. Agli organi di vigilanza è consentito il libero accesso al locale indicato come sede del venditore.

Lo stesso art. 18 pone il divieto di realizzare la vendita all'asta realizzate per mezzo della televisione o di altri sistemi di comunicazione.

Il Ministero dell’Attività Produttore ha chiarito che «per quanto attiene alla vendita su Internet effettuata dal produttore artigiano, la non applicazione delle regole previste dal D.Lgs. n. 114/1998 è subordinata alla circostanza che la vendita dei propri prodotti – da parte dei soggetti regolarmente iscritti all’albo delle imprese artigiane – avvenga nei locali di produzione o nei locali a questi adiacenti». Nell’occasione, si è affermato che «la disposizione del D.Lgs. n. 114/1998 richiede che la vendita abbia luogo nei locali di produzione o nei locali a questi adiacenti. Ne consegue che se la vendita – anche se a distanza tramite il sito su Internet – si conclude giuridicamente in detti locali non sussistono problemi all’ammissibilità del commercio on line anche da parte degli artigiani. Ai fini di detta esclusione è fatto però obbligo agli artigiani di evidenziare ai consumatori, all’interno del sito impiegato per l’attività on line, che la vendita di conclude presso i locali di produzione dell’impresa».

 

 

2.                      La pubblicità in Rete

 

2.1. La disciplina nazionale

 

La lettera a) dell'art. 2 del d. lgs. 74/92 definisce pubblicità «qualsiasi forma di messaggio che sia diffuso, in qualsiasi modo, nell'esercizio di un'attività commerciale, industriale, artigianale o professionale allo scopo di promuovere la vendita di beni mobili o immobili, la costituzione o il trasferimento di diritti ed obblighi su di essi oppure la presentazione di opere o di servizi»[9].

L'art. 1 del d. lgs. 74/92 prevede che il messaggio pubblicitario risponda a determinati criteri, dato che dev'essere:

-                         palese

-                         veritiero

-                         corretto

L'art. 2 dello stesso provvedimento normativo definisce pubblicità ingannevole «qualsiasi pubblicità che in qualunque modo, compresa la sua presentazione, induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, leda o possa ledere un concorrente»[10].

L’art. 3 bis (aggiunto dal d. lgs. 25 febbraio 2000) stabilisce i casi in cui la pubblicità comparativa debba intendersi lecita[11], vale a dire se:

a) non è ingannevole ai sensi del presente decreto;

b) confronta beni o servizi che soddisfano gli stessi bisogni o si propongono gli stessi obiettivi;

c) confronta oggettivamente una o più caratteristiche essenziali, pertinenti, verificabili e rappresentative, compreso eventualmente il prezzo, di tali beni e servizi;

d) non ingenera confusione sul mercato fra l'operatore pubblicitario ed un concorrente o tra i marchi, le denominazioni commerciali, altri segni distintivi, i beni o i servizi dell'operatore pubblicitario e quelli di un concorrente;

e) non causa discredito o denigrazione di marchi, denominazioni commerciali, altri segni distintivi, beni, servizi, attività o circostanze di un concorrente;

f) per i prodotti recanti denominazione di origine, si riferisce in ogni caso a prodotti aventi la stessa denominazione;

g) non trae indebitamente vantaggio dalla notorieà connessa al marchio, alla denominazione commerciale o a altro segno distintivo di un concorrente o alle denominazioni di origine di prodotti concorrenti;

h) non presenta un bene o un servizio come imitazione o contraffazione di beni o servizi protetti da un marchio o da una denominazione commerciale depositati.

Il comma terzo dell’art. 4 del D. Lgs. n. 74/92 vieta la pubblicità subliminale, dato che dev’essere considerata atto di concorrenza sleale.

Peraltro, una generica affermazione di superiorità, priva di supporto in dati scientifici, comporta inevitabilmente, denigrazione dei prodotti dei concorrenti[12].

Di particolare rilievo è il l'art. 7 del Codice di Autodisciplina Pubblicitaria, che dispone che «la pubblicità deve essere sempre riconoscibile come tale. Nei mezzi in cui, oltre alla pubblicità, vengono comunicati al pubblico informazioni e contenuti di altro genere, la pubblicità inserita deve essere nettamente distinta per mezzo di idonei accorgimenti».

 

 

2.2.       La legge applicabile nella pubblicità transnazionale

 

Le imprese che intendono realizzare viarie forme di commercio elettronico, così come le imprese che utilizzano Internet semplicemente come una vetrina utilizzano numerose tipologie di reclame (dal messaggio pubblicitario inviato a mezzo e-mail sino al banner contentuo nel sito web).

La direttiva 98/27/CE dispone il principio del “controllo del paese d’origine” sulla pubblicità ingannevole transfrontaliera. L’art. 4 della direttiva, infatti, stabilisce che ogni Stato membro prende le misure necessarie a garantire che, in caso di violazione avente origine nel proprio territorio, ogni ente legittimato nel proprio Stato membro possa adire l’organo giudiziale o l’autorità amministrativa competente[13].

Questa soluzione è stata ispirata dalla direttiva 89/552/CE sulla “televisione senza frontiere”, che –nel dettare disposizioni tese a garantire la libera circolazione delle trasmissioni televisive nell’ambito del mercato comune[14]- dispone una disciplina ad hoc per la pubblicità televisiva inserita in ogni forma di trasmissione televisiva (via cavo, via etere, via satellite, in forma codificata o non). La disciplina contenuta dalla direttiva 89/522/CE «non si applica alle trasmissioni televisive destinate esclusivamente ad essere captate in paesi terzi, e che non sono ricevute direttamente o indirettamente in uno o più Stati membri»[15].

La direttiva prevede che ogni Stato membro vigili affinchè «tutte le trasmissioni televisive delle emittenti televisive soggette alla sua giurisdizione rispettino il diritto applicabile alle trasmissioni destinate al pubblico in questo Stato membro» (art. 2). Peraltro, i Paesi membri «assicurano la libertà di ricezione e non ostacolano la ritrasmissione sul proprio territorio di trasmissioni televisive provenienti da altri Stati membri», a meno che non vi sia una manifesta, seria e grave violazione dei principi della direttiva a tutela dei minori o si verifichi una reiterazione della violazione.

La direttiva 89/522/CE indica chiaramente i criteri per l’individuazione dell’organo di controllo, nonché della disciplina applicabile alla pubblicità transfrontaliera diffusa a mezzo dei programmi televisivi: in entrambi i casi si deve far riferimento al paese di origine.

Invece, la direttiva 98/27/CE «non osta all’applicazione delle regole di diritto internazionale privato sulla legge applicabile e comporta, di norma, l’applicazione della legge dello Stato membro in cui ha origine la violazione e della legge dello Stato in cui la violazione produce i suoi effetti»[16].

 

 

3.             La concorrenza sleale in Rete

 

3.1.       Cenni sulla concorrenza sleale

 

L’art. 2598 c.c., nel sanzionare gli “atti di concorrenza sleale” prevede alcune ipotesi. Infatti, «ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi[17] e dei diritti di brevetto[18]», si stabilisce che «compie atti di concorrenza sleale chiunque:

1) usa nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri, o imita servilmente i prodotti di un concorrente, o compie con qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente;

2) diffonde notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull'attività di un concorrente, idonei a determinarne il discredito, o si appropria di pregi dei prodotti o dell'impresa di un concorrente;

3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l'altrui azienda».

Le ipotesi –pertanto- sono tre.

L’art. 2598 n. 1) c.c. è «fonte di un vero e proprio obbligo di far corrispondere il comportamento di mercato di ciascun operatore alla propria realtà imprenditoriale»[19]. Si deve leggere la norma in positivo, rilevando un vero e proprio “obbligo di non confondere il mercato”, con conseguente astensione da parte dell’imprenditore dall’utilizzo di marchi, ditte, insegne, nomi lato sensu che risultino “idonei a produrre confusione”. Quanto all’imitazione servile, è bene precisare che il legislatore non ha affatto vietato l’imitazione sic et simpliciter. Si è voluto, in realtà, sanzionare l’imitazione in quanto servile, giacchè la ripetizione in questo caso ha carattere fortemente parassitario e proteso all’ingenerare confusione negli utenti[20]. Infine, nel prevedere «qualsiasi altro mezzo atti idonei a creare confusione con i prodotti e con l'attività di un concorrente», il legislatore ha voluto indicare comportamenti che –pur non riguardando la forma del prodotto o l’uso di segni distintivi- abbiano come effetto quello della confondibilità tra prodotti (si può trattare, per esempio, dell’organizzazione di un servizio di vendita che copia pedissequamente quella di un concorrente più famoso ed affermato).

La «comunicazione commerciale sleale” è l’ipotesi prevista dall’art. 2598 n. 2) c.c., con cui ci si riferisce al momento della «comunicazione tra produttore e mercato»[21].

La previsione di cui all’art. 2598 n. 3) c.c. relativa alla “correttezza professionale” punisce chi si avvalga direttamente o indirettamente di qualsiasi mezzo idoneo a danneggiare un soggetto imprenditoriale (per esempio, manovre sui prezzi oppure violazioni di patti d’esclusiva). Questa norma appare estremamente interessante, dato che la giurisprudenza ha risolto numerosi casi relativi alla rete Internet e, in particolare, ai domain names proprio applicando il contenuto di questa previsione.

L’art. 2599 c.c. stabilisce che “la sentenza che accerta atti di concorrenza sleale ne inibisce la continuazione e dà gli opportuni provvedimenti affinché ne vengano eliminati gli effetti”. Ai sensi del primo comma dell’art. 2600 c.c.,  l'autore è tenuto al risarcimento dei danni “se gli atti di concorrenza sleale sono compiuti con dolo o con colpa”, benché il comma terzo dello stesso articolo dichiari che, «accertati gli atti di concorrenza, la colpa si presume». Peraltro, «in tale ipotesi può essere ordinata la pubblicazione della sentenza».

Ai sensi dell’art. 2601 c.c., quando gli atti di concorrenza sleale pregiudicano gli interessi di una categoria professionale, l'azione per la repressione della concorrenza sleale può essere promossa anche dalle associazioni professionali (che –tuttavia- sono state soppresse con D.L.L. 23 novembre 1944, n. 369)  e dagli enti che rappresentano la categoria (a norma del quinto comma dell’art. 25 della legge 29 dicembre 1993, n. 580, «le camere di commercio possono costituirsi parte civile nei giudizi relativi ai delitti contro l'economia pubblica, l'industria e il commercio. Possono altresì promuovere l'azione per la repressione della concorrenza sleale ai sensi dell'articolo 2601 del codice civile»).

 

 

3.2.       Il primo caso italiano di concorrenza sleale in rete

 

La prima pronuncia giurisprudenziale italiana relativa alla rete Internet definì un ricorso presentato all’art. 700 c.p.c. teso ad inibire la diffusione di comunicati stampa e dépliant pubblicitari contenenti la pubblicità per un servizio di collegamento alla rete Internet[22].

L’impresa ricorrente denunciava come fossero configurabili gli estremi l’illecito di concorrenza sleale ai sensi dell’art. 2598, comma terzo, per pubblicità ingannevole e menzognera, dato che l’impresa resistente vantava una priorità temporale nella predisposizione del servizio di accesso alla rete, che invece apparteneva alla ricorrente, che offriva servizi di internet service provider da alcuni mesi prima che l’impresa concorrente incominciasse ad offrire tali servizi.

Il Tribunale ha rigettato l’istanza cautelare, argomentato che "il vanto di una sterile priorità temporale non può essere calcolato come presunzione apprezzabile di maggior esperienza", e sottolineando come non ricorressero gli estremi dell’illecito concorrenziale sanzionato dall’art. 2598, comma 3, c.c.

Come rilevato dall’Aimo, “La decisione non è stata immune da critiche: nel mercato dei servizi, il vanto pubblicitario di un effettivo primato temporale non è notoriamente matter of indifference, soprattutto nel settore dei servizi di accesso ad Internet, in cui è pregio addirittura più importante della qualità del servizio stesso, in relazione all’importanza dei tempi d’ingresso nel mondo virtuale”[23].

 

 

3.3.       L’uso dei “Meta Tag”

 

La maggior parte delle pagine Web viene “scritta” attraverso il linguaggio html (hipertext markup language). Come le lettere dell'alfabeto consentono di scrivere e leggere pensieri, l’html serve a costruire pagine Web e proporle agli utenti della rete[24]. Le parole chiavi ed i titoli, codificate nel linguaggio html non sono immediatamente visibili sulla pagina Web[25] ed hanno la funzione di realizzare una sorta di “recensione” del sito che i motori di ricerca potranno individuare facilmente. I Meta Tag, presenti nella sezione head della pagina Web, contengono una serie di informazioni sul contenuto del sito, al fine di ottenere un’indicizzazione da parte dei motori di ricerca[26].

I Meta Tag si distinguono in due categorie:

1)            description (che descrivono il contenuto di una pagina[27]).

2)            keywords (che forniscono un elenco di parole chiavi che verranno indicizzate dai motori di ricerca e agevoleranno la ricerca, dirigendo gli utenti della rete verso il sito che li ospita[28]).

Uno dei primi casi in cui venne fatto riferimento ai rapporti tra meta-tag e copyright è quello che vide contrapposte Playboy Enterprises Inc e una ex  playmate che aveva inserito nel proprio sito alcuni meta-tag contenenti i termini “Playboy” e “playmate”[29]. In quel caso, la Corte federale della California ritenne che la ragazza avesse il diritto di usare quelle parole, che non facevano altro che descrivere la propria effettiva carriera[30]. Pertanto, non vennero ravvisate violazioni del diritto d’autore, né dei marchi di Playboy Enterprises Inc.

Effettivamente, per risolvere i problemi che possono prospettarsi in ambito nazionale, non ha alcun senso richiamare i precedenti statunitensi, se non per iniziare uno studio di diritto comparato.

La giurisprudenza nazionale ha avuto modo di rilevare come sia sanzionabile anche in sede penale la condotta di chi inserisca nel proprio sito parole chiavi riferibili alla persona, all'impresa e al prodotto di un concorrente, in modo da rendere maggiormente "visibile" sui motori di ricerca (quali Virgilio o Altavista) operanti in rete il proprio sito, sfruttando la notorietà commerciale e la diffusione del prodotto concorrente[31]. Infatti, è stato ritenuto configurabile l’ipotesi prevista dall’art. 513 c.p., che punisce il reato di “turbata libertà dell'industria o del commercio”.

Recentemente, la giurisprudenza nazionale si è occupata di un caso in cui una impresa nella realizzazione del proprio sito, avevo “copiato” i meta tag keywords presenti nel sito dell’azienda concorrente.

Con ordinanza emessa dal Tribunale Roma in data 18 gennaio 2001[32], è stato precisato che “l’uso da parte di Crowe Italia, quale meta-tag, della parola Genertel, che contraddistingue l’attività assicurativa per telefono o via Internet della ricorrente, dipende esclusivamente dallo scopo, così perseguito dalla resistente, di far comparire, tra i risultati della ricerca dell’utente della rete, il proprio sito e dunque, la propria presenza sul mercato dell’assicurazione RCA grazie alla notorietà raggiunta nel settore per cui è causa dalla medesima ricorrente, detentrice di una rilevante quota di mercato - dato non contestato - riportato nel ricorso introduttivo sulla base delle rilevazioni ufficiali ANIA - ed impegnata in onerose campagne pubblicitarie sui media. Non v’è dubbio, del resto, che anche la semplice conoscenza, da parte dell’utente di internet, dell’esistenza di altri prodotti o servizi comparabili con quelli della società istante, conoscenza ottenuta dalla Crowe Italia sfruttando slealmente i risultati degli sforzi imprenditoriali della concorrente e magari offrendo anche prodotti o servizi analoghi ed a prezzi migliori, è idonea ad influenzare la scelta del consumatore. Deve, in conclusione, ritenersi prevalente l’esigenza, tutelata dall’ordinamento e segnatamente dall’articolo 2598 n. 3 c.c., che ciascun imprenditore nella lotta con i concorrenti per l’acquisizione di più favorevoli posizioni di mercato, si avvalga di mezzi suoi propri e non tragga invece vantaggio in maniera parassitaria, per quanto sopra rilevato dall’effetto di "agganciamento" ai risultati dei mezzi impiegati da altri. Va inibito l’uso del meta-tag nei termini sopra indicati e la resistente provvederà a che nei motori di ricerca sia eliminata la presente parola Genertel. Tale misura, peraltro, appare sufficiente a realizzare le esigenza cautelari rappresentate dalla ricorrente.”

 

 

3.4.       I link

 

Con la parola link si indica un collegamento ipertestuale fra unità informative[33]. Abbandonando per un attimo le definizioni tecniche, bisogna ricordare che il link è -fondamentalmente- l'anima di Internet, dato che è lo strumento che consente di "navigare" tra le pagine del World Wibe Web ed ha realizzato la grande fortuna di questa nuova dimensione della comunicazione fra gli uomini[34].

Il volume di Alessia Ambrosini "La tutela del nome a dominio"[35] si apre proprio con l’efficace metafora del Web offertaci di Andrea Monti, il quale paragona Internet a Venezia: vale a dire isole collegate da ponti. Questi ponti, evidentemente, sono i link.

Navigando in rete, è possibile imbattersi in link interni, vale a dire collegamenti fra pagine dello stesso sito e in link esterni, che consentono al visitatore di un sito di spostarsi attraverso un semplice click nelle pagine ospitate da un diverso sito.

Tra le varie modalità utilizzate dai webmaster per realizzare collegamenti a pagine "esterne", è necessario soffermarsi sulle pratiche del surface linking, del framing e del deep linking, dato che sono state sollevate interessanti problematiche legate al diritto d'autore.

Il surface linking (tradotto letteralmente “aggancio superficiale”) consente all’utilizzatore di Internet di entrare in un sito diverso dalla pagina che ospita il collegamento ipertestuale, senza escludere il passaggio dall’home page del sito “chiamato”. Tale pratica è particolarmente diffusa in rete e viene non solo tollerata, ma –se non viene utilizzato in maniera impropria[36]- è ritenuto assolutamente lecito.

Con il termine framing si intende l'inserimento della pagina "chiamata" (volgarmente chiamata "linkata") all'interno della struttura del sito "chiamante" ("linkante").

Con la terminologia deep link si fa riferimento ad un collegamento che rinvia da una pagina ospitata da un sito ad un'altra pagina ospitata da sito (senza transitare per la "home page" di quest'ultimo sito), mentre Negli Stati Uniti le pratiche del framing e del deep link, se non espressamente autorizzata dal titolare del sito “linkato”, vengono considerate illecite (anche se per alcuni la pratica del deep link è l'unico modo corretto di citare la fonte indicata nel documento in cui il link è inserito) [37].

In particolare, negli U.S.A., si ritiene che il framing, per la “confusione” ingenerata nell’utente della rete possa rappresentare una violazione del copyright, laddove non venga evidenziato dal webmaster del "sito richiamante" che il link è diretto alla pagina di un altro sito. Sulla base di una consolidata abitudine in virtù della quale, in assenza di esplicite previsioni del legislatore nazionale, sarebbe opportuno ispirarsi al sistema statunitense, anche nel nostro Paese si sono levate voci di forte critica alla pratica del framing. Eppure, è stato autorevolmente sostenuto che ci sono pochi elementi per sostenere la tesi secondo cui sarebbero applicabili al nostro ordinamento i principi provenienti dagli USA[38].

Di recente, ha destato molto scalpore nel mondo del Web giuridico una sentenza emessa dal Tribunale di Rotterdam[39] che ha dichiarato la totale liceità della pratica del deep link.  I giudici olandesi, chiamati a risolvere una controversia tra un notiziario telematico e un altro sito che "linkava" le pagine interne di quest'ultimo, hanno rilevato come non vi fosse alcuna violazione del diritto d'autore. In sostanza, è stata ravvisata nel deep linking una pratica comunemente utilizzata in Internet, il cui punto di forza sarebbe proprio quello di basarsi sui collegamenti ipertestuali tra diversi siti, con conseguente rapida "circolazione" delle informazioni.

Utilizzando lo stesso ragionamento che aveva condotto taluni giuristi a proclamare l'illiceità del deep linking sulla base dei precedenti giurisprudenziali americani, altri "comparatisti" italiani hanno fatto poggiare la tesi della presunta liceità del deep linking proprio sulla sentenza olandese.

Anche in questo caso, in sostanza, taluni operatori del diritto italiano hanno dimenticato i principi nazionali e, di fronte al vuoto normativo e giurisprudenzaile del diritto interno, hanno cercato ardite soluzioni a problemi pratici nel diritto straniero[40].

Per gli stessi motivi che non consentono di condividere l'impostazione dei giuristi filoanglosassoni in tema di framing, è preferibile ricercare nell'ambito del sistema nazionale la soluzione ad ogni problemi che si presenti in rete. Pertanto –nei casi esaminati- è possibile richiamare la normativa nazionale in tema di concorrenza. Quindi, anche nel caso di sistematica condotta di deep link posta in essere al solo fine di sottrarre accessi, sarebbe necessario prendere in considerazione non tanto le regole in tema di diritto d'autore, ma i principi in tema di concorrenza sleale.

Recentemente, è stato diffuso un importante provvedimento (probabilmente il primo in Italia) reso il 22 dicembre 2000 ai sensi dell’art. 700 c.p.c. dal Tribunale di Genova ed avente ad oggetto il framing, nota pratica di realizzazione delle pagine web che si basa sull’utilizzo del link. La società che gestisce l’acquario di Genova aveva richiesto ed ottenuto, con ricorso presentato ai sensi dell’art. 697 c.p.c., l’accertamento tecnico di un presunto comportamento di concorrenza sleale effettuato per via telematica e dovuto al fatto che un altro soggetto avesse realizzato nel proprio sito una pagina all’interno della quale veniva richiamata l’home page del sito dell’acquario di Genova. In estrema sintesi, un soggetto cercava di confondere le idee agli utenti della rete, rappresentando quali proprie alcune pagine dell’Acquario di Genova, sfruttando la comune (e assai discussa) pratica del framing[41].  Con il provvedimento emesso il 22 dicembre 2000, il Tribunale di Genova ha rilevato che l’atteggiamento tenuto dalla controparte costituisse una netta e incontrovertibile violazione del diritto di identificazione del sito rappresentata dall’appropriazione e dall’uso in altro sito “non solamente del nome e del logo della società che ne è titolare ma, addirittura, dell’intera pagina principale quando, come nella presente fattispecie, essa abbia caratteristiche tale da costituire preciso contrassegno di identificazione”[42].

In realtà, secondo il Tribunale ligure, nel caso in cui la struttura della pagina “linkante” rappresenti –come nel caso del framing- una forma di “concorrenza parassitaria”, non si possono tollerare certe tecniche di costruzione della pagina Web. In buona sostanza, se l’impresa condannata avesse voluto inserire all’interno delle pagine del proprio sito l’home page del sito dell’Acquario di Genova avrebbe dovuto richiedere ed ottenere l’autorizzazione del titolare dei diritti. Infatti, “catturando” la pagina completa dell’acquario, l’impresa condannata aveva sfruttato la notorietà del sito senza esserne autorizzata e senza aver dovuto sborsare alcunché, con conseguente sviamento ed inganno ai danni degli utenti della rete.

 

 

3.5. Sequestro di sito Web per violazione di brevetto e tutela del software

 

Nel maggio del 2000, la giurisprudenza di merito si è espressa su un caso assai singolare legato ad una presunta “contraffazione” di brevetto in relazione ad un sistema che consentiva la navigazione in Rete con addebito del costo telefonico direttamente a carico del provider.

Con ordinanza datata 6 maggio 2000, l’organo giudiziario rilevava che parte ricorrente agiva «a tutela del brevetto per invenzione industriale n. 1.296.354 concesso in data 25/6/1999, dal titolo dispositivo per connettere utenti a reti telematiche e procedimento per l’invio dei dati, relativo ad un ritrovato che consente operativamente, con impiego del software, la connessione alla rete con asservimento di porzione dello schermo dell’utente alla riproduzione di messaggi (pubblicitari) non eliminabili, al fine di attuare la navigazione gratuita con addebito del costo del collegamento telefonico a carico del provider (che lo riversa sui committenti dei messaggi pubblicitari)». Nell’occasione, si riteneva che la resistente diffondesse in Rete «servizi che si avvalgono dell’invenzione oggetto del richiamato brevetto, come evidenziato dalle stesse informazioni fornite sul sito e dalla riproduzione su carta delle modalità di connessione, evidenzianti la usurpazione del brevetto stesso», per cui l’Autorità Giudiziaria disponeva ai sensi degli artt. 81, 82 e ss. R.D. 29/6/1939, n. 1127, nonché dell’art. 669 sexies c.p.c., l’inibizione alla resistente dell’impiego di ritrovati per la connessione a reti telematiche, comportanti diffusione di messaggi pubblicitari, costituenti riproduzione del brevetto per invenzione industriale concesso a parte ricorrente. Veniva anche autorizzato il sequestro degli oggetti prodotti in violazione del brevetto di cui al ricorso, dei mezzi utilizzati per la produzione e dei mezzi di prova delle violazioni, autorizzando l’Ufficiale Giudiziario ad avvalersi di un perito anche con impiego di mezzi tecnici.

Tuttavia, il  24  maggio 2000, il Tribunale di Padova revocava il sequestro,  escludendo che il sistema adottato dalla resistente utilizzasse alcuno dei dispositivi  oggetto del  brevetto in questione, dato che era  basato esclusivamente sull'uso di software[43]. In effetti, l’organo giudicante sottolineava come fosse possibile ravvisare una netta differenziazione tra l’invenzione brevettata da parte attrice ed il sistema utilizzato dalla controparte, con la motivazione secondo cui «quest’ultimo solo apparentemente conduce a risultati similari nella diffusione del servizio, rilevabili a prima vista dall’invio all’utente di un segnale che  realizza l’asservimento di un porzione dello schermo del monitor alla diffusione di messaggi pubblicitari tramite una finestra dedicata, ottenuta con l’impiego del software (…)».

Ovviamente, nell’occasione sarebbe stato opportuno approfondire l’analisi relativa ai rapporti tra la presunta “contraffazione” (fatta valere attraverso gli strumenti di tutela propri del brevetto) e il software[44], che il giudice –di fronte alla manifesta impossibilità di sovrapporre invenzione industriale e “semplice” programma per elaboratore– ha ritenuto superflua[45].

 

 

3.6. La concorrenza nei mercati delle reti: la direttiva 2002/77/CE

 

Più volte è stato affermato che la “Società dell’Informazione” fonda la propria esistenza sullo scambio di dati e sull’agevole accesso alla conoscenza.

Particolarmente intensa è stata l’attività delle istituzioni europee nell’ambito dei servizi di telecomunicazioni, a partire dalla direttiva 90/388/CE relativa alla concorrenza nei mercati dei servizi di telecomunicazioni.

Più recentemente, il Consiglio europeo di Lisbona del 23 e 24 marzo 2000 ha posto in evidenza gli innumerevoli vantaggi legati al passaggio ad una forma di “economia digitale” basata sulla conoscenza. In tale occasione, il Consiglio ha sottolineato, in particolare, l'importanza che riveste, sia per le imprese che per i cittadini europei, l'accesso ad una infrastruttura delle comunicazioni a livello mondiale poco costosa e a un'ampia gamma di servizi in un regime di reale concorrenza[46].

Alla luce di queste premesse dev’essere letta la nuova direttiva 2002/77/CE della Commissione datata 16 settembre 2002 relativa alla concorrenza nei mercati delle reti e dei servizi di comunicazione elettronica[47].

In effetti, un nuovo intervento era indispensabile in virtù dell’inarrestabile progresso tecnologico che rendeva la disciplina vigente ancorata ad una terminologia oramai superata. Infatti, la nuova direttiva parla di «servizi di comunicazione elettronica» e di «reti di comunicazione elettronica». Pertanto, non vengono più utilizzati i termini «servizi di telecomunicazioni» e «reti di telecomunicazioni», precedentemente usati dal legislatore comunitario. Come si legge nelle premesse della direttiva, queste nuove definizioni si sono rese necessarie per tenere conto del processo di convergenza tra i settori interessati, “inglobando in un'unica definizione tutti i servizi e le reti di comunicazione elettronica che intervengono nella trasmissione di segnali via cavo, via radio, a mezzo di fibre ottiche o con altri mezzi elettromagnetici (ossia reti fisse, radiomobili, televisive via cavo, satellitari)”. Ovviamente, è compresa anche la rete Internet.

Il testo della Direttiva precisa che la trasmissione e la diffusione di programmi radiofonici e televisivi è un servizio di comunicazione elettronica e che le reti utilizzate per tale trasmissione e diffusione sono, allo stesso modo, reti di comunicazione elettronica. Inoltre, va chiarito che la nuova definizione di reti di comunicazione elettronica copre anche le reti di fibre che consentono a terzi di trasmettere segnali avvalendosi delle proprie attrezzature di commutazione o di instradamento.

La ratio della direttiva è quella di imporre agli gli Stati membri di abolire (qualora non vi abbiano ancora provveduto) i diritti esclusivi e speciali per la fornitura tutte le reti di comunicazione elettronica, consentendo alle imprese di prestare tali servizi in un regime di concorrenza. In particolare, con riferimento al mondo della comunicazione televisiva, il riconoscimento di diritti esclusivi e la restrizione dell'uso delle reti di comunicazione elettronica per la trasmissione e la diffusione di segnali televisivi rappresenterebbero un atteggiamento contrario all'articolo 86 del Trattato CE, nonché all'articolo 43 (diritto di stabilimento) e dell'articolo 82 (sfruttamento della posizione dominante), con conseguente danno anche per i consumatori.

L’art. 2 della Direttiva stabilisce che è fatto divieto agli Stati membri “di accordare o mantenere in vigore diritti esclusivi o speciali per l'installazione e/o la fornitura di reti di comunicazione elettronica, o per la fornitura di servizi di comunicazione elettronica a disposizione del pubblico.” Anche un obbligo positivo viene previsto in capo ai legislatori nazionali, i quali dovranno adottare “ i provvedimenti necessari affinché a ciascuna impresa sia garantito il diritto di prestare servizi di comunicazione elettronica o di installare, ampliare o fornire reti di comunicazione elettronica”.

La Direttiva fa anche riferimento in modo esplicito agli obblighi realtivi al “servizio universale” (ovvero la fornitura di un insieme minimo definito di servizi a tutti gli utenti finali a prezzo abbordabile, di cui si era già occupata la direttiva 2002/22/CE). L’art. 6 della nuova direttiva stabilisce che qualsiasi regime inteso a condividere il costo netto degli obblighi di espletamento del servizio universale deve basarsi su criteri

1)            obiettivi,

2)            trasparenti,

3)            non discriminatori.

Inoltre, i provvedimenti nazionali relativi al “servizio universale” dovranno essere conformi ai principi di proporzionalità e di “minimizzazione” della distorsione del mercato.

Con riferimento al tema delle reti televisive via cavo, la direttiva impone agli Stati membri di provvedere affinché le imprese che forniscono reti pubbliche di comunicazione elettronica non gestiscano la propria rete televisiva via cavo per il tramite della medesima persona giuridica che gestisce la loro altra rete pubblica di comunicazione elettronica, quando l'impresa:

a) è controllata dallo Stato membro di cui trattasi o è titolare di diritti speciali; e

b) è in posizione dominante su una parte sostanziale del mercato comune nella fornitura di reti pubbliche di comunicazione elettronica e/o di servizi telefonici a disposizione del pubblico; e

c) gestisce nella stessa area geografica una rete televisiva via cavo installata sulla base di diritti speciali o esclusivi.

Particolarmente interessante è la previsione secondo cui gli Stati membri che ritengano che sul loro territorio esista una concorrenza sufficiente nella fornitura dell'infrastruttura per l'anello locale («local loop») e dei relativi servizi, ne debbano dare dettagliata informazione alla Commissione. Le informazioni comunicate dovranno poi essere messe a disposizione di qualsiasi interessato che ne faccia richiesta, tenendo conto del legittimo interesse delle imprese alla tutela dei “segreti aziendali”.

 

 

4. Il nome a dominio

 

4.1. La funzione del nome a dominio

 

In ogni Paese esiste un ente al quale viene affidato il compito di gestire l'assegnazione dei nomi a dominio nazionali.

In Italia, questo compito viene svolto dalla Registration Authority, affiancata dalla Naming Authority: la particolarità del sistema nazionale è data dal fatto che le due autorità, pur dovendo collaborare tra loro ed avendo sede entrambe presso l'Istituto per le Applicazioni Telematiche del CNR in Pisa, sono indipendenti tra loro[48].

In assenza di specifiche norme dalle quali sia possibile ricavare la “natura giuridica” dei domini Internet, la giurisprudenza ha indicato una serie di principi ai quali fare ricorso nell’ambito della protezione dei nomi a dominio.

 

 

4.2. Il nome a dominio e la concorrenza sleale

 

In uno dei primi scritti italiani sui nomi a dominio, S. Aimo correttamente rilevava che «il domain name non è (…) un semplice indirizzo di una casella postale virtuale, ma, nel caso degli operatori economici, adempie anche l’importante funzione di contraddistinguere l’attività d’impresa ed i prodotti e servizi di quest’ultima: i domain names, da un certo punto di vista, sono simili ai marchi. Come accade per i segni distintivi, vengono infatti iscritti in appositi registri – o generici (internazionali), ovvero legati ad un determinato territorio – e possono essere trasferiti e fatti oggetto di contratti che regolano il loro utilizzo»[49].

Non sono mancati i casi in cui i giudici hanno richiamato i principi espressi dalla legge sul diritto d’autore, ritenendo applicabili i principi accordati dal legislatore con riferimento alle opere intellettuali. In particolare, tale soluzione è parsa convincente nei casi in cui i nomi a dominio fossero corrisposti a testate giornalistiche. Uno dei primi casi fu sottoposto al Tribunale Civile di Roma - Sezione I che con ordinanza del 2 agosto 1997 stabilì che il nome di una testata “ripreso” dal nome a dominio di un’impresa concorrente implicasse oggettivamente “una situazione di sicura confondibilità per gli utenti, anche tenuto conto della sostanziale assimilabilità dei servizi resi al pubblico dalle due società”[50]. Sempre con riferimento a questo tipo di impostazione, si ricorda che il Tribunale di Viterbo, con ordinanza emessa il 24 gennaio 2000, ha stabilito che la protezione accordata dalla legge sul diritto di autore va verificata «procedendosi ad un accertamento se non anche dell'originalità, quanto meno di una significativa capacità individualizzante relativamente all'utilizzazione d'un vocabolario genericamente idoneo ad indicare e delimitare l'area degli argomenti oggetto di trattazione, necessaria espressione minima di generico riferimento per chiunque intenda svolgere attività editoriale nello specializzato settore prescelto e non ritenga conveniente o non sia in grado di creare una testata (perché il domain name tale è nell'ambito Internet) meglio caratterizzata per originalità e fantasia».

Nel 2001, il Tribunale di Roma[51], pur riferendosi anche alla lesione di quanto disposto dall’art. 100 l.d.a.[52], ha posto l’attenzione sulla previsione dell’art. 2958 c.c. nel caso in cui si presenti una registrazione di un domain name identico al titolo di una rivista edita da un soggetto concorrente, all’evidente scopo di creare difficoltà a quest’ultimo.  In particolare, si è affermato che «non vi è dubbio che la utilizzazione di un nome di un prodotto appartenente ad altra impresa, quale deve considerarsi la rivista giornalistica (…), integra un comportamento contra ius di concorrenza sleale, ai sensi dell'art. 2598 n. 1 c.c., tenuto conto che la diffusione sulla rete internet di un nome corrispondente alla testata giornalistica quale quella della reclamante (…) è sicuramente un fatto suscettibile di creare confusione tra i potenziali consumatori e utenti di tale attività giornalistica, di conseguenza, già sotto tale aspetto, l'attività denunziata si profila come illecita».

In numerose altre occasioni, i giudici nazionali hanno ravvisato l’opportunità di richiamarsi alle norme dettate in tema di marchi e segni distintivi[53].

Nel celebre caso “Bancoposta.it”, il Tribunale di Modena ha riconosciuto che “il carattere proprio di segno distintivo con capacità identificativa specifica del prodotto, e la ritenuta confusione generata nella generalità dei consociati, inducono a dissentire in ordine alle argomentazioni svolte sul punto dal giudice della prima cautela, ed a ritenere che si altresì la ricorrenza dell'ipotesi di concorrenza sleale di cui all’art. 2598 n.1 cc.”.[54] Circa il periculum, nell’occasione il tribunale ha peraltro rilevato che “la confusione generata negli utenti della rete Internet importi di pericolo di danno a carico della società ricorrente, atteso come una non chiara percezione da parte degli utenti stessi sia delle modalità di esercizio del servizio banco posta e dell'identità del gestore, e la astratta percepita dello stesso servizio come distaccato dalle attività complessivamente esercitate dalle poste italiane, le quali sono titolari di altri siti all'interno della rete ed offrono un con l'immagine di solidità e di capillarità, possono generare in potenziali utenti la determinazione a non ricorrere a tale servizio siccome percepito come privo delle necessarie garanzie di serietà ed attendibilità”.

Recentemente, con ordinanza emessa il 21 maggio 2001, il Tribunale di Firenze si è occupato del caso relativo al nome a dominio www.blaupunkt.it, registrato da un’impresa concorrente della Nessos Italia s.r.l., titolare del marchio Blaupunkt.

Il Tribunale del capoluogo toscano era stato chiamato ad esprimersi sulla vicenda a seguito di reclamo presentato ai sensi dell’art. 669 terdecies c.p.c. e volto ad ottenere la riforma di una precedente ordinanza emessa il 23 novembre 2000 dalla sezione di Empoli, con cui era stato stabilito che i principi relativi alla proprietà industriale non potessero essere richiamati nelle controversie legate ai nomi a dominio, ritenuti molto diversi dai marchi e dagli altri segni distintivi. Nel riformare l'ordinanza impugnata, il Tribunale di Firenze ha ritenuto applicabile ai domini Internet la disciplina dettata dal legislatore con riferimento ai segni distintivi e, in particolare, ai marchi.

Nella pronunzia è stato efficacemente rilevato che il domain name non può essere ritenuto un semplice “indirizzo telematico”. Infatti, il nome a dominio risulta molto diverso dall’I.P. (Internet Protocol), vale a dire quella combinazione di numeri che identifica il sito e che viene riconosciuta dai computer nell’ambito dei collegamenti telematici. Infatti, il domain name non viene assegnato d’ufficio o casualmente, ma viene scelto direttamente dall’utente per individuare una presenza in rete.

In effetti, è chiaro che un soggetto che presta servizi non sceglie un nome a dominio “a caso”, ma decide di registrare un domain name che richiami la propria attività e coincida con il proprio marchio.

Pertanto, il Tribunale di Firenze ha ritenuto che –in via generale- le disposizioni della Legge Marchi (R. D. 21 giugno 1929, n. 929) possano ritenersi applicabili alla tutela del nome a dominio.

Infatti, si è osservato che, nel caso di attività commerciale presente in rete, il domain name svolge due funzioni:

1)            la funzione (tecnica) specifica nell’ambito dei codici comunicativi utilizzati nell’ambito della rete Internet;

2)            la funzione (dal più ampio contenuto giuridico) di segno distintivo dell’impresa che opera nel mercato (e nella pronuncia in esame si sostiene che tale funzione sarebbe sottoposta alla relativa disciplina statale).

Nella stessa pronuncia si è sostenuto che la regola generale del “first come, first served” su cui si regge l’assegnazione del domini Internet è una regola che trova applicazione senza alcun problema fino a quando “le comunicazioni nella rete telematica non assumano rilevanza per settori della vita civile ed economica appositamente disciplinati dalla legge statale”. A tali conclusioni si giunge anche attraverso la lettura dei principi che regolano l’assegnazione dei nomi a dominio. In effetti, nell’ambito delle regole di assegnazione dettate dalla Naming Authority con riferimento ai domini, si stabilisce che è possibile la revoca di un nome a dominio nel caso di sentenza passata in giudicato. Inoltre, l’art. 16 delle stesse Regole di Naming detta le indicazioni da seguire nel caso delle procedure di riassegnazione, quando vi sia identità e confondibilità del domain name contestato con il marchio sul quale il ricorrente ritenga di vantare diritti.

Infine, è stato sottolineato come il titolare del marchio “riprodotto” nel nome a dominio contestato abbia il diritto di vietare a terzi che usano un segno identico o simile al marchio registrato per prodotti e servizi identici o affini, quando possa determinarsi un rischio di confusione per il pubblico[55].

Sempre con riferimento alla possibilità di promuovere azioni per sanzionare il presunto uso illecito di marchi registrati in domain name o in indirizzi identificativi di siti commerciali, il Tribunale di Roma, con ordinanza del 9 marzo 2000 ha chiarito che -ai sensi dell'art. 10 della legge n. 218/95 e dell'art. 669 ter c.p.c.- la giurisdizione italiana, in materia cautelare, sussiste quando il provvedimento deve essere eseguito in Italia o quando il giudice italiano ha giurisdizione nel merito[56]

 

Nel caso in esame, essendo pacifico che il provvedimento non deve essere eseguito in Italia, occorre valutare se sussista la giurisdizione italiana nel merito. Ai sensi dell'art. 3 della legge n. 218/95 di riforma del sistema italiano di diritto internazionale privato, la giurisdizione italiana sussiste quando il convenuto è domiciliato o residente in Italia o vi ha un rappresentante che sia autorizzato a stare in giudizio a norma dell'art. 77 del cod. proc. civ., " e negli altri casi in cui è prevista dalla legge". L'art. 56, comma 1, l.m. (come sostituito dall'art. 53 del d.lgs.  dicembre 1992), non espressamente abrogato da norme successive e norma speciale in materia di marchi, stabilisce che “le azioni in materia di marchi già registrati o in corso di registrazione e le azioni in materia di marchi registrati presso l'Organizzazione mondiale della proprietà individuale di Ginevra, relativamente ai loro effetti nel territorio dello Stato, ai propongono davanti all'autorità giudiziaria dello Stato, qualunque sia la cittadinanza, il domicilio o la residenza delle parti.

Occorre verificare dunque, essendo la questione di merito relativa alla contraffazione di marchio, se alla stregua di tale norma si aia in presenza di uno dei casi in cui "la giurisprudenza italiana è prevista dalla legge" (ai sensi dell'art. 3, comma 1, 1, cit.). Parte resistente ha infatti sostenuto la abrogazione implicita della norma a seguito della entrata in vigore della legge n. 218/1995, e che per il richiamo alla Convenzione di Bruxelles contenuto nel comma 2 delI'art. 3 cit. nelle materie regolate da questa, debba farsi esclusivo riferimento ai criteri di collegamento ivi indicati, e nella specie alla norma che in materia di responsabilità extracontrattuale indica come criterio di collegamento il luogo in cui si è verificato l'evento dannoso (e che nel caso in esame non sarebbe il territorio italiano). È evidente che il richiamo ai criteri aggiuntivi indicati - per relationem alla Convenzione di Bruxelles - al comma 2 dell'art. 3 cit. assume rilievo solo ove ai ritenga abrogata la norma speciale dell'art. 56 l.m., altrimenti la fattispecie sarebbe regolata dal comma 1 del suddetto articolo, quale ipotesi di giurisdizione italiana prevista espressamente dalla legge (rientrante quindi negli " altri casi previsti dalla legge ").

Orbene, deve in primo luogo escluderai che tale norma aia stata abrogata dall'art: 16.4 della Convenzione di Bruxelles, poiché tale ultima norma, sia pure in una interpretazione estensiva, riguarda le azioni aventi ad oggetto la registrazione, la validità di un marchio o la rivendicazione di un diritto di priorità derivante da un deposito anteriore effettuato in base ad una convenzione internazionale, e dunque non le azioni di contraffazione del marchio.

Parte resistente deduce tuttavia che l'art. 56 l.m. costituirebbe una mera applicazione dell'art. 4 n.2 c.p.c., cosicché l'abrogazione di questa norma (ex art. 73 legge n. 218/1995 in coordinamento con l'art. 3 della convenzione di Bruxelles) avrebbe comportato anche l'abrogazione dell'art. 56 suddetto. Il disposto dell'abrogato art. 4 n. 2 cod. proc. civ. prevedeva che "lo straniero può essere convenuto davanti ai giudici della Repubblica se la domanda riguarda beni esistenti nella Repubblica... oppure obbligazioni quivi sorte o da eseguirai": sul presupposto che il marchio è un bene immateriale, si riteneva che la norma che riconosceva la giurisdizione del giudice italiano sulle azioni di tutela di marchi italiani fosse applicazione di tale principio. Tuttavia, l'art. 73 della legge n. 218/1995 indica in modo espresso una serie di disposizioni abrogate, tra cui non rientra quella in esame, per cui deve farsi riferimento al disposto generale dell'art. 15 delle preleggi, alla cui stregua le leggi non sono abrogate che da leggi posteriori per dichiarazione espressa del legislatore o per incompatibilità tra le nuove disposizioni e le precedenti o perché la nuova legge regola l'intera materia già regolata dalla legge anteriore.

Nel caso in esame, non vi è stata abrogazione espressa; non vi è abrogazione a seguito di nuova regolazione dell'intera materia, in quanto è la stessa nuova legge, all'ari. 3, comma 1, ad affermare che sussiste la giurisdizione italiana "negli altri casi in cui è prevista dalla legge", e che dunque fa salve norme speciali preesistenti; non vi è incompatibilità sostanziale, in quanto non è impossibile la contemporanea applicazione della legge n. 218/1995 e dell'ari. 56 l.m. (cfr. sul criterio dell'impossibilità di applicazione contemporanea come criterio che identifica l'incompatibilità, Cass. n. 1760/1995).

Dunque, sussiste in materia di contraffazione di marchio la giurisdizione del giudice italiano, ai sensi dell'ari. 56 l.m., alla cui stregua, a prescindere dalla cittadinanza, domicilio, residenza delle parti in causa, sulle azioni in materia di marchi registrati (o in corso di registrazione) in Italia, nonché di marchi internazionali in relazione agli effetti prodotti in Italia, il giudice italiano ha giurisdizione esclusiva.

 

 

5. La fase della trattativa nella formazione di un contratto nel B2B

 

5.1 Brevi cenni sulla natura della responsabilità precontrattuale

 

Le imprese che utilizzano gli strumenti telematici per la conclusione di affari hanno la possibilità di sviluppare una lunga serie di “trattative” che spesso non si esaurisce nell’uso della rete, ma si sviluppano nell’utilizzo di numerosi strumenti tradizionali e innovativi.

Il fondamento normativo della “responsabilità precontrattuale” è rintracciabile nell’art. 1337 c.c., che dispone l’obbligo in capo alle parti di comportarsi secondo buona fede «nello svolgimento delle trattative e nella formazione del contratto».

La dottrina dominante ha ritenuto che la responsabilità precontrattuale abbia natura decisamente extracontrattuale[57].

Ovviamente, la scelta di una categoria alla quale ricondurre la responsabilità ex art. 1337 c.c. comporta importanti conseguenze in ordine alla risarcibilità del danno (in effetti, nessun criterio si desume dalla lettera dello stesso art. 1337 c.c., che nulla dispone in ordine al danno risarcibile).

In effetti, aderendo alla tesi della natura extracontrattuale, si sposa appieno il ragionamento di Bianca che -rilevando come l’art. 1337 c.c. non tuteli affatto l’interesse all’adempimento, quanto piuttosto l’interesse a non essere coinvolto in trattative inutili o in stipule di atti nulli - rileva:  «Si consideri, ad es., un contratto che la parte abbia stipulato a seguito del dolo dell’altra parte o di un terzo. Qui l’autore del dolo risponderà a titolo di responsabilità precontrattuale, non per inadempimento del contratto ma per aver indotto con inganno la vittima a stipulare un contratto che essa non avrebbe stipulato  o che avrebbe stipulato a condizioni diverse»[58]. Di conseguenza, la citata voce dottrinale, nel seguire l’impostazione formulata dallo Jhering, sostiene che il danno lamentato non corrisponderà alla lesione del c.d. interesse positivo, quanto nella lesione dell’interesse negativo, vale a dire «l’interesse a non stipulare un contratto invalido o a contenuto alterato»[59]

Altra dottrina ha rilevato che è necessario distinguere due ipotesi:

a)             le ipotesi in cui l’illecito precontrattuale, tale da non cagionare l’invalidità del contratto, ha indotto il partner a stipulare un contratto che altrimenti non avrebbe concluso;

b)            le ipotesi in cui l’illecito precontrattuale ha inciso unicamente sul contenuto del contratto e non sulla determinazione del contraente di concludere il negozio[60]

Gli Autori da ultimo indicati, richiamandosi ad altre fonti, rilevano che, mentre nella prima ipotesi al soggetto passivo dell’attività illecita spetterebbe un risarcimento del danno pari allo sfavorevole (per lui) contenuto del contratto, nella seconda ipotesi, andrebbe risarcito il danno consistente nelle migliori condizioni che il contraente avrebbe ottenuto senza l’illecita ingerenza.

Dalla scelta in ordine alla natura dell’illecito precontrattuale, derivano anche importanti conseguenze legate al diverso decorso della prescrizione (artt. 2947, comma primo e 2946 c.c.) o connesse alla responsabilità del soggetto incapace, relativamente all’applicabilità o meno dell’art. 2046 c.c[61]. Inoltre, è opportuno segnalare che dalla scelta relativa alla natura della responsabilità extracontrattuale dipende l’applicazione di diverse norme di diritto internazionale privato.

 

 

5.2 Ambito “precontrattuale” e ambito “contrattuale”: i confini

 

Esaminando la materia appare chiaro che è necessario individuare -nell’ambito della fase delle trattative- il limen tra responsabilità contrattuale e precontrattuale. Tale quesito si può risolvere solo nel momento in cui si è certi di quando gli accordi intercorsi tra le parti si trasformino da semplici “trattative” in perfezionamento dell’accordo contrattuale vero e proprio. Di fronte a taluni documenti “precontrattuali”, quali le lettere di intenti e -ancor più- le c.d. “piattaforme contrattuali”, il problema è di non poco conto, se si considera che tali documenti assumono forme complesse e assai dettagliate che potrebbero portare a ritenere che ci si trovi di fronte ad un vero e proprio contratto preliminare. Una delle conseguenze più importanti del confine (decisamente incerto) tra ambito contrattuale ed ambito precontrattuale è dato dal fatto che i documenti precontrattuali -qualora non rispettati- non comportano la possibilità di ottenere un provvedimento ex art. 2932 c.c., non trattandosi di contratti preliminari, quanto di semplici documenti che hanno l’obiettivo di “fissare” le finalità che si intendono perseguire tramite la redazione del contratto.

Quindi, per l’appunto, non si tratta di “contratti” stricto sensu, quanto di semplici documenti prodromici alla conclusione degli stessi e –tutt’al più- utilizzabili in sede di interpretazione del contratto che verrà alla luce, per indagare efficacemente sul reale contenuto della volontà delle parti.

La giurisprudenza nazionale ha chiarito che «qualora le trattative abbiano portato alla conclusione di un valido contratto, ai fini della responsabilità per danni, ha rilevanza solo l’inadempimento di obbligazioni nascenti dal contratto e non è configurabile una responsabilità precontrattuale» (Cass. 1842/1976).

Conformemente, i giudici di Cassazione si sono espressi in numerose occasioni, qualificando come fonte di responsabilità extracontrattuale il recesso ingiustificato delle trattative, pur in presenza di documenti prodromici alla formazione del contratto[62].

A questo riguardo si è rilevato che «qualora i contatti intercorsi tra due soggetti non siano tali, per mancanza di univocità dei comportamenti, da determinare la conclusione del contratto, essi possono tuttavia configurare delle trattative giunte ad un tale punto di sviluppo da ingenerare in una parte un giustificato affidamento sulla conclusione del contratto; in tal caso il recesso ingiustificato darebbe solo luogo a responsabilità precontrattuale, con conseguente obbligo di risarcire il danno (art. 1337 c. c.). L'avvenuto perfezionarsi di intese su alcuni punti dello stipulando contratto o gli eventuali accordi parziali, per il loro carattere provvisorio e la loro efficacia subordinata all'esito positivo delle trattative, non esulano dall'ambito della fase precontrattuale (cfr. Cass. 14 gennaio 1987, n. 176), ma certamente non provano la conclusione di un contratto»[63].

Peraltro, è stato ribadito da dottrina e giurisprudenza che non si può configurare una responsabilità precontrattuale (e, quindi, una responsabilità di natura extracontrattuale) in tutte le occasioni in cui si sia concluso un contratto, sia pure a condizioni diverse da quelle che si sarebbero presentate in presenza di un comportamento corretto delle parti[64]

Infine, con riferimento ad una delle questioni maggiormente dibattute negli scorsi decenni, appare degno di nota il fatto che la giurisprudenza abbia rilevato che deve attribuirsi alla giurisdizione ordinaria il caso in cui un privato intenda promuovere un’azione nei confronti della Pubblica amministrazione per ottenere il riconoscimento della responsabilità precontrattuale della stessa, a seguito di trattative non andate a buon fine[65].

 

 

5.3. I documenti precontrattuali nel commercio elettronico internazionale

 

Dato che, come già indicato, molti contatti on line vengono sviluppati tra soggetti appartenenti a diversi ordinamenti, è necessario indicare le soluzioni fino ad ora indicate con riferimento al volore attribuito ai documenti precontrattuali nell’ambito del commercio internazionale.

Innanzitutto, si deve chiarire che nei rapporti internazionali non esiste –a livello di disciplina convenzionale- una definizione di “documento precontrattuale”, né esiste una regola uniforme in ordine alla responsabilità precontrattuale.

Mentre i principi generali della lex mercatoria prevedono soltanto un generico rinvio al principio di correttezza e di buona fede nelle trattative[66], poco spazio viene riconosciuto dalle convenzioni internazionali ai problemi relativi alle fasi precontrattuali. La Convenzione di Vienna del 1980 si limita a stabilire che “fino alla conclusione del contratto, un'offerta può essere revocata se la revoca giunge al destinatario prima che questi abbia spedito un'accettazione” (art. 16).

Inoltre, un’offerta non può tuttavia essere revocata:

a) se essa indica, fissando un termine determinato per l'accettazione o altrimenti, di essere irrevocabile;

b) se per il destinatario era ragionevole ritenere irrevocabile l'offerta e se ha agito di conseguenza.

In relazione al limen tra fase precontrattuale e fase contrattuale vera e propria, qualche indicazione giunge dall’art. 18 della Convenzione di Vienna, che stabilisce:

«1.Una dichiarazione o altro comportamento del destinatario che indicano il consenso ad un'offerta, costituiscono accettazione. Il silenzio o l'inazione, da soli, non possono valere come accettazione.

1.             L'accettazione di un'offerta ha effetto nel momento in cui l'espressione del consenso perviene all'autore dell'offerta. L'accettazione non ha effetto se tale indicazione non perviene all'autore dell'offerta nel termine da lui stipulato o, in mancanza di tale stipula, in un termine ragionevole, tenuto conto delle circostanze della transazione e della rapidità dei mezzi di comunicazione utilizzati dall'autore dell'offerta. Un'offerta verbale deve essere accettata immediatamente, a meno che le circostanze non implichino il contrario.

2.             Se, tuttavia, in virtù dell'offerta, degli usi o consuetudini che si sono stabiliti fra le parti il destinatario dell'offerta può indicare che acconsente, compiendo un atto attinente, ad esempio, alla spedizione delle merci o al pagamento dei prezzi, senza darne comunicazione all'autore dell'offerta, l'accettazione avrà effetto nel momento in cui questo atto è compiuto, purchè lo sia entro i termini previsti dal precedente paragrafo».

La Convenzione di Roma del 1980, sulla legge applicabile alle obbligazioni contrattuali, nulla esplicitamente dispone in ordine alla responsabilità precontrattuale.

I Principi Unidroit sui contratti internazionali del 1984 si occupano delle trattative in mala fede, ma –come è noto- tali proncipi non sono affatto vincolanti, se non per le parti che intendano richiamarne direttamente il contenuto in un accordo contrattuale (si veda il preambolo del documento del 1984)[67].

In assenza, quindi, di particolari disposizioni in ambito internazionale, spesso le imprese sottoscrivono gentlemen agreements, confidentiality agreements o lettere di intenti per regolare le fasi preliminari alla conclusione dei contratti.

 A volte vengono sottoscrittee “piattaforme contrattuali complesse” (c.d. “contratti normativi”) che costituiranno la base normativa per tutti i futuri contratti sottoscritti dalle parti[68].

Frequentemente, nell’ambito dei rapporti commerciali intrattenuti grazie alla Rete Internet, si è utilizzato lo strumento delle “Lettere di Intenti”.

La Lettera di Intenti (chiamata anche “Letter of intent” o “Memorandum of understanding”) ha il fine  di formalizzare alcune decisioni e di regolamentare la conduzione delle negoziazioni e si caratterizza per una volontà delle parti a impegnarsi solo “moralmente” con la controparte per la conduzione di un futuro affare, ma non giuridicamente. La lettera di intenti va qualificata al pari della cosiddetta puntuazione o minuta di contratto come mero atto precontrattuale, qualora, dall’accertamento della volontà delle parti, risulti che tale intesa sia stata sottoscritta al fine di manifestare o formalizzare l’intento di trattare o puntualizzare i termini della trattativa.

Le lettere d’intenti non sono figure estranee alla tradizione giuridica italiana, infatti -per dottrina ormai costante- esse sono essenzialmente accumunate alle cd. minute contrattuali (o “puntuazione”), utilizzate anche dagli operatori commerciali italiani[69].

Come rileva il Lisi, le lettere d’intenti possono essere  di vari tipi. Tra i più comuni si ricordano:

“1. lettere nelle quali si descrivono gli obiettivi delle negoziazioni tra le parti e si indica la procedura per condurre la negoziazione, fissandone il termine;

3.             lettere più semplici nelle quali si indicano soltanto alcuni aspetti dell’argomento che le parti vogliono trattare;

4.             lettere che stabiliscono al loro interno anche precisi doveri e responsabilità di entrambe le parti (es. non negoziare contemporaneamente con altri, mantenere riservate le informazioni relative alle trattative in corso…);

5.             lettere che definiscono esattamente a che punto è giunta la negoziazione”[70].

Assai dibatutta è la “forza vincolante” della “lettera di intenti”, anche se –dovendo ricondurre la prassi nell’alveo della sistematica dell’ordinamento italiano, si è optato per accostarlo alla “minuta contrattuale”, che pur potendo contenere tutti gli elementi essenziali del futuro accordo, non vincola le parti, le quali, documentando per iscritto tutti i punti essenziali delle trattative, intendono subordinare il perfezionamento del contratto ad un successivo accordo anche relativo ad elementi secondari dell’affare perseguito.

A tal proposito, la Cassazione ha affermato che «la responsabilità precontrattuale ai sensi dell’art. 1337 c.c. può conseguire tanto in relazione al processo formativo del contratto, quanto in rapporto alle semplici trattative, riguardate come qualcosa di diverso da esso, ossia come quella fase anteriore in cui le parti si limitano a manifestare la loro tendenza verso la stipulazione del contratto, senza ancora porre in essere alcuno di quegli atti di proposta o accettazione che integrano il vero e proprio processo formativo. Se lo svolgimento delle trattative è, per serietà e concludenza, tale da determinare un affidamento nella stipulazione del contratto, la parte che ne receda senza giusta causa, violando volontariamente l’obbligo di comportarsi secondo buona fede, è tenuta al risarcimento dei danni nei limiti dell’interesse negativo.

Va da sé che tutti gli indicati presupposti della responsabilità precontrattuale (lo stadio avanzato delle trattative, il ragionevole affidamento suscitato nella conclusione del contratto, l'assenza di una giusta causa di recesso e quindi la violazione degli obblighi di buona fede) concretano altrettanti accertamenti di fatto, demandati all'esclusiva competenza del giudice di merito, incensurabili in cassazione se adeguatamente motivati»[71].

 

 

6.             L’Internet Service Provider

 

6.1. I fornitori di servizi telematici della rete

 

Sono tre le tipologie di provider indicati dal codice di deontologia e di buona condotta adottato dall’Associazione Nazionale Fornitori di Videoaudioinformazione (ANFOV)[72]:

a) "fornitore di accesso" (vale a dire il soggetto che offre al pubblico l'accesso ad una rete telematica);

b)"fornitore di servizi" ( il soggetto che offre al pubblico servizi di comunicazione e/o di trattamento delle informazioni destinati al pubblico, oppure ad utenti e abbonati);

c)             "fornitore di contenuti" (il soggetto che offre al pubblico informazioni che transitano sulla rete telematica e destinate al pubblico, oppure ad utenti e abbonati).

Richiamando il linguaggio anglosassone[73], i soggetti possono essere definiti:

a)            access provider

b)            service provider

c)             content provider

 

Nel 2001 la Camera di Commercio di Milano ha raccolto in un documento gli usi degli Internet Providers, che si riproducono integralmente in queste pagine[74]

1. Definizione.
Il contratto di fornitura di servizi Internet è il contratto col quale una parte, il provider, concede ad un’altra, il cliente, l’accesso alla rete Internet e fornisce ulteriori servizi gratuitamente o verso un corrispettivo.
2. Forma.
Il contratto viene concluso anche on-line e suole essere confermato per iscritto.
3. Durata.
Il contratto suole avere durata di un anno.
4. Obblighi del cliente.
Il cliente si impegna a rispettare le regole di buon uso dei servizi di rete talora denominate netiquette. Il cliente, identificato da un codice (username) e da una parola chiave (password), potendo utilizzare anche pseudonimi per l’accesso ai servizi, garantisce la veridicità e l’esattezza dei dati anagrafici forniti al provider. Il cliente custodisce la parola chiave (password) nella massima riservatezza e con la massima diligenza. Il cliente, informato, accetta l’esistenza del registro dei collegamenti (log) tenuto dal provider ai soli fini di gestione del servizio.
5. Prestazioni ed obblighi del provider.
Il provider si impegna a fornire al cliente l’accesso alla rete ed i servizi internet previsti dall’abbonamento, salvo sospensioni per manutenzioni previo preavviso. Il provider custodisce i dati anagrafici, il codice di identificazione e la parola chiave (password) attribuita al cliente nella massima riservatezza e con la massima diligenza. Il provider compila e custodisce il registro dei collegamenti (log) e su di esso mantiene la massima riservatezza. In caso di formale richiesta di informazioni, da parte delle autorità all’uopo per legge autorizzate, il provider è tenuto a fornirle.
6. Responsabilità del cliente.
Il cliente assume ogni responsabilità in ordine ai dati ed alle informazioni immessi in rete, nonché in ordine al loro contenuto e forma.
7. Responsabilità del provider.
Il provider garantisce la continuità nell’erogazione dei predetti servizi, nei limiti di cui all’art. 5, salvo nei casi di:
- forza maggiore o caso fortuito;
- manomissioni su servizi o sulle apparecchiature, effettuati dal cliente o da terzi; ·

- errata utilizzazione dei servizi da parte del cliente;
- mal funzionamento degli apparecchi di connessione utilizzati dal cliente, anche quando siano derivati dal mancato rispetto di leggi e regolamenti in materia di sicurezza, prevenzione incendi ed infortunistica.
8. Utilizzo dell’abbonamento.
L’abbonamento presuppone il perfezionamento del contratto e la fornitura dei dati anagrafici del cliente. L’abbonamento consente un accesso alla volta tramite un singolo collegamento. I contratti sono soliti indicare se più utenti possono avvalersi contemporaneamente di un singolo accesso. I costi relativi al collegamento sono a carico del cliente. Il collegamento presuppone la corretta configurazione del proprio computer e l’installazione del software di collegamento da parte del cliente.
9. Termini di pagamento.
Nei contratti a titolo oneroso, il cliente paga anticipatamente il corrispettivo dell’abbonamento e, in caso di rinnovo tacito, entro la data di rinnovo per i successivi periodi annuali.
10. Riservatezza.
Il provider tratta i dati del cliente con la finalità di registrarli ed attivare nei suoi confronti i servizi oggetto del contratto. I dati trattati dal provider, salvo espressa autorizzazione, vengono esibiti soltanto su richiesta delle autorità all’uopo per legge autorizzate.


 

 

6.2. Orientamenti giurisprudenziali

 

Negli Stati Uniti la giurisprudenza si è occupata in numerose occasione della responsabilità degli Internet service provider, affermando perlopiù il principio in virtù del quale il provider, in quanto semplice fornitore di spazi e di connessioni non avrebbe il potere/dovere di operare una preliminare censure sui contenuti delle informazioni trasmesse dai propri utenti[75].

Una delle più interessanti questioni relative alla responsabilità degli internet service provider è stata affrontate dalla giurisprudenza nazionale con riferimento alla presunta pubblicazione di un messaggio oltraggioso in un servizio di newsgroup[76].

 

I newsgroups o aree di discussione consistono in una sorta di "bacheca" elettronica, dove gli utenti che agiscono tramite elaboratori elettronici, possono leggere i messaggi apposti da altri utenti e aggiungere i propri contributi. Si tratta di numerosissime aree di discussione, articolate per argomenti, che si distinguono in moderate e non, a seconda della presenza o meno della figura del c.d. moderatore, che analizza i messaggi in arrivo e cancella gli interventi non in linea per forma o contenuto con i requisiti essenziali del gruppo.

L'accesso ai newsgroups è reso possibile dal c.d. news-server, che potrebbe essere definito come un computer, collocato al centro della rete, che ospita le suddette aree di discussione, ed a cui i singoli utenti possono accedere avvalendosi dei programmi client di collegamento (ad es. Netscape) installati sui propri terminali. I newsgroups che consentono lo scambio in rete di informazioni ed opinioni su temi specifici tra i soggetti interessati, possono essere creati da ogni utente Internet e fanno capo di solito ad una pluralità di elaboratori che conservano tutti una copia del messaggio inviato ed utilizzano particolari procedimenti per sincronizzare i dati immessi, in modo che qualsiasi news-server, che ospita quell'area di discussione destinataria dell'intervento, possano essere consultati i messaggi di più recente inserimento. Il news-server non è pertanto titolare di un sito, cioè di uno spazio nella rete, ma mette a disposizione degli utenti Internet uno spazio "virtuale" deputato ad ospitare i messaggi di coloro che vogliano contribuire alla discussione di specifiche tematiche.

 

Nell’occasione si è affermato che il provider non fosse legittimata passiva dal ricorso, in quanto il news-server si limita a mettere a disposizione degli utenti lo spazio "virtuale" dell'area di discussione e nel caso di specie, trattandosi di un newsgroup non moderato, non ha alcun potere di controllo e vigilanza sugli interventi che vi vengono inseriti[77].

Più recentemente, con ordinanza datata 22 marzo 1999, il Tribunale di Roma ha ritenuto che un provider possa essere ritenuto responsabile del comportamento con cui un cliente registra un nome a dominio, violando il marchio di altri e ponendo in essere una fattispecie di concorrenza sleale per attività confusoria[78]

 

Deduce sul punto [il provider] che un'eventuale responsabilità poteva essere attribuita al titolare del nome di dominio (…) e non al provider, che si è limitato a fornire l'allacciamento alla rete, e sul quale non incomberebbe nessun obbligo di controllare il contenuto di pagine inserite nel sito gestito da [XXX].

Si osserva, sulla base dei principi del concorso nel fatto illecito altrui, che il terzo risponde se con la sua condotta commissiva od omissiva, ha dato un apporto causale al realizzarsi dell'illecito, in presenza di un atteggiamento psicologico di dolo o colpa: nel caso del provider, che effettua il collegamento; non si dubita che egli non possa accertarsi del contenuto illecito delle comunicazioni e dei messaggi che vengono immessi in un sito; tuttavia, non può escludersi la sua colpa, se le comunicazioni necessariamente date allo stesso provider al fine di ottenere il collegamento, configurino esse stesse all'evidenza un illecito. L'opposta opinione consentirebbe, ad esempio, che vada esente da responsabilità, pur sussistendo tutti gli elementi del concorso nell'illecito, il provider che dia il collegamento a chi dichiaratamente intenda aprire un sito al fine di effettuare traffico di minori a fini turpi o commercio di sostanze stupefacenti.

Nel caso specifico, l'ordinaria diligenza avrebbe dovuto consentire di cogliere l'illiceità, almeno sotto il profilo della concorrenza sleale, dell'utilizzo di un acronimo noto da parte di soggetto a tal fine non autorizzato. Né la mancanza nel provider, della qualità di imprenditore, nel campo in cui si chiede la tutela, esclude la sua responsabilità una volta che si accerti che egli fosse a conoscenza della esistenza di detta qualità in chi richiede il collegamento e l'apertura di un sito.

 

La più recente giurisprudenza si è approfonditamente occupata della responsabilità del provider[79].

 

[…], la responsabilità del provider (dall'inglese "fornitore") può essere esaminata sotto diversi profili, e cioè con riguardo alla violazione del diritto d'autore, del diritto alla riservatezza, alla diffamazione, o alla violazione delle norme in materia di concorrenza sleale ecc. La soluzione delle questioni di cui si discute non può prescindere dall'esame dei compiti e delle funzioni espletate dai c.d. operatori della rete internet. Tali soggetti possono così essere classíficati: "access provider" (fornitore di accesso) service provider (fornitore di servizi) e content provider (fornitore di contenuti). Il termine access provider individua il soggetto che consente all'utente l'allacciamento alla rete telematica. Il compito dell'access provider è per lo più quello di accertare l'identità dell'utente che richiede il servizio, di acquisirne i suoi dati anagrafici e, quindi, di trasmettere la richiesta all'Autorithy Italiana affinché provveda all'apertura del relativo sito Web. L'access provider può anche limitarsi a concedere al cliente uno spazio, da gestire autonomamente, sul disco fisso del proprio elaboratore.

Service provider è invece quel soggetto che, una volta avvenuto l'accesso in rete, consente all'utente di compiere determinate operazioni, quali la posta elettronica, la suddivisione e catalogazione delle informazioni, il loro invio a soggetti determinati, ecc. Content provider è, infine, l'operatore che mette a disposizione del pubblico informazioni ed opere di qualsiasi genere (riviste, fotografie, libri, banche dati, versioni telematiche di quotidiani e periodici, ecc.) caricandole sulle memorie dei computers server e collegando tali computers alla rete. Content provider è anche chi si obbliga a gestire e ad organizzare le pagine "web" immesse in rete dal proprio cliente.

Accertate, in via del tutto esemplificativa, le funzioni delle diverse figure di providers, funzioni che possono essere svolte anche da un unico soggetto, occorre stabilire se sia configurabile o meno la responsabilità di tali operatori per gli illeciti commessi in via telematica. Per quanto concerne la figura dell'access e del service provider, sia la dottrina che la giurisprudenza tendono ad escluderla, equiparando il provider ad un latore di informazioni, al quale non può addossarsi alcuna responsabilità per il fatto che il servizio da lui fornito (l'accesso alla rete internet), secondo l'impegno contrattualmente assunto, venga poi diretto dall'utente al perseguimento di scopi contrari alla legge o lesivi di diritti altrui (in tal senso: Trib. Cuneo 23.6.97, Milano Finanza Editori s.p.a./STS Servizi Telematici di Borsa, LRC).

Diversa è la posizione del content provider, il quale - generalmente viene invece riconosciuto responsabile per le violazioni di legge commesse mediante il materiale immesso in rete, e tale orientamento va condiviso.

Ed invero, non può porsi in dubbio che il caricamento di un'opera nella memoria del computer collegato in rete costituisca riproduzione, e che la trasmissione da un computer ad un altro costituisca diffusione a distanza. La responsabilità del content provider, per il contenuto lesivo degli scritti resi conoscibili a terzi, trova, pertanto, la propria fonte nel divieto del neminen laedere sancito dall'art. 2043 c.c..

Come è stato infatti osservato, il soggetto che produce o che gestisce l'informazione, a causa del ruolo che riveste, non può ritenersi esonerato dal dovere di controllo sulla legittimità delle informazioni immesse sul proprio sito, obbligo di controllo che rientra nel più ampio dovere di diligenza professionale che incombe su ogni operatore economico, quale componente del rischio d'impresa. Ma vi è di più. Il proprietario di un canale di comunicazione ed il gestore del sito internet recante messaggi on line sono stati correttamente equiparati agli organi di stampa in quanto, anch'essi, al pari degli organi di stampa, riproducono un'opera. o uno scritto rendendoli accessibili ad un pubblico di lettori (In tal senso si è espresso Trib. Napoli, ord. 8.8.97 est. Schisano, M. Cirino Pomicino s.p.a./ Geredil s.a.s. ed altri; sul tema anche Trib. Cuneo, ord. 23.6.97 già citata). Da ciò consegue la possibilità di applicare, in via analogica, al content provider la norma dell'art.11 L. n.47/48 secondo la quale "per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l'editore".

D'altro canto, diversamente argomentando, si otterrebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra la tutela di diritti violati on líne e quelli violati con altri mezzi di diffusione (off line) venendosi, inoltre, a riconoscere la possibilità di esercizio, senza alcun controllo, di un'attività che può essere fonte di danni di rilevante entità per il numero potenzialmente assai elevato dei destinatari dell'informazione telematica.

 

 

6.3. Il quadro normativo comunitario

 

Nel quarantesimo considerando della Direttiva sul commercio elettronico, si sottolinea che “Le attuali o emergenti divergenze tra le normative e le giurisprudenze nazionali, nel campo della responsabilità dei prestatori di servizi che agiscono come intermediari, impediscono il buon funzionamento del mercato interno, soprattutto ostacolando lo sviluppo dei servizi transnazionali e introducendo distorsioni delle concorrenza. In taluni casi, i prestatori di servizi hanno il dovere di agire per evitare o per porre fine alle attività illegali. La presente direttiva dovrebbe costituire la base adeguata per elaborare sistemi rapidi e affidabili idonei a rimuovere le informazioni illecite e disabilitare l’accesso alle medesime. Tali sistemi potrebbero essere concordati tra tutte le parti interessate e andrebbero incoraggiati dagli Stati membri. E’ nell’interesse di tutte le parti attive nella prestazione di servizi della società dell’informazione istituire e applicare tali sistemi. Le disposizioni dalla presente direttiva sulla responsabilità non dovrebbero impedire ai vari interessati di sviluppare e usare effettivamente sistemi tecnici di protezione e di identificazione, nonché strumenti tecnici di sorveglianza resi possibili dalla tecnologia digitale, entro i limiti fissati dalle direttive 97/46/CE e 97/66/CE”.

Inoltre, “le limitazioni alla responsabilità dei prestatori intermedi previste nella presente direttiva lasciano impregiudicata la possibilità di azioni inibitorie di altro tipo. Siffatte azioni inibitorie possono, in particolare, essere ordinanze di organi giurisdizionali o autorità amministrative che obbligano a porre fine a una violazione o impedirla, anche con la rimozione dell’informazione illecita o la disabilitazione dell’accesso alla medesima”[80].

La disciplina prevista nella Sezione 4 della Direttiva sul commercio elettronico, in cui ci si occupa della Responsabilità dei prestatori intermediari, si ricollega a quanto premesso nel quaranantasettesimo considerando, che prevede come gli Stati Membri non possano imporre ai prestatori un obbligo di sorveglianza di carattere generale. Ovviamente, si precisa che “tale disposizione non riguarda gli obblighi di sorveglianza in casi specifici e, in particolare, lascia impregiudicate le ordinanze emesse dalle autorità nazionali secondo le rispettive legislazioni”.

L’art. 12 si occupa del “semplice trasporto” ("mere conduit"), che viene vista con favore da parte del legislatore comunitario, sino ad un’equiparazione all’attività esercitata dai common carriers[81]. Il “semplice trasporto” è la “prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, o nel fornire un accesso alla rete di comunicazione”. In tal caso, gli Stati membri dovranno far sì che il prestatore non sia responsabile delle informazioni trasmesse a condizione che egli:

a) non dia origine alla trasmissione;

b) non selezioni il destinatario della trasmissione;

c) non selezioni né modifichi le informazioni trasmesse.

Il comma secondo dell’art. 12 chiarisce che “le attività di trasmissione e di fornitura di accesso includono la memorizzazione automatica, intermedia e transitoria delle informazioni trasmesse, a condizione che questa serva solo alla trasmissione sulla rete di comunicazione e che la sua durata non ecceda il tempo ragionevolmente necessario a tale scopo”[82].

Per quel che riguarda l’attività di memorizzazione temporanea (“caching”), l’art. 13 della Direttiva prevede che “gli Stati membri provvedono affinché, nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non sia responsabile della memorizzazione automatica, intermedia e temporanea di tali informazioni effettuata al solo scopo di rendere più efficace il successivo inoltre ad altri destinatari a loro richiesta, a condizione che egli:

a) non modifichi le informazioni;

b) si conformi alle condizioni di accesso alle informazioni;

c) si conformi alle norme di aggiornamento delle informazioni, indicate in un modo ampiamente riconosciuto e utilizzato dalle imprese del settore;

d) non interferisca con l’uso lecito di tecnologia ampiamente riconosciuta e utilizzata nel settore per ottenere dati sull’impiego delle informazioni;

e) agisca prontamente per rimuovere le informazioni che ha memorizzato, o per disabilitare l’accesso, non appena venga effettivamente a conoscenza del fatto che le informazioni sono state rimosse dal luogo dove si trovavano inizialmente sulla rete o che l’accesso alle informazioni è stato disabilitato oppure che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa ne ha disposto la rimozione o la disabilitazione dell’accesso”[83].

L’art. 14 della direttiva, nell’occuparsi dell’"Hosting" (id est, la “memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio”), enuncia il principio della non responsabilità del prestatore del servizio,  a condizione che lo stesso prestatore:

a) non sia effettivamente al corrente del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illegalità dell’attività o dell’informazione;

b) non appena al corrente di tali fatti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.

Tale principio non trova applicazione “se il destinatario del servizio agisce sotto l’autorità o il controllo del prestatore”[84].

Come rilevato da Nicola Graziano, “questa norma conferma che, se da una parte, non può essere fondata la responsabilità del service provider su di un generico obbligo di sorveglianza a suo carico, che oltretutto mal si concilierebbe con il diritto dei suoi utenti alla libera manifestazione del pensiero ed all’esercizio del diritto di critica e di satira, dall’altra parte, la effettiva conoscenza di una attività illecita posta in essere da suoi utenti non lo rende esente da responsabilità (solidale ex art. 2055 c.c.) tutte le volte in cui lo stesso non si sia attivato per rimuovere la condotta lesiva di un interesse protetto ex art. 2043 c.c.”[85]

L’art. 15 della direttiva impone agli Stati membri di non prevedere un obbligo generale di sorveglianza in capo ai “prestatori intermediari”:

“1. Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 12, 13 e 14, gli Stati membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano né un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.

2. Gli Stati membri possono stabilire che i prestatori di servizi della società dell’informazione siano tenuti ad informare senza indugio la pubblica autorità competente di presunte attività o informazioni illecite dei destinatari dei loro servizi o a comunicare alle autorità competenti, a loro richiesta, informazioni che consentano l’identificazione dei destinatari dei loro servizi con cui hanno accordi di memorizzazione dei dati”.

Come chiarito dal Riccio, “l’analisi congiunta delle due norme [artt. 14 e 15], quindi, porta a ricostruire il “mosaico” dei doveri dei prestatori intermediari. Non è imposto un obbligo di monitorare i siti, tuttavia, il prestatore, avuta la conoscenza dell’illeicità, deve rimuovere le informazioni”[86]. La direttiva ha l’innegabile merito di inserire una linea assai morbida con riferimento alla disciplina della responsabilità dell’internet service provider, ma –al contempo- non chiarisce affatto quali siano gli estremi per stabilire come e quando si formi la “conoscenza” dell’illecito in capo al soggetto.

 

L’attuazione della direttiva sul commercio elettronico ha introdotto nel nostro ordinamento un sistema caratterizzato dall’assenza  dell’obbligo generale di sorveglianza da parte del prestatore di servizi.

Si riportano le norme espresse dal Decreto legislativo n. 70 del 9 aprile 2003:

 

Art. 14

(Responsabilità nell'attività di semplice trasporto - Mere conduit)

1. Nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, o nel fornire un accesso alla rete di comunicazione, il prestatore non è responsabile delle informazioni trasmesse a condizione che:

a) non dia origine alla trasmissione;

b) non selezioni il destinatario della trasmissione;

c) non selezioni né modifichi le informazioni trasmesse;

2. Le attività di trasmissione e di fornitura di accesso di cui al comma 1, includono la memorizzazione automatica, intermedia e transitoria delle informazioni trasmesse, a condizione che questa serva solo alla trasmissione sulla rete di comunicazione e che la sua durata non ecceda il tempo ragionevolmente necessario a tale scopo.
3. L’autorità giudiziaria o quella amministrativa avente funzioni di vigilanza può esigere anche in via d’urgenza, che il prestatore, nell’esercizio delle attività di cui al comma 2, impedisca o ponga fine alle violazioni commesse.

Art. 15

(Responsabilità nell'attività di memorizzazione temporanea - caching)

1. Nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nel trasmettere, su una rete di comunicazione, informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile della memorizzazione automatica, intermedia e temporanea di tali informazioni effettuata al solo scopo di rendere più efficace il successivo inoltro ad altri destinatari a loro richiesta, a condizione che:

a) non modifichi le informazioni;

b) si conformi alle condizioni di accesso alle informazioni;

c) si conformi alle norme di aggiornamento delle informazioni, indicate in un modo ampiamente riconosciuto e utilizzato dalle imprese del settore;

d) non interferisca con l’uso lecito di tecnologia ampiamente riconosciuta e utilizzata nel settore per ottenere dati sull’impiego delle informazioni;

e) agisca prontamente per rimuovere le informazioni che ha memorizzato, o per disabilitare l’accesso, non appena venga effettivamente a conoscenza del fatto che le informazioni sono state rimosse dal luogo dove si trovavano inizialmente sulla rete o che l’accesso alle informazioni è stato disabilitato oppure che un organo giurisdizionale o un'autorità amministrativa ne ha disposto la rimozione o la disabilitazione.

2. L’autorità giudiziaria o quella amministrativa aventi funzioni di vigilanza può esigere, anche in via d’urgenza, che il prestatore, nell’esercizio delle attività di cui al comma 1, impedisca o ponga fine alle violazioni commesse.

Art. 16

(Responsabilità nell'attività di memorizzazione di informazioni - hosting)

1. Nella prestazione di un servizio della società dell’informazione consistente nella memorizzazione di informazioni fornite da un destinatario del servizio, il prestatore non è responsabile delle informazioni memorizzate a richiesta di un destinatario del servizio, a condizione che detto prestatore:

a) non sia effettivamente a conoscenza del fatto che l’attività o l’informazione è illecita e, per quanto attiene ad azioni risarcitorie, non sia al corrente di fatti o di circostanze che rendono manifesta l’illiceità dell’attività o dell’informazione;
b) non appena a conoscenza di tali fatti, su comunicazione delle autorità competenti, agisca immediatamente per rimuovere le informazioni o per disabilitarne l’accesso.

2. Le disposizioni di cui al comma 1 non si applicano se il destinatario del servizio agisce sotto l’autorità o il controllo del prestatore.

3. L’autorità giudiziaria o quella amministrativa competente può esigere, anche in via d’urgenza, che il prestatore, nell’esercizio delle attività di cui al comma 1, impedisca o ponga fine alle violazioni commesse.

Art. 17

(Assenza dell’obbligo generale di sorveglianza)

1. Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 14, 15 e 16, il prestatore non è assoggettato ad un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmette o memorizza, né ad un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attività illecite.

2. Fatte salve le disposizioni di cui agli articoli 14, 15 e 16, il prestatore è comunque tenuto:
a) ad informare senza indugio l'autorità giudiziaria o quella amministrativa avente funzioni di vigilanza, qualora sia a conoscenza di presunte attività o informazioni illecite riguardanti un suo destinatario del servizio della società dell'informazione;
b) a fornire senza indugio, a richiesta delle autorità competenti, le informazioni in suo possesso che consentano l'identificazione del destinatario dei suoi servizi con cui ha accordi di memorizzazione dei dati, al fine di individuare e prevenire attività illecite.

3. Il prestatore è civilmente responsabile del contenuto di tali servizi nel caso in cui, richiesto dall’autorità giudiziaria o amministrativa avente funzioni di vigilanza, non ha agito prontamente per impedire l’accesso a detto contenuto, ovvero se, avendo avuto conoscenza del carattere illecito o pregiudizievole per un terzo del contenuto di un servizio al quale assicura l’accesso, non ha provveduto ad informarne l'autorità competente.

 

E’ opportuno richiamare la soluzione adottata negli Stati Uniti, dove -tramite il Digital Millennium Copyright Act del 1998[87]- sono state attuate le disposizioni contenute nei trattati della WIPO in materia di diritto d’autore (WCT e WPPT) ed è stata introdotta nel sistema americano  una disciplina riferimento alla responsabilità dei provider per le violazioni del diritto d’autore in cui vengono stabiliti i casi in cui il prestatore intermediario non sia responsabile di eventuali violazioni del diritto d’autore[88], disponendo peraltro che il provider deve rimuovere il materiale o disabilitare l’accesso qualora riceva una notification in cui si affermi che la diffusione della informazione contiene una violazione del diritto d’autore di un altro soggetto.

 

 

 

 

Bibliografia

 

AA. VV.,  Trattato breve di diritto della rete, Maggioli, Rimini, 2001

Tito Ballarino, Internet nel mondo della legge, Cedam, Padova, 2003

Patrizio MENCHETTI, Allocazione di domain names, antitrust ed autorità di regolazione: un approccio tradizionale, in AA. VV.,  Trattato breve di diritto della rete, Maggioli, Rimini, 2001

Andrea Sirotti Gaudenzi, Il nuovo diritto d’autore, II edizione, Maggioli, Rimini, 2003

Andrea Sirotti Gaudenzi, Il commercio elettronico nella società dell’informazione, Sistemi editoriali, Milano – Napoli, 2003

Laura Turini, Domini Internet e risoluzione dei conflitti, Il Sole, Milano, 2001

 

In Rete

 

Altalex - www.altalex.com
Internet Law Digest – www.internet-law-digest.org
Interlex - www.interlex.com

Notiziario Giuridico Telematico – www.notiziariogiuridico.it

 


 

© Andrea R. Sirotti Gaudenzi – Avvocato in Cesena e Professore a contratto nell’Università degli Studi di Padova. Membro del comitato ordinatore del Master in Diritto della Rete e del Master in International Litigation. Collabora con Italia Oggi e Guida al Diritto del Sole 24 Ore.

 

Note

 

[1] Comma primo dell’art. 41 Cost.

[2] G. M. Berruti, La concorrenza sleale e il mercato, Giuffrè, Milano, 2002, pagg. 2 e ss.

[3] Comma secondo dell’art. 41 Cost.

[4] Comma secondo dell’art. 3 Cost.

[5] G. Livraghi – S. Postai, Le imprese e Internet, consultabile all’indirizzo http://gandalf.it/upa/.

[6] Decreto Legislativo 31 marzo 1998, n. 114.

«Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59»,  pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 95 del 24 aprile 1998, Supplemento Ordinario n. 80.

[7] Il decreto non si applica:

«a) ai farmacisti e ai direttori di farmacie delle quali i comuni assumono l'impianto e l'esercizio ai sensi della legge 2 aprile 1968, n. 475, e successive modificazioni, e della legge 8 novembre 1991, n. 362, e successive modificazioni, qualora vendano esclusivamente prodotti farmaceutici, specialita' medicinali, dispositivi medici e presidi medico-chirurgici;
b) ai titolari di rivendite di generi di monopolio qualora vendano esclusivamente generi di monopolio di cui alla legge 22 dicembre 1957, n. 1293, e successive modificazioni, e al relativo regolamento di esecuzione, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 14 ottobre 1958, n. 1074, e successive modificazioni;
c) alle associazioni dei produttori ortofrutticoli costituite ai sensi della legge 27 luglio 1967, n. 622, e successive modificazioni;
d) ai produttori agricoli, singoli o associati, i quali esercitino attività di vendita di prodotti agricoli nei limiti di cui all'articolo 2135 del codice civile, alla legge 25 marzo 1959, n. 125, e successive modificazioni, e alla legge 9 febbraio 1963, n. 59, e successive modificazioni;

e) alle vendite di carburanti nonchè degli oli minerali di cui all'articolo 1 del regolamento approvato con regio decreto 20 luglio 1934, n. 1303, e successive modificazioni. Per vendita di carburanti si intende la vendita dei prodotti per uso di autotrazione, compresi i lubrificanti, effettuata negli impianti di distribuzione automatica di cui all'articolo 16 del decreto-legge 26 ottobre 1970, n. 745, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 1970, n. 1034, e successive modificazioni, e al decreto legislativo 11 febbraio 1998, n.32;

f) agli artigiani iscritti nell'albo di cui all'articolo 5, primo comma, della legge 8 agosto 1985, n. 443, per la vendita nei locali di produzione o nei locali a questi adiacenti dei beni di produzione propria, ovvero per la fornitura al committente dei beni accessori all'esecuzione delle opere o alla prestazione del servizio;

g) ai pescatori e alle cooperative di pescatori, nonchè ai cacciatori, singoli o associati, che vendano al pubblico, al dettaglio, la cacciagione e i prodotti ittici provenienti esclusivamente dall'esercizio della loro attività e a coloro che esercitano la vendita dei prodotti da essi direttamente e legalmente raccolti su terreni soggetti ad usi civici nell'esercizio dei diritti di erbatico, di fungatico e di diritti similari;

h) a chi venda o esponga per la vendita le proprie opere d'arte, nonchè quelle dell'ingegno a carattere creativo, comprese le proprie pubblicazioni di natura scientifica od informativa, realizzate anche mediante supporto informatico;
i) alla vendita dei beni del fallimento effettuata ai sensi dell'articolo 106 delle disposizioni approvate con regio decreto 16 marzo 1942, n. 267, e successive modificazioni;

l) all'attività di vendita effettuata durante il periodo di svolgimento delle fiere campionarie e delle mostre di prodotti nei confronti dei visitatori, purchè' riguardi le sole merci oggetto delle manifestazioni e non duri oltre il periodo di svolgimento delle manifestazioni stesse;

m) agli enti pubblici ovvero alle persone giuridiche private alle quali partecipano lo Stato o enti territoriali che vendano pubblicazioni o altro materiale informativo, anche su supporto informatico, di propria o altrui elaborazione, concernenti l'oggetto della loro attività».

[8] Art. 5 (Requisiti di accesso all'attività):  «1. Ai sensi del presente decreto l'attività commerciale può essere esercitata con riferimento ai seguenti settori merceologici: alimentare e non alimentare.

2. Non possono esercitare l'attività commerciale, salvo che abbiano ottenuto la riabilitazione:
a) coloro che sono stati dichiarati falliti;

b) coloro che hanno riportato una condanna, con sentenza passata in giudicato, per delitto non colposo, per il quale è prevista una pena detentiva non inferiore nel minimo a tre anni, sempre che sia stata applicata, in concreto, una pena superiore al minimo edittale;

c) coloro che hanno riportato una condanna a pena detentiva, accertata con sentenza passata in giudicato, per uno dei delitti di cui al titolo II e VIII del libro II del codice penale, ovvero di ricettazione, riciclaggio, emissione di assegni a vuoto, insolvenza fraudolenta, bancarotta fraudolenta, usura, sequestro di persona a scopo di estorsione, rapina;
d) coloro che hanno riportato due o più condanne a pena detentiva o a pena pecuniaria, nel quinquennio precedente all'inizio dell'esercizio dell'attività, accertate con sentenza passata in giudicato, per uno dei delitti previsti dagli articoli 442, 444, 513, 513-bis, 515, 516 e 517 del codice penale, o per delitti di frode nella preparazione o nel commercio degli alimenti, previsti da leggi speciali;

e) coloro che sono sottoposti ad una delle misure di prevenzione di cui alla legge 27 dicembre 1956, n. 1423, o nei cui confronti sia stata applicata una delle misure previste dalla legge 31 maggio 1965, n. 575, ovvero siano stati dichiarati delinquenti abituali, professionali o per tendenza.

3. L'accertamento delle condizioni di cui al comma 2 è effettuato sulla base delle disposizioni previste dall'articolo 688 del codice di procedura penale, dall'articolo 10 della legge 4 gennaio 1968, n.15, dall'articolo 10-bis della legge 31 maggio 1965, n. 575, e dall'articolo 18 della legge 7 agosto 1990, n. 241.

4. Il divieto di esercizio dell'attività commerciale, ai sensi del comma 2 del presente articolo, permane per la durata di cinque anni a decorrere dal giorno in cui la pena e' stata scontata o si sia in altro modo estinta, ovvero, qualora sia stata concessa la sospensione condizionale della pena, dal giorno del passaggio in giudicato della sentenza.

5. L'esercizio, in qualsiasi forma, di un'attività di commercio relativa al settore merceologico alimentare, anche se effettuata nei confronti di una cerchia determinata di persone, e' consentito a chi e' in possesso di uno dei seguenti requisiti professionali:

a) avere frequentato con esito positivo un corso professionale per il commercio relativo al settore merceologico alimentare, istituito o riconosciuto dalla regione o dalle province autonome di Trento e di Bolzano;

b) avere esercitato in proprio, per almeno due anni nell'ultimo quinquennio, l'attività di vendita all'ingrosso o al dettaglio di prodotti alimentari; o avere prestato la propria opera, per almeno due anni nell'ultimo quinquennio, presso imprese esercenti l'attività nel settore alimentare, in qualità di dipendente qualificato addetto alla vendita o all'amministrazione o, se trattasi di coniuge o parente o affine, entro il terzo grado dell'imprenditore, in qualità di coadiutore familiare, comprovata dalla iscrizione all'INPS;

c) essere stato iscritto nell'ultimo quinquennio al registro esercenti il commercio di cui alla legge 11 giugno 1971, n. 426, per uno dei gruppi merceologici individuati dalle lettere a), b) e c) dell'articolo 12, comma 2, del decreto ministeriale 4 agosto 1988, n. 375.

6. In caso di società il possesso di uno dei requisiti di cui al comma 5 è richiesto con riferimento al legale rappresentante o ad altra persona specificamente preposta all'attività commerciale.

7. Le regioni stabiliscono le modalità di organizzazione, la durata e le materie del corso professionale di cui al comma 5, lettera a), garantendone l'effettuazione anche tramite rapporti convenzionali con soggetti idonei. A tale fine saranno considerate in via prioritaria le camere di commercio, le organizzazioni imprenditoriali del commercio più rappresentative e gli enti da queste costituiti.

8. Il corso professionale ha per oggetto materie idonee a garantire l'apprendimento delle disposizioni relative alla salute, alla sicurezza e all'informazione del consumatore. Prevede altresi' materie che hanno riguardo agli aspetti relativi alla conservazione, manipolazione e trasformazione degli alimenti, sia freschi che conservati.

9. Le regioni stabiliscono le modalità di organizzazione, la durata e le materie, con particolare riferimento alle normative relative all'ambiente, alla sicurezza e alla tutela e informazione dei consumatori, oggetto di corsi di aggiornamento finalizzati ad elevare il livello professionale o riqualificare gli operatori in attività. Possono altresì prevedere forme di incentivazione per la partecipazione ai corsi dei titolari delle piccole e medie imprese del settore commerciale.

10. Le regioni garantiscono l'inserimento delle azioni formative di cui ai commi 7 e 9 nell'ambito dei propri programmi di formazione professionale.

11. L'esercizio dell'attività di commercio all'ingrosso, ivi compreso quello relativo ai prodotti ortofrutticoli, carnei ed ittici, è subordinato al possesso dei requisiti del presente articolo. L'albo istituito dall'articolo 3 della legge 25 marzo 1959, n. 125, è soppresso».

[9] Per approfondire i temi della pubblicità on line, cfr. V. Spataro, I contratti della comunicazione in Internet, in A. Sirotti Gaudenzi (a cura di) Trattato breve di diritto della Rete, Maggioli, Rimini, 2001.

[10] Questa formulazione è frutto del recepimento nel nostro ordinamento della direttiva 84/450 in materia di pubblicità ingannevole, che si limitava a porre regole minime, senza opporsi "al mantenimento o all’adozione da parte degli Stati membri di disposizioni che abbiano lo scopo di garantire una più ampia tutela dei consumatori, delle persone che esercitano un’attività commerciale, industriale, artigianale o professionale, nonché del pubblico in generale".

[11] Sul tema, si vedano: Auteri, La Pubblicità Comparativa Secondo La Direttiva 97/55/Ce. Un Primo Commento, In “Contratto e Impresa”, 1998, 602; Baietti, La Pubblicità Comparativa, Egea, Milano, 1999; P. Colombo, Recenti sviluppi legislativi in materia di pubblicità comparativa in Contratto e Impresa Europa, 2000, pag. 211.

[12] Certe forme di pubblicità superlativa, a fronte di un intento “iperbolico” e tutt’altro che denigratorio, sono state ammesse (Giurì, decisione 35/1998).

[13] L’art. 4 della Direttiva 98/27/CE indica che la disciplina delle “violazioni intracomunitarie”.

[14] La disciplina della pubblicità transfontariela si accompagna all’esame della libertà di espressione indicata dall’art. 10 della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo.

[15] Cfr.: art. 2, paragrafo 3 della Direttiva 89/552/CE.

[16] Art. 2 della Direttiva 98/27/CE.

[17] Cfr.: artt. 2563 e ss., nonché artt. 2569 e ss.c.c.

[18] Cfr.: artt. 2584 e ss., nonché artt. 2592 e ss.c.c.

[19] G. M. Berruti, La concorrenza sleale nel mercato, Giuffrè, Milano, 2002, pag. 61.

[20] Cfr.: G. M. Berruti, La concorrenza sleale nel mercato, op. cit., pagg. 87 e ss.

[21] G. M. Berruti, La concorrenza sleale nel mercato, op. cit., pag. 97.

[22] Trib. Bolzano, 17 luglio 1995.

[23] S. Aimo, Internet domain names e diritti di proprietà intellettuale sui segni distintivi: le prime decisioni italiane, in Contratto e Impresa Europa, 1998, pag. 554.

[24] Non corrisponde affatto al vero il fatto che i codici html possano essere copiati completamente e non siano soggetti in alcun modo alla tutela prevista dal diritto d'autore.

[25] In ogni modo, qualsiasi browser è in grado di leggere il contenuto dei Meta Tag.

Ad esempio, Explorer –nel menù “visualizza”- dà la possibilità agli utenti di leggere il testo HTML di ogni pagina che si visiti.

[26] Peraltro, si deve rilevare che, sotto il profilo tecnico, non ci sono praticamente limiti all’inserimento di parole chiave in un meta-tag, per cui –in teoria- il webmaster potrebbe inserire un numero altissimo di parole “civetta” per attirare il più alto numero possibile di utenti in rete. Più in generale, è solo il caso di ricordare che nel linguaggio HTML, i tag corrispondono ai comandi che definiscono il documento e il formato dello stesso. Ogni tag, vale a dire ogni comando, è racchiuso tra il simbolo di minore (<) e il simbolo di maggiore (>).

[27] Così, l’avvocato Cicerone, per realizzare l’home page del proprio sito e facilitare l’indicizzazione delle proprie pagine Web nei motori di ricerca, dovrà inserire il seguente Meta Tag :

<meta name="description" content="Studio legale Avvocato Cicerone">

[28] Lo stesso avvocato Cicerone potrà indicare i rami di attività del proprio studio, inserendo alcune parole chiavi, come chiarito dal codice che segue:

 <meta name="keywords" content="consulenza legale, avvocato, diritto civile, penale, amministrativo">

[29] Il sito è www.terriwelles.com.

[30] T. Ballarino, Internet nel mondo della legge, Cedam, Padova, 1998, pagg. 193 e ss.

[31] Tribunale di Rovereto, 2 febbraio 2001, in Giurisprudenza di Merito, 2001, 405.

[32] Il caso vedeva contrapposte due operatori del settore assicurativo. Come si legge nel testo della pronunzia, l’impresa ricorrente, operante a paritire dal 1994 nel settore della vendita di polizze assicurative per telefono o tramite internet, lamentava che tramite le ricerche del proprio nome effettuate sui maggiori motori di ricerca compariva anche la indicizzazione del sito di altra impresa attiva dal 1998 nel mercato. La ricorrente evidenziava che “visualizzando il file sorgente della pagine HTML della Crowe Italia appaiono inserite "etichette nascoste" e cioè parole che, se digitate dall’utente per la ricerca, conducono a Crowe Italia (cfr. la stampa della visualizzazione della pagina Web in versione HTML sita all’indirizzo http://www.crowe.it/index.htm).” La controparte basava la propria difesa sulla considerazione che “ una cosa è l’elenco/indice dei siti richiamati dalle parole chiavi digitate dall’utente della rete ed altra cosa è il "sito" cui corrisponde il dominio registrato da ciascuna azienda che intenda dare visibilità nel "cyberspazio" ai propri servizi o prodotti. Dunque, secondo la Crowe Italia, deve ritenersi dirimente la circostanza, non considerata dalla ricorrente, che il motore di ricerca si limita, nel caso proposto all’esame dal Tribunale, ad informare l’utente della rete dell’esistenza nonché dell’indirizzo Internet dei vari operatori commerciali ivi presenti attraverso l’impiego di parole chiavi e riferimenti incrociati all’uopo combinati.”

[33]Cfr. F. Brugaletta, Internet per giuristi, Napoli, pag. 297

[34] Sia consentito indicare: A. Sirotti Gaudenzi, Il nuovo diritto d’autore, Maggioli, Rimini, 2001.

[35] A. Ambrosini, La tutela del nome a dominio. Il manuale del dominio .it, Simone, Napoli, 2000.

[36] Un uso improprio del surface linking può essere il tentativo di denigrare il sito ”linkato”.

[37] E' stato al centro delle cronache il caso della Microsoft, accusata da Tichet Master di ospitare link al proprio sito senza “transitare” per l’home page e, pertanto, realizzando un comportamento scorretto, soprattutto sotto l’aspetto concorrenziale. In Italia, alcuni siti hanno deciso di accordarsi fra loro sul modo di citare, riprodurre e "linkare" i documenti presenti all'interno delle proprie pagine.

In questo senso, un esempio interessante è il regolamento del gemellaggio giuridico tra cinque siti giuridici (Diritto.it, Diritto2000.it, Dirittoitalia.it, Notiziariogiuridico.it e IusSeek.com), consultabile all'indirizzo www.notiziariogiuridico.it/regolamento.html.

[38] L. de Grazia, I link ai siti: non esageriamo ma...non tutto è vietato! in InfoDirNet http://www.degrazia.it/infodirnet/rubriche/articoli/articoli/m4.html. In via generale, occorre peraltro ricordare, con le parole di Ponzarelli, che “ tutto sommato, i trapianti di soluzioni non municipali devono essere sempre guardati con particolare diffidenza, soprattutto quando non esista un consenso diffuso che la <<regola da importare>> si candidi effettivamente come <<better solution>>” (G. Ponzanelli, Punitive damages e due process clause: l’intervento della Corte suprema USA, in Foro It., 1991, IV, 235.

[39] Corte distrettuale di Rotterdam, caso 139609/KG ZA 00-846, sentenza del 22 agosto 2000.

[40] A volte, il rischio dello studioso comparatista è l’opposto, come scrive Claude Ducouloux-Favard, “Per il comparatista, la difficoltà maggiore risiede nel lasciare alle spalle, senza però dimenticarla, la propria cultura in modo da non utilizzare norme e concetti giuridici di un ordinamento straniero in un contesto senza congruenza col paesaggio naturale nel quale è vissuto e cresciuto. Superare tale difficoltà non è tanto facile! Eppure è l’unico modo per capire gli altri e per dimenticare se stessi...” ( cfr.: C. Ducouloux-Favard, La SARL francese e la GmbH tedesca: profili di comparazione in “Contratto e  Impresa Europa”, 2000, pag. 720).

[41] Benchè nel 1996 i due soggetti avessero trovato una soluzione bonaria alla questione, successivamente la società titolare dell’Acquario di Genova aveva presentato un ricorso ai sensi dell’art. 700 c.p.c. per inibire la “riproduzione abusiva, parassitaria e non autorizzata del proprio sito”.            

[42] L’autorità giudiziaria ha posto l’accento anche sul fatto che in calce alla pagina "riprodotta" si leggesse  "Copyright © 1998 [Costa Aquarium S.p.A]. Tutti i diritti riservati" e ha –quindi- condannato la controparte ad eliminare la pagina Web “incriminata”.

[43] Si veda SIB News della Società Italiana Brevetti del 3 luglio 2000.

[44] Eppure, già nel 1986 (seppur dovendo esaminare il tema in via incidentale), la Cassazione aveva rilevato l’esclusione della brevettabilità ai sensi dell'art. 7 d. p. r. 22 giugno 1979, n. 338 (modificativo dell'art. 12 r. d. 29 giugno 1939, n. 1127) per il programma per elaboratori elettronici (“sia di base sia applicativo”), non tutelabili con i rimedi previsti a protezione delle invenzioni industriali e contro l'imitazione servile dei prodotti (Cass. Pen., 24 novembre 1986, in Foro It., 1987, II, 289, nonché in Dir. Autore, 1987, 162).

[45] Sempre con riferimento alla recente giurisprudenza di merito, si intende richiamare l’ordinanza del Tribunale di Milano del 29 gennaio 1997, con cui si è affermato –al solo fine di verificare i presupposti di tutelabilità del software- che “la tutela accordata dalla legge sul diritto d’autore al software contempla un requisito di accesso alla protezione sicuramente situato ad un livello di minor rigore rispetto a quanto previsto per il riconoscimento della novità intrinseca ed estrinseca del brevetto per invenzione industriale. Il quid novi preteso dalla legge sul diritto d’autore si esaurisce nella verifica di un apporto creativo, non banale, dell’autore”. Inoltre, si afferma che “l’assenza di indicazioni normative (a differenza della legislazione brevettuale) circa la valutazione del contributo all’obiettivo progresso della conoscenza e nella ricerca propria di un settore è elemento che, necessariamente, parametra a livelli inferiori la verifica delle condizioni di protezione dell’opera/programma” (Tribunale di Milano, 29 gennaio 1997, in Dir. Industriale, 1997, 345, con nota di G. Modiano).

[46] Argomenti già trattati in A. Sirotti Gaudenzi, Comunicazioni UE: più concorrenza, in Italia Oggi del 23 settembre 2002.

[47] Il testo pubblicato sulla Gazzetta ufficiale delle Comunità europee è consultabile sul sito www.dirittoeuropeo.it.

[48] Per l'inquadramento tecnico e giuridico dei "nomi a dominio", si veda il saggio di P. Menchetti, Allocazione di domain names, antitrust ed autorità di regolazione: un approccio tradizionale, in AA. VV.,  Trattato breve di diritto della rete, Maggioli, Rimini, 2001, nonché L. Turini, Domini Internet e risoluzione dei conflitti, Il Sole, Milano, 2001.

[49] S. Aimo, Internet domain names e diritti di proprietà intellettuale sui segni distintivi: le prime decisioni italiane in Contratto e Impresa Europa, 1998, pag. 554.

[50] La pronuncia definì il celebre caso “Portaportese”, pubblicata in AIDA, 1998, 536.

[51] Trib. Roma, 19 luglio 2001.

[52] Il Tribunale di Roma rileva, con riferimento alla questione esaminata che “Tale normativa prevede infatti (all'art. 100) che anche il titolo dell'opera sia tutelata alla stregua delle opere dell'ingegno, sicché la pedissequa riproduzione del nome dell'opera da parte di un terzo, motivata, come è evidente dallo sfruttamento della notorietà della stessa, costituisce violazione del diritto dell'autore all'uso del nome della propria opera in tutte le sue manifestazioni e utilizzazioni economiche”.

[53] Il Tribunale di Firenze, con ordinanza 7 giugno 2001, n. 3155 ha rilevato: «una volta stabilita l'applicabilità ai domain names della disciplina dei segni distintivi, deve ritenersi applicabile il principio della circolarità della tutela dei segni stessi, in base al quale ciascun segno è idoneo a violare ed essere violato da segni di pur diverso tipo; il nome di dominio dovrà dunque essere adoperato in maniera tale da non ingenerare confusione nel pubblico circa la riconducibilità del sito (e, dunque, dei prodotti nello stesso venduti o reclamizzati), ad un determinato soggetto, pena l'applicabilità, a seconda dei casi, delle norme dettate a tutela della specifica tipologia del segno violato (legge marchi, normativa sul diritto al nome ed all'identità personale, legge sul diritto d'autore, art. 2598 c.c.). Il giudizio di valutazione dell'illiceità eventuale dell'uso del domain name dovrà, per quanto detto, essere condotto alla stregua delle norme e dei principi in materia di segni distintivi; non può, peraltro, non osservarsi che, per effetto delle peculiarità presentate dal domain name, anche il giudizio di confondibilità viene ad assumere caratteri peculiari sia in rapporto alla somiglianza tra i segni, sia in rapporto alla valutazione della possibilità di confusione in relazione all'affinità merceologica».

Il Tribunale di Modena, con ordinanza 28 luglio 2000, ha ripercoso i momenti salienti del percorso effettuato dalla giurisprudenza: «in assenza di normativa di governo, la giurisprudenza ha risposto al quesito in modo non univoco.  Si è, infatti, affermato che il domain name andrebbe equiparato alla "insegna", in quanto "il sito spesso configura di fatto il luogo virtuale ove l'imprenditore contatta il cliente al fine di concludere con esso il contratto" (cfr. Trib, Milano 10.6. e 22.7.1997-decidendo il caso Amadeus, Giur. it. 1997, I, 2, 697; id. Trib. Modena, 23.5.2000, inedita); oppure, conformemente all'insegnamento della dottrina italiana e della giurisprudenza americana (cfr. Court of the Northern District of California 8.9.1997, Giur. it. 1998, I, 739) che, comunque, il conflitto tra segno distintivo anteriore e domain name trovi disciplina nella normativa sui segni distintivi (cfr. Trib. Pescara 9.1.1997, Dir. informazione e informatica, 1997, 952, nonché Trib Roma 2.8.1997, Foro it. 1998,-I, 923; Pret. Valdagno 27.5.1998, Giur. it. 1998, I, 2, 1875, nonchè Trib. Vicenza 6.7.1998, Giur. it. 1998, I, 2342, confermativa della pronuncia che precede, sul caso Peugeot; cui adde, da ultimo, Trib. Reggio Emilia, 29.5.2000, inedita); oppure, ancora, sul diverso presupposto che il dominio non sia equiparabile ad un segno distintivo, lo si è qualificato mero "codice di acceso ai servizi telematici" (Trib. Bari 24.7.1996, Foro it. 1997, I, 2316), oppure, sempre su questa linea, "indirizzo telematico" (cfr. Trib. Firenze 29.6.2000. - sul caso Sabena …)».

[54] Tribunale di Modena, ordinanza del 23 agosto 2000, consultabile in Interlex (http://www.interlex.it/testi/mo000823.htm). 

[55] Nell'occasione è stato anche richiamato l’art. 11 della Legge Marchi che stabilisce che non è permesso utilizzare un marchio in modo da ingenerare confusione sul mercato con altri segni conosciuti come segni distintivi di imprese, prodotti o servizi altrui o comunque idonei ad ingannare il pubblico sulla provenienza dei prodotti e dei servizi.

[56] Tribunale di Roma, 9 marzo 2000 (Carpoint s.p.a. - Microsoft Corporation) in Foro It., 2000, I, 2334, con nota di N. Pascuzzi.  

[57] R. Sacco, Il contratto, Giappichelli, Torino, 1970. Contra, si segnala un indirizzo dottrinale minoritario che predilige la tesi secondo cui la responsabilità precontrattuale avrebbe natura contrattuale (per tutti, vedasi C. Scognamiglio., Dei contratti in generale, Zanichelli, Bologna-Roma, 1970, pag. 216), nonché altro orientamento che vede nella responsabiltà codificata dall’art. 1337 c.c. un tertium genus (M. S. Giannini, La responsabilità precontrattuale dell’amministrazione pubblica, Giuffrè, Milano, 1963, pag. 264); per un approccio sistematico alla tematica, si rinvia a  R. Sacco, Culpa in eligendo e culpa aquilia, culpa in cntrahendo ed apparenza, in Riv. Dir. Comm., 1951, II, 86.

[58] M. C. Bianca, Il contratto, Giuffrè, Milano, 1987, pag. 160.

[59] Ibidem.

[60] R. Patti – S. Patti, Responsabilità precontrattuale e contratti standard (artt. 1339-1342), in Codice civile. Commentario diretto da P. Schlesinger, Giuffrè, Milano, 1993, pag. 121.

[61] Ibidem.

[62] Ex multis, cfr.: Cass. 2463/1976; 93/1977; 5831/1978; 3178/1985.

[63] Cass. 14 giugno 1999, n. 5830.

[64] In tal senso, si veda per tutte Cass. 16 aprile 1994, n. 3621, nonché U. Di Benedetto, Diritto civile, 1997, Maggioli, Rimini, 523.

[65] Cass. 18 ottobre 1993, n. 10296. Il Consiglio di Stato ha chiaramente optato per la possibilità di  configurare una responsabilità precontrattuale della P.A. (Cons. Stato, Sez.IV, 28 dicembre 2000, n.6996, in “Giur. Bollettino legisl. Tecnica”, 2001, pag. 121).Peraltro, il T.A.R. Campania Napoli, Sez.II, 21 febbraio 2001, n.810 ha affermato che la responsabilità precontrattuale è configurabile nei confronti della P.A., nel caso in cui si verifichi un'ingiustificata ed arbitraria interruzione delle normative dirette alla conclusione di un contratto, in modo tale da ledere l'incolpevole affidamento della controparte nell'osservanza delle regole di correttezza e di buona fede (in “Foro Amm.”, 2001). IlTAR del Friuli ha affermato che, pur non essendo configurabile una responsabilità precontrattuale in capo alla P.A. nei casi diversi dalle trattative private, si può realizzare una forma di responsabilità per violazione dell'affidamento del privato, anche nella fase procedurale, preliminare ovvero preparatoria di un provvedimento amministrativo favorevole per il privato medesimo (T.A.R. Friuli-V. Giulia, 26/07/1999, n. 903, in Urbanistica e appalti, 1999, pag. 1350).  

[66] Nel commercio internazionale, l’obbligo di agire secondo correttezza non comporta ipso facto il divieto di recesso immotivato dalle trattative stesse o di condurre trattative in parallelo.

[67] A. Lisi – A. Sirotti Gaudenzi, Le clausole tipiche nei rapporti precontrattuali, in Trattato dei nuovi contratti, UTET, Torino, 2003, in corso di pubblicazione.

[68] I “contratti normativi”, invece di porre in essere direttamente un atto di scambio, determinano i contenuti di una futura produzione negoziale. Difatti, con particolare riguardo al mondo giuslavoristico, si è correttamente stabilito che “Le parti del contratto normativo si accordano sulle condizioni alle quali si atterranno nella futura ed eventuale attività contrattuale. Nel diritto del lavoro quest’attività si concreta nella conclusione del contratto individuale, con il quale datore e prestatore recepiscono esplicitamente o implicitamente il contenuto del contratto collettivo” (Cass., 7 marzo 2002,  n. 3296).

[69] Si veda Trib. Milano 26 giugno 1989, in Giur. It., 1990, I, 2, 90.

[70] A. Lisi, Le lettere di intenti, in Diritto e Diritti, consultabile all’indirizzo  http://www.diritto.it/articoli/civile/lisi.html

[71] Cass. 14 febbraio 2000, n. 1632, in Giur. It., 2000.

[72] Consultabile nella pagina: http://www.anfov.it/codice/titolo1.html. L’art. 1 del codice chiarisce la natura e le finalità del documento:  “1. Il presente codice di deontologia e di buona condotta, di seguito denominato "codice", persegue la finalità di favorire la liceità e la correttezza dei comportamenti da parte di coloro che operano a vario titolo nel settore della fornitura dei servizi telematici e che beneficiano dei medesimi servizi (fornitori; committenti; utenti; abbonati), in una prospettiva di equilibrato bilanciamento tra reciproci diritti e doveri e le connesse sfere di responsabilità.

2. La liceità e la correttezza dei comportamenti Ë perseguita con particolare riguardo al rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali della persona, alla libera circolazione delle idee e del pensiero, alla qualità e alla completezza dell'informazione, alla trasparenza delle relazioni contrattuali ed extracontrattuali, allo sviluppo dei servizi telematici e dell'iniziativa economica nelle reti, nonchè alla chiara determinazione delle sfere di responsabilità dei soggetti interessati.

3. Il codice persegue inoltre la finalità di offrire a chiunque la possibilità di un intervento tempestivo contro gli abusi, in particolare nel caso di diffusione di contenuti illegali o nocivi, specie nei casi in cui il carattere transnazionale delle comunicazioni renda problematica l'applicazione delle leggi dei Paesi interessati.

4. I soggetti che aderiscono al presente codice si impegnano ad osservarlo, a farlo osservare e a promuoverne la conoscenza anche all'estero”.

[73] F. Tommasi, Protocolli TCP/IP e problematiche contrattuali di accesso alla Rete Internet, in Trattato breve di diritto della Rete, Maggioli, Rimini, 2001, pag. 127.

[74] Deliberazione CCIAA di Milano 23 luglio 2001, n. 258 - Testo usi Internet Providers.

[75] In tal senso, si vedano la pronunzia del caso Compurserve versus Cubby Inc. del 1991, richiamate in C. Gattei, La responsabilità del provider e i problemi dell’e-commerce: esperienze sopranazionali, Giuffrè, Milano, 2001, pag. 605. La sentenza che ha definito il caso Prodigy Service Co. Versus Stratton Oakmont Inc del 1995 ha invece ritenuto responsabile l’Internet service provider per il contenuto di messaggi offensivi circolati in una mailing list.

E’ il caso di osservare che in Svezia, la legge in tema di responsabilità dei gestori BBS (Bulletin Board System, id est “bacheche elettroniche”) del I maggio 1998 ha disposto un regime assai severo, dato che questi ultimi hanno un obbligo di supervisione dei materiali invaiti e pubblicati (C. Gattei, op. cit., pag. 609).

[76] Trib. Roma, 4 luglio 1998 in Internet Law Digest (www.internet-law-digest.org). 

[77] Si veda il commento di M. Cammarata, Finalmente una decisione sulla responsabilità del provider, in Interlex (http://www.interlex.it/regole/finalmen.htm): “Lo sappiamo tutti, che la responsabilità dei contenuti non può essere attribuita che al loro autore, quando il provider (o chi da lui disegnato per la gestione di un settore del sito) non ha "alcun potere di controllo e vigilanza sugli interventi che vi vengono inseriti". Finalmente un giudice lo mette nero su bianco, anche se in un'ordinanza di rigetto e non in una sentenza (che può aversi solo al termine di un processo e che ha una maggiore rilevanza come "precedente")”.

[78] Trib. Roma, 22 marzo 1999 in Internet Law Digest (www.internet-law-digest.org).  

[79] Trib. Bologna, 14 giugno 2001, in Internet Law Digest (www.internet-law-digest.org).  

[80] Quarantacinquesimo consideranso.

[81] G. M. Riccio, La responsabilità degli Internet Provider, op. cit., pag. 202.

[82] Il presente articolo lascia impregiudicata la possibilità, secondo gli ordinamenti degli Stati membri, che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa esiga che il prestatore impedisca o ponga fine ad una violazione.

[83] Anche in questo caso,  viene lasciata “impregiudicata la possibilità, secondo gli ordinamenti degli Stati membri, che un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa esiga che il prestatore impedisca o ponga fine ad una violazione”.

[84] Il presente articolo lascia impregiudicata la possibilità, per un organo giurisdizionale o un’autorità amministrativa, in conformità agli ordinamenti giuridici degli Stati membri, di esigere che il prestatore ponga fine ad una violazione o la impedisca nonché la possibilità, per gli Stati membri, di definire procedure per la rimozione delle informazioni o la disabilitazione dell’accesso alle medesime.

[85] N. Graziano, Responsabilità extracontrattuale, in AA. VV., Internet. Nuovi problemi e qestioni controversie, Giuffrè, Milano, 2001.

[86] G. M. Riccio, La responsabilità degli Internet Provider, op. cit., pag. 208.

[87] U.S.C. 1201, Public Law 105-304, 112 Stat. 2860 (28 october 1998).

[88] Cfr.: § 512 del Digital Millennium Copyright Act.

             

 

 


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