Tutela dei lavoratori apolidi o profughi 
in ambito comunitario

     Nota a Corte di Giustizia 11.10.2001 da C-95/99 a C-98/99 e C-180/99
a cura dell'avv. Antonino Sgroi di Roma

 

 

        La Corte federale per la legislazione in materia sociale (Bundessozialgericht) chiedeva in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia «...se l’inclusione degli apolidi e dei profughi nell’ambito di applicazione ratione personae del regolamento n. 1408/71, come risulta dai suoi artt. 2, n. 1 e 3, n. 1, sia prevista da una norma autorizzativa del Trattato CE.», osservando «...che gli apolidi ed i profughi non beneficiano espressamente di un diritto alla libera circolazione all’interno della Comunità ai sensi del Trattato CE.» e che «l’art. 51 del Trattato CE e l’art. 235 del Trattato CE (divenuto art. 308 CE), che sarebbero indicati quale fondamento giuridico nel preambolo del regolamento n. 1408/71, riguarderebbero tuttavia, rispettivamente, le misure necessarie per l’instaurazione della libera circolazione dei lavoratori e quelle necessarie per raggiungere uno degli scopi della Comunità.»

        Quattro dei procedimenti giudiziari sui quali si radicava la domanda pregiudiziale scaturivano dalla revoca della concessione degli assegni familiari nei confronti di apolidi a seguito della modifica intervenuta alla legge federale sull’assegno per i figli (Bundeskindergeldgesetz).

Modifica che comporta, a decorrere dall’1.1.1994, il riconoscimento del beneficio solo a favore degli stranieri in possesso di una carta o di un permesso di soggiorno.

        L’ultimo dei procedimenti riguardava il diniego di riconoscimento dell’assegno per l’educazione motivato dal Land Nordrhein-Westfalen sulla scorta del fatto che la madre richiedente non era in possesso né della carta  né del permesso di soggiorno.

Condizione necessaria successivamente alla modifica apportata alla legge federale sull’indennità di educazione (Bunderserziehungsgesetz).

        Nel giudizio davanti alla Corte di Giustizia sono intervenuti i Governi del Regno Unito, della Spagna e della Svezia ed è altresì intervenuta la Commissione.

Tutti hanno sostenuto con riguardo alla prima questione la tesi della compatibilità del Regolamento n. 1408/71  con l’art. 42 (ex art. 51) del Trattato CE.

        Chiarito il quadro generale all’interno del quale si pone la decisione della Corte di Giustizia e prima di passare alla sua disamina è opportuno fermarsi sulla disciplina comunitaria in tema di libera circolazione dei lavoratori e di sicurezza sociale dei medesimi e specificamente verificare l’ambito soggettivo di operatività delle due discipline con riguardo al sintagma «lavoratore».

        Il Titolo III del Trattato CE disciplina la «Libera circolazione delle persone, dei servizi e dei capitali», in armonia del precedente art. 3 [ex art. 3) lett. c], che individua fra i principi della Comunità Europea      quello di «...un mercato interno caratterizzato dall’eliminazione, fra gli Stati membri, degli ostacoli alla libera circolazione delle merci delle persone, dei servizi e dei capitali.
All’interno di questo titolo, il Capo I è specificamente dedicato a «I Lavoratori», intendendosi in tale categoria ricompresi i lavoratori subordinati [1].
        Il primo prg. dell’art. 39 (ex art. 48) fissa e garantisce il principio generale della libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità e il successivo paragrafo con riferimento all’ambito soggettivo di applicabilità della disposizione parla di «...lavoratori degli Stati membri...

        La lettura e interpretazioni delle disposizioni del Trattato sul tema deve andare di pari passo al Regolamento (CEE) n. 1612/68 relativo alla libera circolazione dei lavoratori all’interno della Comunità.
       
Il primo paragrafo dell’art. 1 delimita l’ambito di efficacia soggettiva del testo ad «ogni cittadino di uno Stato membro, qualunque sia il suo luogo di residenza,...»

        Le due disposizioni portano a concludere che la tutela della libera circolazione delle persone in ambito comunitario sia limitata ai soli cittadini degli Stati facenti parti della Comunità medesima [2] con esclusione degli apolidi e dei profughi anche se residenti in uno Stato membro [3].

        Posizione diversa e certamente più favorevole è fatta a queste ultime categorie nello stesso diritto comunitario con riguardo alla sicurezza sociale dei lavoratori.

 Il Regolamento (CEE) n. 1408/71 relativo all’applicazione dei regimi di sicurezza sociale ai lavoratori subordinati, ai lavoratori autonomi e ai loro familiari che si spostano all’interno della Comunità all’interno dell’art. 1, intitolato Definizioni, dedica le lett. d) ed e) ai profughi e agli apolidi.

       In entrambi i casi per l’individuazione del concetto di profugo e apolide rinvia a normativa internazionale quale: nel primo caso l’art. 1 della convenzione di Ginevra del 28.7.51 relativa allo statuto dei profughi, nel secondo caso l’art. 1 della convenzione di New York del 28.9.1954 relativa allo statuto degli apolidi.

Il successivo art. 2 che individua l’ambito di efficacia soggettiva del Regolamento al primo paragrafo testualmente recita: «Il presente regolamento si applica ai lavoratori subordinati o autonomi e agli studenti, che sono o sono stati soggetti alla legislazione di uno o più Stati membri e che sono cittadini di uno egli Stati membri, oppure apolidi o profughi residenti nel territorio di uno degli Stati membri, nonché ai loro familiari e ai loro superstiti.» [4].

        All’interno di questo quadro normativo è da leggersi la sentenza della Corte di Giustizia che si annota. Sentenza che ha riconosciuto la legittimità delle disposizioni in tema di sicurezza sociale dei lavoratori con riguardo alla loro estensione anche nei confronti dei profughi e degli apolidi senza che ciò possa comportare alcuna contraddizione con l’altro principio della libera circolazione dei soli lavoratori degli Stati membri in ambito comunitario.

La Corte giunge a siffatta decisione prendendo le mosse da una lettura  del Regolamento n. 1408/71 connessa al momento storico in cui lo stesso è stato approvato.

Il collegio evidenzia che:

a) fondamento giuridico del regolamento erano: w) fra l’altro il divieto di discriminazione per tutti i cittadini comunitari, irrilevante per la soluzione del caso di specie, sancito dall’art. 12 (ex art. 6) Trattato CE; y)il principio che affidava al Consiglio il potere di adottare in materia di sicurezza sociale tutte le misure necessarie per l’instaurazione della libera circolazione dei lavoratori (art. 42 Trattato CE [ex art. 51]);

b) sin dalla versione originale del menzionato Regolamento, adottato il 14.6.71, gli apolidi e i profughi erano inclusi nell’ambito di applicazione soggettiva dello stesso;

c)l’art. 308 (ex art. 235) Trattato CE [5] costituisce uno dei principi dell’atto legislativo da applicare solo dopo l’adozione del Regolamento n.1390/81, che estende ai lavoratori non salariati e ai loro familiari il Regolamento n. 1408/71, con la conseguenza che esso costituirà valido principio ermeneutico solo per le disposizioni di quest’ultimo regolamento introdotte dopo il 1981.

        Delimitato il profilo investigativo la Corte passa all’esame del contesto storico all’interno del quale le disposizioni in tema di profughi e apolidi furono introdotte nel Regolamento 1048/71.  

   Contesto storico che vede innanzi tutto i sei Stati fondatori della Comunità economica europea [6] sottoscrivre la convenzione di Ginevra e la convenzione di New York.

La prima convenzione tende a tutelare la posizione dei profughi, la seconda tutela gli apolidi.

        Nel lasso temporale che intercorre fra la firma delle due convenzioni, i membri del Consiglio d’Europa firmavano, l’11.12.53, gli accordi interinali europei e i protocolli addizionali agli stessi, ratificati dai sei membri fondatori della Comunità economica europea.

I protocolli addizionali nei loro preamboli rinviano alla convenzione di Ginevra ed estendono l’applicabilità degli accordi ai profughi, così come individuati nella convenzione di Ginevra.

        Infine il 9.12.57 i medesimi Stati firmano la convenzione europea ove nel settimo considerando si enunciava il principio «...di parità di trattamento di tutti i cittadini di ogni Parte Contraente nonché delle persone apolidi e profughi, che risiedono nel territorio di una delle parti contraenti, per ciò che concerne l’applicazione delle normative nazionali di di sicurezza sociale.» [7] e l’art. 4, n. 1, della stessa statuisce l’applicabilità delle proprie disposizioni ai lavoratori subordinati o assimilati apolidi o rifugiati residenti in uno degli Stati firmatari.

La ricognizione storico-giuridica del tessuto normativo internazionale e degli impegni in tale campo assunti dai sei Stati membri fondatori della Comunità economica europea spinge la Corte ad affermare che «In via di principio ciascuno dei sei Stati membri fondatori si era impegnato a livello internazionale a consentire in generale che gli apolidi ed i profughi beneficiassero delle leggi e dei regolamenti di previdenza sociale alle condizioni previste per i cittadini di altri Stati.» (prg. 49)[8].

Dal quadro storico-normativo antecedente all’entrata in vigore del Trattato istitutivo della Comunità economica europea [9] il Collegio decidente  passa a vagliare le disposizioni comunitarie sul tema. Il primo atto legislativo comunitario atto a verificare la compatibilità della tutela assicurata ai profughi e agli apolidi con il principio di libera circolazione dei soli lavoratori cittadini della Comunità è rappresentato dal Regolamento n. 3 del 25.9.58 e la Corte rileva che l’art. 4, n.1 rappresentava la trasposizione del contenuto del testo dell’art. 4, n.1 della Convenzione europea del 1957.

        Disposizione che, per quel che rileva ai fini del giudizio sottoposto alla Corte, è stata ripresa dall’art. 2, prg.1 del Regolamento del 1971 n. 1408.

Esaurito l’esame dell’aspetto, potrebbe dirsi, strettamente lavoristico, esame dal quale è emersa un’opzione da parte degli Stati fondatori della Comunità economica europea, in armonia degli impegni internazionali assunti, di allargamento della tutela nei confronti dei soggetti con la status di profugo o di apolide.

 La Corte passa a verificare se tale soluzione si ponga in armonia con il disposto dell’art. 42 (ex 51) Trattato CE.

Disposizione che ricorre alla tecnica del coordinamento dei regimi nazionali in materia di previdenza sociale e affida al Consiglio il compito di adottare tutte le misure idonee all’instaurazione della libera circolazione dei lavoratori, quale uno dei principi cardine della Comunità.

  Ritiene la Corte che il raggiungimento di tale fine con la tecnica del coordinamento dei diversi regimi nazionali avrebbe un limite ingiustificato se si limitasse l’ambito di operatività del meccanismo «...ai soli lavoratori che si spostano nella Comunità per lo svolgimento del proprio lavoro» (prg. 55) e non si terrebbe conto degli obblighi internazionali assunti.

Obblighi che, se si accedesse a un’opzione interpretativa restrittiva, dovrebbero essere adempiuti con l’instaurazione di un regime di coordinamento limitato alle sole categorie, numericamente limitate, di lavoratori profughi e apolidi (prg. 57).

Il delineato quadro spinge la Corte pertanto a condividere la soluzione accolta dal Consiglio nell’espletamento dei poteri di cui al menzionato art. 51 e in armonia con gli obblighi internazionali assunti da ciascuno degli Stati membri.

Concluso l’esame dell’iter argomentativo svolto dalla Corte di Giustizia non può che constatarsi come la soluzione accolta, condivisibile, più che il frutto di un modello interpretativo endogeno della legislazione comunitaria, rappresenta la presa d’atto dell’esistenza di una serie di obblighi internazionali assunti antecedentemente dagli Stati membri e il coordinamento con l’art. 42 (ex 51) funga da ausilio non necessario.

La dimostrazione grafica di tale assunto è data dall’ampiezza dell’esame storico-normativo e dalla sinteticità del profilo di diritto interno comunitario.

A una giustificazione «forte» trovata fuori dall’ordinamento comunitario, la cui «ratio» è fatta propria dallo stesso legislatore comunitario nelle disposizioni in tema di tutela di sicurezza sociale si affianca un’ulteriore giustificazione di corredo, interna al sistema, rappresentata dal fatto che il coordinamento dei sistemi nazionali in materia di tutela previdenziale raggiunge una maggiore efficacia se al suo interno si ricomprendono anche i lavoratori rifugiati o apolidi.

Ma pervenuti a questa lettura integrata del modello comunitario di libera circolazione dei cittadini comunitari lavoratori con il modello comunitario di sicurezza sociale dei lavoratori, ivi compresi gli apolidi e i profughi; non si ha automaticamente da parte di questi ultimi il riconoscimento delle prestazioni erogate in ciascun Stato membro,  necessitando altresì che gli stessi siano arrivati in uno degli Stati membri dall’interno della Comunità europea e non da uno Stato terzo.
Questa è la soluzione accolta dal Corte di Giustizia nel risolvere la seconda questione sottoposta al suo esame.
   
         Tale soluzione è sostenuta dalla lettura integrata del regolamento n. 1408/71 con l’art. 42 (ex 51) Trattato CE e dai precedenti della stessa Corte, specificamente sentenza 22.9.1992, causa C-153/91, Petit, Raccolta, 1992, I, pp. 4973 e ss.) ove si afferma con riguardo alla previdenza sociale «...che l’art. 51 del Trattato CEE e il regolamento n. 1408/71, ed in particolare il suo art. 3, non si applicano a situazioni che, in tutti i loro elementi, si collocano all’interno di un solo Stato membro.» (prg. 70).

 

                           Avv. Antonino Sgroi



[1] Con riguardo alla definizione di lavoratore la Corte di giustizia «ha statuito che il termine <<lavoratore>> che viene usato nel Trattato, in particolare nell’art. 48 (ora 39) di quest’ultimo, non può definirsi mediante rinvio al diritto degli Stati membri, bensì ha una portata comunitaria...di conseguenza la definizione di lavoratore dev’essere definita secondo criteri oggettivi, che qualifichino il rapporto di lavoro in base ai diritti e agli obblighi delle persone interessate; e ciò tenendo presente che la caratteristica essenziale del rapporto di lavoro è la circostanza che una persona fornisca, per un certo periodo di tempo, a favore di un’altra e sotto la direzione d i quest’ultima, prestazioni in contropartita delle quali riceva una retribuzione.» (Sentenza 30.1.1997, in causa C-340/97, E. J. de Jaeck c. Staatssecretaris van financier, in Raccolta, 1997, I, pp. 495 - 510, in specie prgg. 26 e 27).

Questa nozione è stata fatta propria dalla dottrina che ne ha evidenziato l’interpretazione ampia fornita dalla Corte alla nozione di lavoro subordinato, si v. : G. Tesauro, Diritto Comunitario, Padova, C.E.D.A.M., 1995, p. 319; L. Galantino, Lineamenti di Diritto Comunitario del Lavoro, Torino, Giappichelli, 1997, p. 51; AA. VV., L’Unione Europea, Istituzioni, ordinamenti e politiche, Bologna, Il Mulino, ed. it. 1998, p. 393; F. Pocar - I. Viarengo, Diritto Comunitario del Lavoro, Padova, C.E.D.A.M., 2001, p. 62.    

[2] Questa è l’interpretazione data dalla dottrina si v.: G. Tesauro, op. cit., pp. 316 e 317; L. Galantino, op. cit., p. 50; AA. VV., op. cit., p. 392; F. Pocar - I. Viarengo, op. cit., pp. 77 e 78. Questi ultimi autori osservano che tale limitazione è indubbia anche se emerge espressamente solo dal testo dei trattati CECA ed Euratom.

[3] Così: AA. VV., op. cit., p. 393; F. Pocar - I. Viarengo, op. cit., p.82. Deve rilevarsi però che in una dichiarazione di intenti dei rappresentanti degli Stati membri riuniti in seno al Consiglio (in GUCE n. 78 del 22.5.1964, p. 1225), gli stessi hanno dichiarato che l’ingresso sul loro territorio, al fine di esercitarvi un’attività subordinata, dei rifugiati in possesso dei requisite previsti dalla convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951 e stabiliti sul territorio di un altro Stato membro, «deve essere esaminato con un favore particolare specialmente per consentire a tali rifugiati sui loro territori il trattamento più favorevole possibile».

[4] La dottrina ha evidenziato l’ampliamento della platea dei beneficiari della tutela comunitaria in tema di sicurezza del lavoro rispetto alla platea dei destinatari delle disposizioni in tema di libera circolazione, queste ultime limitate ai soli cittadini degli Stati membri, si v.: AA. VV., op. cit., p. 393; F. Pocar - I. Viarengo, op. cit., p. 197.

Questi ultimi vedono nel Regolamento «...una tendenza a ricomprendere nella disciplina comunitaria della sicurezza sociale non soltanto le forze di lavoro originarie degli Stati membri, come in tema di libera circolazione, ma tutta la manodopera presente nell’area comunitaria.»

[5] Nel testo della sentenza si legge che l’art. 235 del Trattato CEE corrisponde all’art. 235 del Trattato CE mentre nella versione consolidata del Trattato CE l’art. 235 corrisponde all’art. 308.

[6] Belgio, Germania, Francia, Italia, Lussemburgo, Paesi Bassi.

[7] La Corte evidenzia come fondamento della convenzione sia l’art. 69, n. 4 del Trattato CECA (firmato a Parigi il 18.4.1951 e reso esecutivo con legge 25 giugno 1952, n. 766) ove gli Stati contraenti si danno atto di ricercare tra loro ogni accomodamento che appaia necessario affinchè le disposizioni sociali non siano d’ostacolo agli spostamenti della manodopera.

[8] La stessa ricostruzione storico-normativa è compiuta dalle parti intervenute nel giudizio.

[9] Il Trattato firmato a Roma il 25 marzo 1957 e stato reso esecutivo in Italia con legge 14 ottobre 1957, n. 1203.

Torna alla Home Page