CONSIDERAZIONI ETERODOSSE
SUL 
RITO DEL DIVORZIO E DELLA SEPARAZIONE


di Giuseppe Vignera
Magistrato

 

 

SOMMARIO: 1. La ricostruzione tradizionale dei processi di divorzio e di separazione  quali procedimenti di cognizione non sommaria speciali (ovvero a “specialità limitata” alla fase introduttiva). – 2. Nostra opinione: i processi di divorzio e di separazione quali procedimenti a rito speciale (ovvero a “specialità integrale” perché riguardante tutte le fasi). – 3. (Segue) La costituzione del convenuto e l’operatività delle preclusioni nell’ambito della nostra ricostruzione. – 4. Ambito di applicabilità del rito speciale alle c.d. questioni accessorie.

 

 

1. – La  ricostruzione tradizionale dei processi di divorzio e di separazione  quali procedimenti di cognizione non sommaria speciali (ovvero a “specialità limitata” alla fase introduttiva).

      La riforma del processo ordinario di cognizione, posta in essere (fondamentalmente) dalla l. 26 novembre 1990 n. 353 e (marginalmente) dalla l.  20 dicembre 1995 n. 534 ([1]),  ha provocato un vivacissimo dibattito dottrinale (trovante ovviamente eco nelle pronunce giurisprudenziali) sul tema riguardante il coordinamento tra la nuova normativa codicistica e la disciplina del  procedimento ([2]) c.d. contenzioso di divorzio (o su domanda unilaterale).
     Tale disciplina – come tutti sanno – è contenuta nell’art. 4, commi 1-12, l. 1° dicembre 1970 n. 898 ([3]) e, a sua volta, in virtù dell’art. 23, comma 1, l. 6 marzo 1987 n. 74 ([4]) deve considerarsi applicabile anche ai giudizi di separazione personale dei coniugi ([5]): e ciò,  pur quando il processo debba proseguire per l’ulteriore istruzione della questione sull’addebitabilità della separazione stessa ([6]). 
     Orbene!
    
Varata la riforma del rito civile ordinario, rispetto ai processi di divorzio e di  separazione   scrittori e giudici si son posti, in particolare e per esempio,  il problema di individuare:
   
A)  la funzione dell’udienza presidenziale: se essa, cioè,  possa considerarsi ([7]) o meno ([8]) assimilabile all’udienza ex art. 180 c.p.c. e se, quindi, il momento operativo delle preclusioni previste dagli artt. 166, 167, 183 e 184 c.p.c. debba rapportarsi all’udienza presidenziale stessa ([9]) oppure alla successiva udienza davanti al giudice istruttore ([10]); 
    B) 
l’atto processuale destinato a contenere l’avvertimento di cui all’art. 163, comma 3, n. 7, c.p.c. ([11]).

      Codesto problema di coordinamento è sorto perchè i processi di divorzio e di separazione nella communis opinio rappresentano semplicemente dei  procedimenti  speciali di cognizione non sommaria ([12]).
     Ricordato che viene qualificato come procedimento speciale di cognizione non sommaria quello strutturato con alcune particolarità rispetto alla disciplina del processo ordinario di cognizione, con riferimento al giudizio di  divorzio  ed a quello di separazione  tali particolarità, più esattamente, sono di solito ravvisate soltanto (o, comunque, fondamentalmente) nella loro fase introduttiva.

     Ed infatti, abitualmente si dice che, “posta l’indiscussa opinione che nella fase presidenziale si esauriscono i caratteri di specialità dei procedimenti in esame, una volta superata questa prima fase e quella di passaggio dal presidente del tribunale al giudice istruttore, rispetto alla quale l’applicazione del nuovo rito civile è idonea a far sorgere i non pochi problemi segnalati, nell’ulteriore svolgersi del procedimento di primo grado non sembrano rinvenirsi particolarità significative” ([13]).

 

 

2. – Nostra opinione: i processi di divorzio e di separazione quali procedimenti a rito speciale (ovvero a “specialità integrale” perché riguardante tutte le fasi).    

    

     Secondo noi il segnalato problema di coordinamento è … falso perché muove da una premessa errata, non sembrandoci per nulla conforme al diritto positivo l’affermazione che la deviazione del rito del divorzio  e della separazione rispetto al rito ordinario  riguarda esclusivamente o principalmente la c.d. fase presidenziale.
     Basta, invero, leggere l’art. 4 l. 1° dicembre 1970 n. 898  per rendersi conto che quell’affermazione rivela una considerazione  superficiale del testo normativo e della sua ratio, consistente nell’esigenza di accelerare al massimo la formazione del giudicato sul capo di sentenza relativo allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero alla separazione personale dei coniugi ([14]), svincolando la relativa decisione, “che presenta i caratteri della priorità e dell’urgenza e che di norma non comporta particolari indagini istruttorie, dai ritardi connessi agli accertamenti necessari per decidere le altre questioni” ([15]): e ciò, all’evidente scopo di consentire di “rifarsi al più presto una famiglia” ad una o ad entrambe le parti di un matrimonio definitivamente  fallito [in caso di divorzio ([16])] o presumibilmente destinato al fallimento [in caso di separazione) ([17])]. 
     Uno studio appena un poco attento alla lettera ed alla ratio della disposizione normativa in discorso, invece, deve – a nostro avviso –  portare alla conclusione che  i procedimenti di divorzio e di separazione  rappresentano (non dei processi speciali di cognizione non sommaria, ma) dei veri e propri processi a rito speciale ([18]), i quali si pongono rispetto al processo ordinario di cognizione nello stesso rapporto  in cui si pone – per  esempio – il  c.d. processo del lavoro, nel senso che:

a)      tali procedimenti trovano la loro regolamentazione autonoma e tendenzialmente completa nella lex specialis che li disciplina, i cui obiettivi fondamentali sono costituiti dall’accelerazione dei tempi e dalla semplificazione delle forme ([19]);

b)     agli stessi procedimenti può applicarsi la lex generalis di cui agli artt. 163 ss. c.p.c. solo (e nel rispetto della “clausola di compatibilità”) per colmare le lacune eventualmente presenti nella legge speciale e, quindi, in via analogica ovvero in quanto espressione di princìpi generali .

     In coerenza con la cennata  ratio “acceleratoria” dell’art. 4 l. div., infatti, i procedimenti in parola sono soggetti ad una regolamentazione divergente in tutte le loro fasi  (e non solamente nella fase introduttiva, come invece si è soliti dire) da quella dell’ordinario processo di cognizione, speciale essendo in particolare la disciplina concernente:

A)   l’introduzione del procedimento, che avviene (anziché con atto di citazione) con il ricorso avente il contenuto ex art. 4, comma 2, l. 898/1970;

B)   l’udienza di prima comparizione, che si celebra (non innanzi al giudice istruttore per lo svolgimento delle attività ex art. 180 c.p.c., ma) innanzi al presidente del tribunale per il tentativo di conciliazione e per la pronuncia dei provvedimenti temporanei ed urgenti nell’interesse dei coniugi e della prole (art. 4, commi 7-8, l. 898/1970);

C)   la prima udienza innanzi al giudice istruttore, dove quest’ultimo deve [non già controllare la regolarità del contraddittorio ex art. 180, comma 1, c.p.c. (essendo dovere del presidente compiere tale verifica all’udienza di prima comparizione), nè tentare la conciliazione delle parti ex art. 183, comma 1, c.p.c. (avendo già provveduto all’incombente il presidente stesso), ma] esclusivamente ed immediatamente verificare se la causa sia o meno matura per la pronuncia dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero della separazione personale dei coniugi [con conseguente “incompatibilità” tra l’udienza de qua e le altre attività ex art. 183, commi 4 e 5, c.p.c. ([20])]  e provvedere:

                        C1) in caso affermativo ad invitare immediatamente le parti  a precisare le loro conclusioni istruttorie e di merito ai fini della rimessione della causa al collegio per la pronuncia della sentenza non definitiva relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero  alla separazione personale dei coniugi (arg. ex art. 4, comma 9, l. 898/1970 ([21]);

                        C2) in caso negativo ad istruire la causa limitatamente [allo scopo  di pervenire comunque nel più breve tempo possibile alla pronuncia della predetta sentenza non definitiva,  che – come detto –  presenta i caratteri della priorità e dell’urgenza”) ([22])] alla questione “principale” avente ad oggetto lo scioglimento o la cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero la separazione personale dei coniugi, ammettendo illico et immediate i mezzi di prova già indicati dalle parti nel ricorso introduttivo e/o nella comparsa di risposta (apparendo contrario alla ratio “acceleratoria” dell’art. 4 l.  898/1970 il regime previsto dal “nuovo” art. 184 c.p.c., caratterizzato dalla possibilità di rinvio ad altra udienza con contestuale concessione di termini alle parti);

D)   l’istruzione della causa [scilicet: sulle ulteriori ed eventuali questioni “accessorie” (diverse, cioè,  da quella “principale” riguardante il divorzio o la separazione personale dei coniugi) richiedenti indagini istruttorie], la quale   viene disposta (non dal giudice istruttore ex art. 184 c.p.c., ma) dallo stesso collegio  con l’ordinanza pronunciata ex artt. 279, comma 2, n. 4, e 280 c.p.c.,  unitamente alla sentenza non definitiva di divorzio o di separazione ex art. 4, comma 9, l.  898/1970 ([23]);

E)    la decisione della causa, la quale nella parte relativa allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero alla separazione personale dei coniugi  deve avvenire nel più breve tempo possibile e, quindi, qualora attività istruttorie debbano essere compiute soltanto rispetto alle questioni c.d. accessorie, con sentenza non definitiva da pronunciarsi pur in mancanza dei presupposti ex art. 277, comma 2, c.p.c. ([24]);

F)    il regime dell’impugnazione della superiore sentenza non definitiva, che conosce soltanto l’appello immediato e non anche la riserva facoltativa di impugnazione ex art. 340 c.p.c. (v. art. 4, comma 9, l. 898/1970);

G)  il procedimento d’appello, soggetto al rito camerale ex art. 4, comma 12, l. 898/1970 ([25]).

 

    

3. – (Segue) La costituzione del convenuto e l’operatività delle preclusioni nell’ambito della nostra ricostruzione.

 

     Alla  stregua di tutto quanto precede,  mentre si rivelano ingiustificati i tentativi dottrinari e giurisprudenziali intesi a coordinare i “nuovi” artt. 163, comma 3, n. 7 ([26]), 166-167-180 ([27]), 183 ([28]) e 184 ([29]) c.p.c. con i procedimenti di divorzio e di separazione [tentativi scaturenti – come detto – da  una (errata) concezione di tali procedimenti quali  processi ordinari di cognizione dalle speciali modalità introduttive, del tipo – per  esempio – di quelli ex artt. 615, comma 2, c.p.c., 617, comma 2, c.p.c., 619 c.p.c., 633 ss. c.p.c., 100-102 l. fall.],  si può in particolare concludere che nei procedimenti de quibus:

A)      la domanda dell’attore si risolve nel ricorso introduttivo del procedimento;

B)       la costituzione dell’attore stesso si perfeziona al momento del deposito del predetto ricorso ([30]);

C)      il convenuto deve costituirsi già nella fase presidenziale, siccome si desume – da un lato – dal fatto che  l’unico atto destinato a portare a conoscenza del convenuto medesimo l’azione proposta nei suoi confronti è costituito dalla notificazione del  ricorso e del pedissequo decreto di fissazione dell’udienza presidenziale ex art. 4, comma 5, l. 898/1970 ([31]); e – dall’altro lato – dalla  circostanza che il comma 6 dello stesso art. 4 ([32]) impone all’attore di rispettare termini minimi per comparire rapportati all’udienza presidenziale (di guisa che proprio a tale udienza va riferito l’onere di costituzione della controparte, attesa l’indubbia correlazione esistente tra i termini suindicati e le esigenze difensive del convenuto);

D)      non esistendo nella disciplina speciale dei procedimenti in questione la prescrizione di un termine ad hoc ed essendosi la costituzione dell’attore    perfezionata al momento del deposito del ricorso introduttivo, la costituzione del convenuto può avvenire (mediante il deposito di apposita comparsa) sino all’udienza presidenziale  in applicazione del principio generale  ex art. 171, comma 2, c.p.c. ([33]);

E)       l’obbligo di rimessione immediata della causa al collegio ex art. 4, comma 9, l. 898/1970 implicitamente preclude alle parti la possibilità di formulare richieste di merito o istruttorie non contenute, rispettivamente, nel ricorso introduttivo e nella comparsa di costituzione ([34]), a meno che naturalmente non si tratti di richieste riguardanti questioni sottratte alla disponibilità delle parti  stesse (come lo sono quelle aventi ad oggetto i figli minori) e salva sempre la possibilità di richiedere la rimessione in termini ex art. 184 bis c.p.c.

 

    

4. – Ambito di applicabilità del rito speciale alle c.d. questioni accessorie.

 

     Deve precisarsi, infine, che il rito speciale come sopra delineato va considerato di tipo esclusivo [nel senso che deve essere obbligatoriamente seguìto ([35])] per addivenire in sede contenziosa alla pronuncia (c.d. principale) sullo scioglimento o sulla cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero sulla separazione  personale dei coniugi.

     La stessa cosa, invece, non sempre può dirsi rispetto alle pronunce c.d. accessorie, vale a dire a quelle ulteriori (ed eventuali) statuizioni che trovano nella  pronuncia del divorzio o della separazione personale il loro presupposto necessario ([36]) e che riguardano:

a)     l’addebito della separazione (art. 151, comma 2, c.c.);

b)    l’affidamento dei figli minori (155, comma 1, c.c.; art. 6, comma 2, l. div.);

c)     l’esercizio della potestà sui figli ad opera del genitore affidatario (art. 155, comma 3, c.c.; art. 6, comma 4, l. div.);

d)    l’amministrazione dei beni dei figli stessi e, nell’ipotesi che l’esercizio della potestà sia affidato ad entrambi i genitori, il loro concorso  al godimento dell’usufrutto legale (art. 155, comma 5, c.c.; art. 6, comma 7, l. div.);

e)     l’esercizio del diritto di visita dei figli minori spettante al genitore non affidatario  (art. 155, comma 2, c.c.; art. 6, comma 3, l. div.);

f)      l’assegno da porre a carico di quest’ultimo a titolo di contributo per il mantenimento, istruzione ed educazione della prole (art. 155, comma 2, c.c.; art. 6, comma 3, l. div.);

g)     l’assegno a titolo di contributo per il mantenimento del coniuge separato (art. 156, comma 1, c.c.);

h)     l’assegno alimentare a favore del coniuge, cui sia addebitabile la separazione (art. 156, comma 3, c.c.);

i)       l’assegno c.d. divorzile  (art. 5, commi 6-8, l. div.);

l)       l’imposizione  di garanzia reale o personale a carico del coniuge obbligato al pagamento dei predetti assegni (art. 156, comma 4, c.c.; art. 8, comma 1, l. div.);

m)  il sequestro c.d. speciale dei beni del coniuge stesso (art. 156, comma 6, c.c.; art. 8, ultimo comma, l. div.);

n)     l’ordine ai terzi, tenuti a corrispondere anche periodicamente somme di denaro al coniuge separato obbligato ([37]), che una parte venga versata direttamente agli aventi diritto (art. 156, comma 6, c.c.) ([38]);

o)    l’assegnazione della casa familiare (art. 155, comma 4, c.c.; art. 6, comma 6, l. div.);

p)    il divieto alla moglie separata di usare o, viceversa, l’autorizzazione alla stessa a non usare il cognome del marito  (art. 156 bis c.c.);

q)    l’autorizzazione alla donna divorziata a conservare il cognome del marito (art. 5, commi 3-4, l. div.);

r)      l’attribuzione al coniuge avente diritto all’assegno divorzile di una quota dell’indennità di fine rapporto percepita dall’altro coniuge (art. 12 bis l. div.) ([39]).

     Di codeste questioni c.d. accessorie, infatti, soltanto quella relativa all’addebitabilità della separazione risulta improponibile in un processo diverso da quello di separazione  ([40]), il cui rito, pertanto, si presenta di tipo esclusivo anche rispetto ad essa (questione “accessoria”).
     Tutte le altre pronunce c.d. accessorie, invece, possono essere successivamente modificate o revocate ([41])  o addirittura emesse per la prima volta [scilicet: allorchè il relativo presupposto specifico ([42]) si sia concretato dopo la definizione del giudizio di divorzio o di separazione] dal tribunale nelle forme del rito camerale, così come previsto dall’art. 710 c.p.c. (per le pronunce “accessorie” alla separazione) e dall’art. 9, comma 1, l. 898/1970 (per le pronunce “accessorie” allo scioglimento o alla cessazione degli effetti civili del matrimonio) ([43]).

     Per quanto riguarda, infine ed in particolare, il diritto all’attribuzione della quota dell’indennità di fine rapporto di cui all’art. 12 bis l. div. ([44]), mette conto puntualizzare che:

a)     merita adesione quell’orientamento giurisprudenziale, secondo cui “il   rito della   camera   di   consiglio,  ancorché  non  indicato esplicitamente  dal legislatore per la domanda rivolta ad ottenere la percentuale di indennità di fine rapporto ex art. 12 bis, l. 1° dicembre 1970  n.  898,  è tuttavia ad essa applicabile, in quanto tale rito, previsto  per la modifica delle condizioni di divorzio, è sicuramente il   modello   procedurale  più  idoneo  per  tutte  le  controversie successive  al  divorzio  in  ragione  dei  caratteri  di snellezza e immediatezza  che non escludono peraltro accertamenti più specifici e delicati” ([45]);

b)    non sembra potersi escludere che il coniuge titolare del diritto in discorso intervenga nel processo [di lavoro e non già previdenziale, attesa la natura retributiva dell’indennità de qua ([46])] avente ad oggetto l’accertamento e l’ammontare dell’indennità suddetta ed eventualmente  promosso dall’altro coniuge nei confronti del suo datore di lavoro: e ciò,  non solo ad adiuvandum, ma anche ex art. 105, comma 1, c.p.c. (naturalmente,  nelle forme e nei termini ex art. 419 c.p.c.) per far valere in quelle sede  la sua pretesa ex art. 12 bis l. div.,  integrando essa (pretesa) un diritto relativo all’oggetto dedotto nel processo  medesimo.

 

 

 



Note

          ([1]) Quest’ultima, com’è noto, ha convertito, con modificazioni, il d.l. 18 ottobre 1995 n. 432.

          ([2]) Precisiamo subito che nella nostra esposizione il concetto di  “procedimento” e quello di “processo” verranno usati promiscuamente, poiché non ci sembra fondata su dati normativi positivi la loro  distinzione incentrata sulla mancanza nel primo e sulla presenza nel secondo del contraddittorio tra le parti [in questo senso  v. particolarmente Fazzalari, Diffusione del processo e compiti della dottrina, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1958, 861; ID., Valori permanenti del processo, in Riv. dir. proc., 1989, 10; ID., Istituzioni di diritto processuale, Padova, 1996, passim, spec. 73 ss.; ID., “Processo (teoria generale)”, Noviss. dig. it., XIII, 1067; ID., “Procedimento e processo (Teoria generale)”, in Enc. dir., XXXV, 819, spec. 827 ss.; ID., “Procedimento e processo (teoria generale)”, in Digesto, Disc. priv., Sez.  civ., XIV, 648, spec. 653 ss. La distinzione tra procedimento e processo nei termini predetti è recepita da Picardi, Dei termini, in Commentario del codice di procedura civile diretto da ALLORIO, I, 2, Torino, 1973, 1532 ss., spec. 1544 ss.; Id., La dichiarazione di fallimento dal procedimento al processo, Milano, 1974, passim, spec. 133 ss., 154 ss.].

    Assolutamente condivisibile ci pare, infatti, l’osservazione di MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 1985, 7, secondo cui “l’unico dato certo, che abbia rilievo per l’interprete del diritto positivo, … par quello che tale diritto non usa la parola <<processo>> per definire procedimenti che non siano giudiziari, più precisamente ove non operi il giudice, e la riserva, prevalentemente, a quei procedimenti giudiziari, le cui funzioni sono giurisdizionali necessarie” (sulle quali v. p. 17 e ss.).

    Per più approfonditi rilievi critici ci permettiamo rinviare ad ANDOLINA-VIGNERA, I fondamenti costituzionali della giustizia civile, Torino, 1997, 113-114, nota 7.

          ([3]) Facciamo ovviamente riferimento al testo del predetto art. 4 come sostituito dall’art. 8  l. 6 marzo 1987 n. 74.

    In seguito richiameremo la l. 898/1970 anche con l’abbreviazione l. div.

          ([4]) Il comma 1 del suddetto art. 23 recita: “Fino all’entrata in vigore del nuovo testo del codice di procedura civile, ai giudizi di separazione personale dei coniugi si applicano, in quanto compatibili, le regole di cui all’art. 4 della legge 1 dicembre 1970 n. 898, come sostituito dall’art. 8 della presente legge”.

    In dottrina è stato  esattamente precisato che codesto richiamo al nuovo c.p.c. non può essere riferito alle recenti riforme processuali, ma ad una futura e completa regolamentazione del giudizio di separazione personale dei coniugi: v. LUISO, Separazione e divorzio dopo la riforma del c.p.c., in Giur. it., 1996, IV, 233; SALVANESCHI, La novella del codice di rito e la fase introduttiva dei procedimenti di separazione e di divorzio, in Corriere giur., 1995, 746, 747.

          ([5]) Conf. Cass. 13 dicembre 1995 n. 12775, in Giur. it., 1996, I, 1, 1066; 19 settembre 2001 n. 11751, in Dir. e giustizia, 2001, numero 35, 33.

    Cfr. pure Corte cost. 15 aprile 1992 n. 176, in Giur. it., 1993, I, 1, 45 (che mette in risalto “il parallelismo, le profonde analogie e la complementarità funzionale dei due procedimenti, rispettivamente, di separazione dei coniugi e di divorzio”: argomentazione ripresa alla lettera da Corte cost. 10 maggio 1999 n. 154, ivi, 2000, 248) e Corte cost. 9 novembre 1992 n. 416, in Foro it., 1993, I, 10 (che per “identiche ragioni di parallelismo, di omologia e di complementarità” ha assimilato il procedimento ex art. 710 c.p.c. a quello ex art. art. 9 l. 898/1970) [attesi questi precedenti, appare assai strano che  Corte cost. 5 novembre 1996 n. 389, in Famiglia e diritto, 1997, 6, per coonestare la mancata partecipazione dei difensori alla fase dell’udienza presidenziale del procedimento di separazione giudiziale destinata al tentativo di conciliazione, abbia invocato “la sostanziale diversità tra questo procedimento e quello del divorzio, in considerazione della differenza del grado di rottura dei rapporti coniugali e dei particolari compiti” (quali?) “affidati dalla legge al presidente del tribunale nel primo procedimento”].

    In dottrina v. per tutti  MASONI, Norme processuali nella legge sul divorzio e compatibilità con il giudizio di separazione, in Giust. civ., 2001, II, 225.

    Secondo l’opinione prevalente e preferibile (v. per tutti, anche per le indicazioni bibliografiche in senso contrario, MORRA, La separazione consensuale, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da  Bonilini e Cattaneo, I, Torino, 1998, 542 ss.) il richiamo dell’art. 23 l. 74/1987 non riguarda il comma 13 dell’art. 4 l. 898/1970 (relativo al procedimento di divorzio su domanda congiunta), di guisa che  il procedimento di separazione consensuale continua ad essere disciplinato dall’art. 711 c.p.c.

          ([6]) V. amplius in dottrina DANOVI, Separazione e addebito tra inscindibilità e autonomia, in Riv. dir. proc., 1999, 796; ed in giurisprudenza  Trib. Vercelli 27 maggio 1992 (in Giur. merito, 1992, I, 1082) e 11 agosto 2000 (in Giur. it., 2001, 1166), delle quali lo scrivente è stato l’estensore.

    In senso contrario Cass. 10 aprile 1998 n. 3718, in Giust. civ., 1998, I, 1219; 13 agosto 1998 n. 7945, ivi, 1999, I, 1079; Cass. 30 luglio 1999 n. 8272.

    Del tutto ambiguo si rivela quanto scritto nella parte motiva di Cass. Sez. Un. 3 dicembre 2001 n. 15248, in Guida al diritto, 2001, numero 48, 45 [“Quanto osservato sulla causa petendi e sul petitum dell’istanza di addebito e sulla consistenza della dichiarazione che l’accolga rende paragonabile il rapporto tra tale dichiarazione e la pronuncia di separazione al rapporto tra la pronuncia sull’assegno di divorzio e la pronuncia di divorzio, che è regolato dall’art. 4 nono comma (nuovo testo) della legge n. 898 del 1970, con l’espressa previsione di sentenza non definitiva di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio, non suscettibile d’impugnazione differita, ove il processo debba continuare per la determinazione dell’assegno; detta somiglianza, anche se non può portare all’applicazione della citata norma del giudizio di divorzio (in relazione all’art. 23 della legge 6 marzo 1987 n. 74, che la estende in quanto compatibile al giudizio di separazione), dato che la declaratoria d’addebito ha funzione e contenuto più ampi rispetto alla decisione sull’assegno di divorzio, giustifica però un trattamento processuale omogeneo”: il che – ci sembra – equivale a dire che, nel caso di procedimento di separazione giudiziale con domanda di addebito, l’art. 4, comma 9,  l. 898/1970  risulta comunque applicabile (non in virtù dell’art. 23, comma 1, l. 74/1987, ma) ... per analogia!

    Quanti si sono occupati del tema de quo, comunque, hanno considerato senz’altro applicabili ai giudizi di separazione dei coniugi (ex art. 23, comma 1, l. 6 marzo 1987 n. 74) le disposizioni processuali contenute nell’art. 4, commi 1-12,  l. 1° dicembre 1970 n.  898 (v. del tutto esemplificativamente in dottrina AMADEI, Scansione delle udienze, preclusioni e procedimento di separazione e divorzio, in Giur. it., 2000, 1641; LUISO, Separazione e divorzio dopo la riforma del c.p.c., cit., 233; MANDRIOLI, Il “rito ambrosiano” nei giudizi di separazione e di divorzio, in Famiglia e diritto, 1994, 216;  SALVANESCHI, I procedimenti di separazione e divorzio dopo la novella del processo civile, in Riv. dir. proc., 1996, 31; ed in giurisprudenza  Cass. 23 febbraio 2000 n. 2064, in Giust. civ., 2000, I, 1974; App. Roma 22 aprile 1999, in Guida al  diritto, 1999, 88; App. Firenze  23 giugno 1999, in Giur. it., 2000, 1641; Trib. Catania 30 aprile 1998, ivi, 1999, 532).

          ([7]) V. in tal senso FINOCCHIARO, Il procedimento di separazione e di divorzio dopo la novella del 1990 e successive modifiche, in Vita notar., 1998, 1340, 1352; NAPPI, Il procedimento di separazione personale dei coniugi nella disciplina attuale e nella prospettiva del nuovo testo del c.p.c., in Dir. famiglia, 1991, 718, 719; SALETTI, Procedimento e sentenza di divorzio, in Il diritto di famiglia, Trattato diretto da  Bonilini e Cattaneo, I, cit.,  594 ss.; SALVANESCHI, I procedimenti di separazione e divorzio dopo la novella del processo civile, cit., 44.

    In giurisprudenza v. specialmente Trib. Milano 27 settembre 1993, in Famiglia e diritto, 1995, 139; Trib. Milano 27 giugno 1997, in Dir. famiglia, 1999, I, 1009 (il “rito ambrosiano” del divorzio e della separazione è stato  dettagliatamente esposto da SERVETTI, Osservazioni d’ordine processuale in tema di divorzio e separazione personale, in Famiglia e diritto, 1994, 211).

          ([8]) Ritengono, invece, che l’udienza ex art. 180 c.p.c. coincida a tutti gli effetti con l’udienza davanti al giudice istruttore DI BENEDETTO, I procedimenti di separazione e di divorzio, Milano, 2000, 80 ss.;  DOGLIOTTI, Separazione e divorzio, Torino, 1995, 190; MANDRIOLI, Il “rito ambrosiano” nei giudizi di separazione e di divorzio, cit., 218 [lo stesso MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile,   Milano, 1995, III, 234, 238-239,  ha successivamente rettificato la sua opinione, ritenendo (in modo forse eccessivamente sincretistico) che gli adempimenti ex art. 180 debbano farsi all’udienza presidenziale, ad eccezione della fissazione del termine ex art. 180, comma 2, c.p.c, che invece va disposta alla successiva udienza davanti al giudice istruttore, alla quale (udienza innanzi all’istruttore)  devono essere rapportati altresì i termini per la costituzione del convenuto ex art. 166-167 c.p.c.];  TOMMASEO, Nuovo rito civile e procedimenti di separazione e di divorzio, in Famiglia e diritto, 1994, 565, 567; VULLO, Costituzione del convenuto e preclusioni nel procedimento di divorzio, ivi, 1995, 140.

    In giurisprudenza v.  Cass. 3 dicembre 1996 n. 10780, in Famiglia e diritto, 1997, 247 (la cui motivazione è stata “per trascrizione” fatta propria da App. Firenze 23 giugno 1999,cit.); 7 febbraio 2000 n. 1332, in Giur. it., 2000, 2030; Trib. Napoli 12 febbraio 1997, in Gius, 1997, 1399; Trib. Roma 26 gennaio 2000, in Foro it., 2000, I, 3010.

          ([9]) V. gli autori e le decisioni ricordate nella  nota 7.

LUISO, Separazione e divorzio dopo la riforma del c.p.c., cit., 235-236, pur riconoscendo che l’udienza presidenziale è anche quella destinata alle attività di cui all’art. 180 c.p.c., ritiene tuttavia che non siano applicabili i termini stabiliti dall’art. 166 e che, pertanto, le  attività previste dall’art. 167 c.p.c. (ed in particolare la proposizione di domande c.d. accessorie) possano compiersi direttamente all’udienza presidenziale; analogamente AMADEI, Scansione delle udienze, preclusioni e procedimento di separazione e divorzio, cit., 1643.

          ([10]) V. gli scritti ed i provvedimenti ricordati alla nota 8. 

          ([11]) Tale atto è stato individuato talvolta nel ricorso introduttivo (v. DI BENEDETTO, I procedimenti di separazione e di divorzio, cit., 64-65; Trib. Lucca 15 luglio 1996, in Giur. it., 1996, I, 2, 625; Trib. Nola 26 marzo 1997, in Famiglia e diritto, 1997, 455), talvolta  nel decreto di fissazione dell’udienza presidenziale ex art. 4, comma 5, l. div. (v. NAPPI, I procedimenti di separazione personale dopo il 30 aprile 1995, in Dir. famiglia, 1995,  II, 1174, 1176; Trib. Milano  27 giugno 1997, cit.) e talvolta ancora nell’ordinanza con la quale il presidente ex art. 4, comma  8, l. 898/1970 nomina l’istruttore e fissa l’udienza davanti alla stesso [MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, cit., III, 234; TOMMASEO, La disciplina processuale del divorzio, in BONILINI-TOMMASEO, Lo scioglimento del matrimonio, Il codice civile. Commentario, diretto da Schlesinger, Milano 1997, 325-326: ma – domandiamo –  come si coordina codesta affermazione con la soppressione  (ammessa da entrambi gli Autori: MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, cit. III, 234, 238; TOMMASEO,  Nuovo rito civile e procedimenti di separazione e divorzio, cit., 568) dell’onere di notificazione dell’ordinanza predetta al coniuge non comparso all’udienza presidenziale? (v. nota 31)].

          ([12]) Per la distinzione tra procedimenti speciali di cognizione non sommaria (i quali divergono sotto qualche aspetto dalla disciplina del procedimento ordinario di cognizione) e procedimenti di cognizione non sommaria a rito speciale (che hanno una strutturazione particolare e diversa da quella del processo ordinario di cognizione, suggerita dalla specialità della situazione sostanziale sulla quale incidono)  v. MANDRIOLI, Corso di diritto processuale civile, cit., III, 169 ss.;  TOMMASEO, Appunti di diritto processuale civile. Nozioni introduttive, Torino, 1993,  19 ss.

          ([13]) Così paradigmaticamente SALVANESCHI, I procedimenti di separazione e divorzio dopo la novella del processo civile, cit., 49.

    Nello stesso senso v., ad esempio, LUISO, Separazione e divorzio dopo la riforma del c.p.c., cit., 234 (secondo cui “la disciplina speciale attiene solo all’introduzione della causa”); SALETTI, Procedimento e sentenza di divorzio, cit., 583-584 [il quale, dopo aver detto che  la specialità del procedimento de quo è limitata alla sua prima udienza (che “presenta una diversa organizzazione rispetto ad una ordinaria udienza ex art. 180 c.p.c.” e che “dovrà svolgersi avanti al Presidente del tribunale”), così conclude: “la specialità qui si arresta, con la conseguenza che non sembra possa neppure parlarsi di procedimento speciale, bensì di procedimento ordinario, con solo alcune particolarità imposte dal tipo di interessi in gioco”].

          ([14]) V., anche per ulteriori informazioni  (comprese quelle relative ai lavori preparatori), GRAZIOSI, La sentenza non definitiva di divorzio, in  Riv. dir. proc., 1996, 411, 417-418.

          ([15]) Così Cass. 19 marzo 1992 n. 3426, in Giust. civ., 1992, I, 1454.

    In dottrina v. per tutti CIPRIANI, La riforma dei processi di divorzio e di separazione, in Riv. dir. proc., 1988, 398, 400.

          ([16]) Solo con il passaggio in giudicato della pronuncia divorzile, invero, sarà possibile ad una o ad entrambe le parti  la celebrazione di un nuovo matrimonio (avente effetti civili) con un diverso partner.

          ([17]) Poiché, infatti, il passaggio in giudicato della sentenza di separazione costituisce  condizione necessaria per l’instaurazione di un successivo procedimento diretto alla pronuncia dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio [v. art. 3, n. 2, lett. b), l. 898/1970; la giurisprudenza suole parlare al riguardo di requisito di proponibilità della domanda di divorzio: cfr., ad esempio, Cass. Sez. Un. 3 dicembre 2001 n. 15248, cit.],  quelle stesse ragioni d’urgenza “sottostanti” all’art. 4 l. 1° dicembre 1970 n. 898 soddisfano pure un preciso interesse  delle parti della causa di separazione, la quale  notoriamente nella quasi totalità dei casi prelude ad un successivo procedimento divorzile tra le medesime parti.

          ([18]) Per la relativa distinzione si rimanda alla precedente nota 12.

          ([19]) V. in tal senso specialmente Cass. 19 settembre 2001 n. 11751, cit., secondo cui “l’articolo 4 della legge 898/1970 come modificato dall’articolo 8 della legge 74/1987, è norma speciale e completa con la quale il legislatore ha inteso certamente accelerare la procedura d’accertamento dei presupposti dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio, ostacolando azioni defatigatorie o ostative di coloro che vi si opponevano”.

    Cfr. pure DANOVI, Il “rito ambrosiano” della separazione e del divorzio e le implicazioni sulla disciplina sostanziale, in Dir. famiglia, 1999, I, 1012, 1014 (secondo cui la legge di riforma del 1987 ha “ritenuto di dover disciplinare in modo molto più specifico e completo l’iter processuale del giudizio”).

          ([20]) Conf. Cass. 19 settembre 2001 n. 11751, cit., secondo cui nel processo di divorzio è causa di nullità soltanto l’omessa attivazione del contraddittorio, ma non anche la mancata fissazione, dopo l’udienza di comparizione innanzi al giudice istruttore svolgentesi successivamente alla fase presidenziale, di una udienza di trattazione né l’omessa assegnazione al convenuto di un termine perentorio non inferiore a venti giorni prima di tale udienza per la proposizione di eccezioni non rilevabili d’ufficio, secondo quanto richiede nel rito contenzioso ordinario il testo novellato dell’art. 180, comma 2, c.p.c., atteso che quest’ultima norma non è applicabile nel processo di divorzio, il quale è disciplinato dall’articolo 4 della l. 898/1970, come modificato dall’art. 8 della l. 74/1987, con una norma speciale e completa  (va, tuttavia segnalata l’incoerenza di tale sentenza, la quale, subito dopo l’enunciazione di quest’ultimo principio, finisce con il contraddirsi, sostenendo che il resistente “può costituirsi in giudizio fino a venti giorni prima dell’udienza di comparizione dinanzi al g.i.”: così trascurando di considerare che l’art. 4 l. 898/1970 non contiene nessuna previsione del genere!). 

          ([21]) Si deve a GRAZIOSI, La sentenza non definitiva di divorzio, cit., 414 ss. la puntuale dimostrazione  che l’art. 4, comma 9, l. div.,   ha come suo destinatario diretto il giudice istruttore (e non il tribunale), “non si sostituisce ma si aggiunge agli artt. 187 e 188 c.p.c.” e “introduce un’ulteriore ipotesi di rimessione immediata della causa al collegio” (ma nello stesso senso v. già prima Trib. Vercelli 27 maggio 1992, cit.).

          ([22]) Cass. 19 marzo 1992 n. 3426, cit.

          ([23]) A questo proposito va rimarcato che (anche in coerenza  con la  suindicata ratio “acceleratoria” della norma in parola)  la rimessione al collegio ex art. 4, comma 9, l. div. investe  quest’ultimo di tutta la causa, non essendo configurabile alcun motivo nè letterale nè logico in qualche modo ostativo all’applicazione in subiecta materia  del principio generale espresso dall’art. 189, ultimo comma, c.p.c. (cfr.  Cass. 16 aprile 1996 n. 3596, in Giur. it., 1997, I, 1, 1136: “L’art.  4 n. 9 l. 1 dicembre 1970 n. 898, come modificato dall’art. 8 l. 6 marzo 1987 n. 74, non esclude che il tribunale pronunci sentenza non definitiva oltre che in ordine alla domanda di divorzio, anche in ordine  all’affidamento  e  al  mantenimento della prole, ove ritenga già acquisiti elementi sufficienti al riguardo”).

    Pertanto,  pure in presenza di codesta ipotesi di rimessione  della causa al collegio,  le parti (in applicazione della regola generale ex art. 189, comma 1, c.p.c.)  hanno l’onere di precisare le rispettive conclusioni integralmente: di precisare, cioè, non solo le conclusioni di merito, ma anche quelle istruttorie [cfr. Cass.  23 febbraio 1993 n. 2215, in Giust. civ., 1994, I, 781 (“Il  collegio,  investito  dell’intera  controversia,  in  mancanza di conclusioni   istruttorie   delle   parti,   ritenute   rilevanti   e concludenti,  qualora  non  ritenga  in  concreto  di  disporre mezzi istruttori non vincolati all’istanza di parte, deve decidere l’intera causa   allo   stato   delle   emergenze  istruttorie  eventualmente esistenti, definendo il giudizio nel grado”) e Cass. 1° luglio 1993 n. 7154 (“L’art.  278  c.p.c.,  il  quale consente una pronuncia non definitiva limitata  all’an debeatur con rinvio della liquidazione del quantum a successiva  fase  dello stesso giudizio, sulla sola base dell’istanza della parte interessata …, non  esonera  l’attore, all’atto  della  rimessione della causa al collegio, dall’onere della formulazione  integrale  delle proprie conclusioni e dell’indicazione dei  mezzi di prova dei quali intenda avvalersi per la determinazione del  quantum, secondo la disciplina generale fissata dagli art. 187 e 189  c.p.c.,  con  la  conseguenza  che, in difetto di tali deduzioni probatorie,   la   suddetta   istanza   non   vale  ad  escludere  il potere-dovere del giudice di rigettare la domanda”)].

          ([24]) V. in tal senso, sia pure con degli artifizi verbali intesi a dimostrare che non ci si trova in presenza di una deroga in senso proprio alla predetta disposizione codicistica, Cass. 20 febbraio 1996 n. 1314 (“L’art.  4,  comma  9, l. 1 dicembre 1970 n. 898, nel testo introdotto dall’art.  8  l.  6  marzo 1987 n. 74, - il quale prevede, anche senza istanza  di  parte,  la  pronuncia  di  sentenza  non  definitiva  di divorzio,  nel  caso  in  cui  il  processo  debba  continuare per la determinazione dell’assegno - configura non una deroga, ma un’ipotesi di  applicazione  del  principio generale di cui all’art. 277 comma 2 c.p.c.,   con   l’unico   elemento   distintivo   della  sostituzione all’istanza di parte ed alla necessaria verifica della sussistenza di un   apprezzabile   interesse   concreto  di  questa  alla  sollecita definizione  della  domanda,  di una valutazione generale ed astratta della  rispondenza  della  pronuncia  non  definitiva ad un interesse siffatto.  Conseguentemente  vanno  ravvisati  i  presupposti per una pronuncia  non  definitiva  di  divorzio  in ogni caso in cui restino ancora  da  definire  i  rapporti  patrimoniali  tra i coniugi ovvero quelli,  patrimoniali  e  non,  nei confronti dei figli o anche altre questioni  pendenti tra le parti che richiedano indagini istruttorie”).

          ([25]) Sul punto v.  specialmente Cass.  21 agosto 1998 n. 8287: “In   tema   di   impugnazione  della  sentenza  di  scioglimento  del matrimonio,  l’art.  4, comma 12, l. n. 898 del 1970 (come modificato dall’art.  8  l. n. 74 del 1987), secondo il quale l’appello è deciso in  camera  di  consiglio,  va  interpretato  nel  senso  che il rito camerale  deve  considerarsi  esteso  all’intero  procedimento  e non limitato  alla  sola fase decisoria; tale norma trova applicazione in ogni   caso  di  impugnazione  della  sentenza  di  scioglimento  del matrimonio,  e  pertanto  anche  nelle ipotesi di appello riguardante unicamente  gli  aspetti  patrimoniali  della decisione, posto che le esigenze  di  celerità  che  hanno  determinato  il  legislatore alla scelta  del rito camerale non possono non ritenersi sussistenti anche per  richieste  di  ordine  patrimoniale,  in relazione alle quali si concentrano  gli  interessi  delle  parti,  anche  in  rapporto  alle esigenze   dei   figli,   e   quindi  maggiormente  si  manifesta  la conflittualità”.

          ([26]) Cfr. nota 11.

    Qui va ancora ricordato che Cass. 7 febbraio 2000 n. 1332, cit., pur non considerando decisivo il rilievo, sottolinea perspicuamente che “nel nostro ordinamento giuridico già esistono altri casi, così come esattamente nel rito speciale del lavoro (artt. 414, 415, 416 c.p.c.), nei quali l’atto introduttivo della lite è rappresentato da un ricorso col quale si inizia un processo scandito da termini perentori di costituzione (e, quindi, da preclusioni, non correlati ad alcun avvertimento, senza che siffatto impianto normativo sia stato censurato di incostituzionalità (Corte cost. 22 aprile 1980 n. 61; 29 ottobre 1987 n. 347)”. 

    Secondo SALVANESCHI, I procedimenti di separazione e divorzio dopo la novella del processo civile, cit., 48-49 la mancata previsione ad opera dell’art. 4 l. div. dell’onere di avvertimento ex art. 163, comma 3, n. 7, c.p.c. potrebbe indurre a sollevare una  questione di legittimità costituzionale (secondo VELLANI, La collaborazione tra il giudice e le parti nel processo del lavoro, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2001, 979, 1008-1009, analoga questione dovrebbe essere posta rispetto all’art. 415 c.p.c.).

    Per la manifesta infondatezza della questione stessa v. Cass. 7 febbraio 2000 n. 1332, cit.; 19 settembre 2001 n. 11751, cit.

          ([27]) V. i riferimenti di cui alle note 7-9.

          ([28]) Per il coordinamento tra la disciplina speciale e la norma ordinaria ex art. 183 c.p.c. v. per tutti SALETTI, Procedimento e sentenza di divorzio, cit., 604-605.

          ([29]) Cfr. specificamente sul punto Trib. Catania 30 aprile 1998, cit., e (sempre in linea con l’impostazione usuale da noi avversata) CARRATO, Le preclusioni istruttorie nel giudizio di separazione coniugale, in Giur. merito, 1998, I, 613.

          ([30]) V. Cass. 8 settembre 1992 n. 10291, in Giur. it., 1994, I, 1, 508: “Nei  procedimenti  contenziosi che iniziano con ricorso - come quelli di  separazione  personale  e di divorzio - si verifica un’inversione logica  e cronologica, rispetto a quelli in cui la domanda si propone con  citazione, nella successione del rapporto delle parti tra loro e del  rapporto  parti-giudice, nel senso che si determina per primo il rapporto cittadino-giudice, per il solo fatto della presentazione del ricorso,  ed  in  un  momento  successivo,  con  la notificazione del ricorso  e  del decreto, si instaura il contraddittorio tra le parti; ne  consegue  che in tali procedimenti si configura del tutto inutile una costituzione dell'attore ai sensi dell’art. 165 c. p. c., per cui l’attore,  depositando  il  ricorso,  non ha l’onere di presentare la nota  di iscrizione a ruolo, ma solo quello di effettuare il deposito in  cancelleria  di  cui  all’art.  38 disp. att. c. p. c., mentre il cancelliere deve formare il fascicolo d’ufficio ed iscrivere l’affare nel  ruolo  generale  ai  sensi  dell’art.  36  disp.  att.  c. p. c.”; nello stesso senso v. pure Cass. 24 giugno 1989 n. 3095).

          ([31]) Sull’eliminazione dell’onere di notificazione al convenuto non comparso dell’ordinanza presidenziale di fissazione dell’udienza davanti all’istruttore, onere previsto dal testo originario dell’art. 4, comma 7, l. 898/1970, v. Cass. 28 ottobre 1995 n. 11315, in Famiglia e diritto, 1996, 12: “Con  la  nuova  disciplina  del  processo  di divorzio introdotta con l’art.  8  della  l.  6  marzo 1987 n. 74, che ha sostituito l’art. 4 della  l.  1  dicembre  1970  n.  898, è stato abrogato il potere del presidente   del   tribunale   di  assegnare  un  termine  perentorio all’attore  per notificare al convenuto la fissazione dell’udienza di comparizione  davanti  al  giudice istruttore, con la conseguenza che l’eventuale  assegnazione  di tale termine risulta irrilevante”.

    Cass. 23 febbraio 2000 n. 2064, cit., valorizza l’eliminazione di codesto onere ai fini dell’affermazione dell’unità dei procedimento in discorso  e del carattere contenzioso di tutte le loro fasi, compresa quella presidenziale.

          ([32]) “Tra la data della notificazione del ricorso e del decreto e quella dell’udienza di comparizione devono intercorrere i termini di cui all’art. 163 bis del codice di procedura civile ridotti alla metà”.

          ([33]) Conf. AMADEI, Scansione delle udienze, preclusioni e procedimento di separazione e divorzio, cit.,  1643; FINOCCHIARO, Il procedimento di separazione e di divorzio dopo la novella del 1990 e successive modifiche, cit., 1349 ss.; LUISO, Separazione e divorzio dopo la riforma del c.p.c., cit., 236.

          ([34]) Per la sussistenza di preclusioni implicite in un sistema processuale “nel contesto del quale adempiono alle cennate esigenze di accelerazione e semplificazione della procedura” v. Corte cost. 4 gennaio 1977 n. 13, in Foro it., 1977, I, 259 (che, com’è noto, ha dichiarato infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 414, n. 5, e 416, commi 2-3, c.p.c., ritenendo che nel rito del lavoro le preclusioni espressamente previste per il convenuto dall’art. 416 debbano implicitamente considerarsi poste anche all’attore dagli artt. 414 e 420); analogamente v. pure Cass. 14 giugno 1986 n. 3985.

          ([35]) Secondo TOMMASEO, Appunti di diritto processuale civile. Nozioni introduttive, cit., 22,  il  giudizio di separazione e quello di divorzio rientrano nella categoria dei procedimenti speciali di cognizione esclusivi, che a suo dire si differenziano dai procedimenti a rito speciale in senso stretto (tra i quali viene  annoverato, per esempio, il processo del lavoro) perché l’inosservanza delle relative formalità introduttive determina in quest’ultimo caso una irregolarità emendabile (per esempio, ex artt. 426 e 427 c.p.c.) e nel primo caso, invece, “una nullità processuale che comporta l’inammissibilità della domanda”.

    Una tale nozione della “esclusività” dei processi di divorzio e di separazione, nondimeno, a nostro avviso si pone in netto contrasto con il “diritto vivente”, che tende a “salvare”  i giudizi di divorzio o di separazione erroneamente introdotti con citazione, a tal fine parlando di conversione dell’istanza e/o applicando il principio generale di conservazione  degli atti (v. per tutti MINETOLA-MURRA, Considerazioni sui processi da ricorso introdotti con citazione, in Giust. civ., 2001, I, 1628).

          ([36]) Non rientrano, pertanto, tra le questioni “accessorie” in senso proprio gli ordini di protezione ex artt. 342 bis e 342 ter c.c. (introdotti dall’art. 2 l. 4 aprile 2001 n. 154), i quali, pur potendo essere dati nell’ambito dei procedimenti di divorzio o di separazione (v. art. 8, comma 1, l. 154/2001), non trovano nello scioglimento o nella cessazione degli effetti civili del matrimonio ovvero nella separazione dei coniugi il loro presupposto necessario.

          ([37]) Cfr. Cass.  4 dicembre 1996 n. 10813, in Giur. it., 1997, I,1, 1532: “In  tema  di  separazione personale dei coniugi, l’ordine al terzo di versare  direttamente agli aventi diritto parte delle somme di denaro periodicamente  dovute all’obbligato può estendersi anche all’assegno in  favore  dei  figli minori, nonostante l’art. 156 c.c. richiami il precedente  art.  155 solo nel comma 4 (dove è prevista l’imposizione di  idonee  garanzie reali e personali), in quanto l’assegno a favore del  coniuge  affidatario  è  di  regola  comprensivo sia delle somme dovute a titolo di mantenimento del coniuge privo di adeguati redditi propri,  sia di quelle dovute a titolo di contributo nel mantenimento della prole, e, quand’anche consista solo in quest’ultimo contributo, rappresenta  pur  sempre  un  credito  dell’altro  coniuge  e  la sua corresponsione da parte dell’obbligato si inserisce, necessariamente, nella   disciplina  dei  rapporti  patrimoniali  tra  coniugi,  salva restando la destinazione delle relative somme”.

          ([38]) Codesto ordine del  giudice è, invece, superfluo nell’ipotesi di assegni posti a carico del coniuge divorziato [ cfr. Cass.  10 agosto 1990 n. 8125: “La  nuova  disciplina  del  pagamento  dell’assegno  di divorzio e di quello  per  il mantenimento dei figli da parte del datore di lavoro dell’obbligato  (art.  8,    comma, l. 1 dicembre 1970 n. 898, come modificato  dall’art.  12  l. 6 marzo 1987 n. 74), che attribuisce al beneficiario dell’assegno - in presenza di una inadempienza protratta per  un  certo  tempo e previa messa in mora del soggetto obbligato - poteri di iniziativa autonoma nei confronti del suo datore di lavoro, così  da rendere superfluo l’ordine di pagamento diretto da parte del giudice,  ha  natura  sostanziale  e,  come  tale,  è  immediatamente applicabile  ai  giudizi  in  corso  al  momento della sua entrata in vigore”].

          ([39]) Malgrado certa giurisprudenza di merito (v. esemplificativamente App. Milano 18 febbraio 1997, in Gius, 1997, 1022; Trib. Catania 30 gennaio 1997, in Giur. it., 1997, I, 2, 672; Trib. Milano 31 marzo 1999, in Gius, 1999, 2147) continui a sostenere che il coniuge titolare di assegno divorzile ha diritto alla quota di indennità di fine rapporto spettante all’altro coniuge solo se il diritto di costui sia maturato dopo il passaggio in giudicato della sentenza di divorzio e che, conseguentemente, deve considerarsi inammissibile la relativa domanda proposta nell’ambito del procedimento di divorzio; malgrado ciò – si stava dicendo –,  la  giurisprudenza di legittimità è orientata a ritenere che il diritto in questione possa essere riconosciuto anche con il provvedimento attributivo dell’assegno di divorzio e, quindi, in sede di procedimento per la pronuncia dello scioglimento o della cessazione degli effetti civili del matrimonio (v. Cass. 7 giugno 1999 n. 5553, in Famiglia e diritto, 2000, 315: “Il  disposto dell’art. 12 bis l. n. 898 del 1970 - nella parte in cui attribuisce  al  coniuge  titolare dell’assegno divorzile che non sia passato  a  nuove  nozze,  il  diritto ad una quota dell’indennità di fine  rapporto  dell’altro  coniuge  <<anche quando tale indennità sia maturata  prima  della  sentenza  di  divorzio>> - va interpretato nel senso  che  il  diritto  alla  quota  sorge  soltanto  se l’indennità spettante  all’altro  coniuge  venga  a  maturare  al  momento  della proposizione  della  domanda  introduttiva del giudizio di divorzio o successivamente   ad   essa   -  in  tal  senso  dovendosi  intendere l’espressione  <<anche  prima  della sentenza di divorzio>>, implicando ogni  diversa interpretazione possibili profili di incostituzionalità della  norma  in parola -, e non anche quando essa sia maturata e sia stata  percepita  in  data  anteriore,  eventualmente in pendenza del precedente giudizio di separazione”; analogamente Cass. 27 giugno 1995 n. 7249, in Giur. it., 1996, I, 1, 626.

          ([40]) V. ultimamente Cass. Sez. Un. 3 dicembre 2001 n. 15248, cit.

          ([41]) V. art. 155, ultimo comma, c.c., art. 156, ultimo comma, c.c., art. 5, comma 4, l. div. (applicabile analogicamente alle ipotesi ex art.  156 bis, c.c.) ed art. 9, comma 1, l. div. (il quale, sebbene parli apertis verbis soltanto di “revisione delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli e di quelle relative alla misura e alle modalità dei contributi da corrispondersi ai sensi degli articoli 5 e 6”, può essere estensivamente riferito pure alle disposizioni sulla garanzia reale o personale ovvero a quella sul c.d. sequestro speciale ex art. 8 l. div.: e ciò, anche in applicazione analogica dell’art. 156, ultimo comma, c.c., che considera revocabili o modificabili le “corrispondenti” disposizioni date dal giudice della separazione).  Precisiamo subito, peraltro, che non può  essere successivamente modificata la statuizione sull’assegno divorzile corrisposto in un’unica soluzione ex art. 5, comma 8, l. div. 

          ([42]) Si pensi, ad esempio, al pericolo di inadempimento dell’obbligato rispetto alla garanzia reale o personale ex artt. 156, comma 4, c.c., e 8, comma 1, l. div.; ovvero all’inadempimento dell’obbligato stesso rispetto  al c.d. sequestro speciale ex artt. 156, comma 6, c.c. e 8, ultimo comma,  l. div.; ovvero ancora alla cessazione del rapporto lavorativo del coniuge obbligato al pagamento dell’assegno divorzile rispetto al diritto ad una quota  dell’indennità di fine rapporto ex art. 12 bis l. div.

          ([43]) V. in generale Cass.  25 ottobre 2000 n. 14022 (le cui affermazioni sono senz’altro estensibili al procedimento ex art. 710 c.p.c.): “Il  rito  adottato  dal  legislatore,  con  l’art.  9 della legge sul divorzio, ai fini della modificazione dell’assegno divorzile, risulta regolato, in via generale, dagli art. 737 e ss. del c.p.c., e, quanto alle  forme,  in  parte  risulta  disciplinato  espressamente da tale normativa,  mentre, nella parte non regolata, risulta rimesso nel suo svolgimento  - che è attuato con impulso di ufficio - alla disciplina concretamente  dettata  dal  giudice,  la  quale  dovrà  garantire  il rispetto del principio del contraddittorio e di quello del diritto di difesa.  Da ciò deriva, quanto al procedimento di primo grado, che in esso non vigano le preclusioni previste per il giudizio di cognizione ordinario,  con  la  conseguenza  che  in  esso:  1)  potranno essere proposte   per   tutto   il   corso  di  esso  domande  nuove,  anche riconvenzionali,  in  conformità  delle direttive dettate dal giudice nella  gestione  del  processo,  senza  con  ciò peraltro che la loro eventuale  mancata  proposizione  possa  impedirne la proposizione in separato  giudizio;  2)  potranno essere ammesse altresì prove nuove, anche  in correlazione con i fatti sopravvenuti dedotti nel corso del processo;  fatti  che  -  peraltro  - anche in questo caso il giudice dovrà  e  potrà  prendere  in  esame  se  ed ove dedotti e sempre nei limiti  delle  domande  proposte.  Più  in particolare trattasi di un procedimento  svolgentesi  nell’interesse  delle  parti  ed anche nel quale  -  diversamente  da quanto accade nel caso in cui si tratti di modifica  dell'assegno  di  mantenimento  di  figli  minori - vige il principio della domanda e della corrispondenza fra il <<chiesto>> ed il <<pronunciato>>,    investendo    la <<officiosità    del   procedimento>> unicamente  il  profilo dell’impulso al suo svolgimento, ed, in certa misura  (ai sensi dell’art. 738, comma 3) l’acquisizione di materiale probatorio.  Quanto  poi  al  giudizio  di secondo grado nascente dal <<reclamo>>,   fermo   che   quest’ultimo   costituisce   un  mezzo  di impugnazione avente carattere <<devolutivo>> e come tale ha per oggetto la   revisione   della  decisione  di  primo  grado  nei  limiti  del devolutum e delle censure formulate ed in correlazione alle domande formulate  in  quella  sede,  in esso giudizio, mentre possono essere allegate  -  stante  la  libertà  di forme proprie del procedimento - fatti  nuovi,  non  possono  essere proposte domande nuove, in quanto queste  ultime  snaturerebbero  la  natura del reclamo quale mezzo di impugnazione  e,  come tale, avente la funzione di rimuovere vizi del precedente provvedimento”.

          ([44]) Non sarà inutile precisare che:

a)      “la  quota di  indennità  di  fine rapporto spettante, ai sensi della normativa  sul  divorzio,  al coniuge titolare di assegno divorzile e non  passato  a  nuove  nozze,  riguarda  unicamente  quell’indennità comunque  denominata,  che,  maturando  alla  cessazione del rapporto lavorativo,  è  determinata  in  proporzione alla durata del rapporto stesso  ed  all’entità  della  retribuzione  corrisposta:  non spetta pertanto  al  coniuge divorziato una parte di altri eventuali importi erogati,  in occasione del venir meno del rapporto lavorativo, all’ex coniuge  ad  altro  titolo  (nella  specie,  a  titolo  di  incentivo all'anticipato collocamento in quiescenza)” (così Cass.  17 aprile 1997 n. 3294, in Dir. famiglia, 1998, 46);

b)      ai  sensi  dell’art.  12 bis legge divorzio, l’ex-coniuge titolare di assegno  ai sensi dell’art. 5 legge cit. ha diritto, se non passato a nuove  nozze,  a  una  percentuale  dell’indennità  di  fine rapporto dell’altro  coniuge,  non rilevando che la stessa maturi per morte di questi o per altra causa” (Cass. 20 settembre 2000 n. 12426).

          ([45]) Così Trib. Genova 4 febbraio 1991, in Nuova giur.  civ., 1991, I, 769.

    Nello stesso senso v. App. Cagliari 9 febbraio 1998, in Riv. giur. sarda,  1999, 41; Trib. Catania 30 gennaio 1997, cit.;  Trib. Nuoro 28 agosto 1997, in Riv. giur. sarda, 1999, 42.

    Contra Trib. Napoli 3 luglio 1987, in Giur. it., 1987, I, 2, 481.

    L’interpretazione estensiva da noi condivisa trova un indiretto riscontro pure nella giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. 26 febbraio 1998 n. 2089: “La  controversia  a  norma  dell’art. 9 bis l. 1 dicembre 1970 n. 898 fra l’ex  coniuge divorziato e gli eredi dell’obbligato avente ad oggetto l’aumento  dell’assegno  liquidato  con  la  sentenza  di divorzio ha natura  divorzile  e,  come  tale,  deve  essere trattata con il rito camerale.  Consegue  che l’appello proposto   nelle forme ordinarie e, dunque,  con  citazione,  è  inammissibile  quando il deposito di tale atto in cancelleria avviene oltre il termine di cui agli art. 737 ss. c.p.c.”.

          ([46]) Cfr. Cass. 1° luglio 1997 n. 5852; 27 agosto 1997 n. 8097; 18 aprile 1998 n. 3977; 16 maggio 1998 n. 4947; 19 novembre 1998 n. 11693.

    Assai dubbia resta, invece, la natura delle controversie aventi ad oggetto il diritto del coniuge divorziato alla pensione di reversibilità, previsto dall’art. 9, commi 2 e ss., l. div.

    In base ad un primo orientamento, infatti, codeste controversie sono sempre [cioè, tanto nell’ipotesi di assenza di un coniuge superstite avente i requisiti per la pensione di reversibilità (art. 9, comma 2), quanto nell’ipotesi di esistenza di tale coniuge  (art. 9, comma 3)]  assimilabili a quelle concernenti l’assegno divorzile e, pertanto,   ad esse sono sempre riferibili la competenza per materia del tribunale ed il rito camerale previsti dall’art. 9, comma 1, l. div. (v. Cass. 11 novembre 1991 n. 12029; 27 gennaio 1992 n. 865, in Giur. it., 1993, I, 1, 1100; 2 marzo 2001 n. 3037).

    In senso assolutamente antitetico, invece, è stato affermato che tanto nell’ipotesi ex art. 9, comma 2, quanto in quella ex art. 9, comma 3, l. div. si è in presenza di un autonomo diritto avente natura squisitamente previdenziale (v. Cass. Sez. Un. 12 gennaio 1998 n. 159, in Foro it., 1998, I, 392): di guisa che le relative controversie devono intendersi  attribuite sempre alla competenza degli organi giurisdizionali, cui è istituzionalmente affidata la cognizione delle controversie in materia di trattamenti previdenziali (in via generale, giudice del lavoro; Corte dei conti, se la pensione sia a carico dello Stato) (cfr. Cass. Sez. Un. 14 dicembre 1998 n. 12540; Cass. 20 marzo 1999 n. 2593).

    In posizione intermedia tra questi due contrapposti orientamenti sembra, infine,  Cass. Sez. Un. 13 maggio 1993 n. 5429, in Dir. famiglia, 1994, I, 128: “Il  comma  2  dell’art.  9  della  legge  n.  898 del 1970, nel testo novellato  dall’art.  13  della  legge n. 74 del 1987, prevedendo, in caso  di morte dell’ex coniuge (debitore dell’assegno di divorzio) ed in  mancanza  di  un  coniuge  superstite  di  quest’ultimo  avente i requisiti  per  la  pensione  di riversibilità, il diritto del coniuge divorziato, titolare dell’assegno e non passato a nuove nozze, a tale pensione,  definisce  la  natura  della prestazione dovuta al coniuge divorziato,  escludendo  che possa assimilarsi all’assegno divorzile; di conseguenza sottrae, implicitamente, alla giurisdizione ordinaria, per  devolverla  a  quella  della  Corte  dei  conti  (in  materia di pensioni),  la  controversia afferente all’erogazione del trattamento pensionistico    de quo, allorchè tale trattamento sia a carico dello Stato.  Tale  disposizione  in  tema di giurisdizione - che non opera nella  diversa ipotesi di cui al comma 3 del cit. art. 9 (concernente i  rapporti  tra  l’ex  coniuge  ed  il  coniuge  superstite, tuttora riservati  alla  cognizione  del giudice ordinario ed alla competenza del  tribunale) - trova applicazione, quale ius superveniens, anche nei  giudizi  pendenti alla data di entrata in vigore della norma che ha dettato il nuovo testo (12 marzo 1987)”.

 

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