Ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo
e art. 6 della legge 24 Marzo 2001 n. 89

del dott. Davide Rovetta

Come ormai pressoché tutti gli operatori giuridici sanno, il 18 Aprile 2001 è entrata in vigore la legge n. 89 del 24 Marzo 2001 intitolata “Previsione di equa riparazione in caso di violazione del termine ragionevole del processo e modifica dell’art. 375 del Codice di Procedura Civile”.
La novella in sostanza si occupa di istituire un mezzo di ricorso interno all’ordinamento italiano, al fine di poter far valere il diritto ad un procedimento in tempi ragionevoli secondo lo schema dell’ art. 6 par. 1 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali.
La sua istituzione è stata resa necessaria, e fra l’altro più volte richiesta dallo stesso Consiglio D’Europa, dal fatto che le migliaia di ricorsi pendenti contro il nostro paese presso la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo di Strasburgo stavano di fatto rischiando di  ingolfare il meccanismo di funzionamento di quest’ultima.
Anche se esula dallo scopo del presente commento la puntuale descrizione del nuovo sistema di ricorso interno, sia consentito ricordare che viene ora attribuita alla Corte d’ Appello la competenza a decidere della violazione del diritto ad un processo in un “termine ragionevole”; una volta intervenuta una domanda in tal senso la Corte citata dovrà pronunciarsi nel termine di 4 mesi dal deposito del ricorso.

L’art. 6 della legge n.89/2001

L’art. 6 della legge 89/2001 prevede che nel termine di 6 mesi dall’entrata in vigore della legge medesima, coloro i quali abbiano già tempestivamente presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole ex art.6 par.1 della Convenzione Europea per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, possano presentare domanda in tal senso alla Corte D’Appello in Italia. Ciò però è possibile solamente a condizione che la Corte Europea non abbia ancora pronunciato una decisione o meno sulla ricevibilità del ricorso.
Tale norma, agli occhi di un lettore poco attento, potrebbe essere giudicata assai positivamente, lasciando  al ricorrente alla Corte Europea la scelta di poter decidere se trasporre o meno il proprio ricorso in sede di giurisdizione nazionale.

In realtà però, come si vedrà fra breve, le cose non sembrerebbero proprio stare così e la situazione è tanto più seria considerando l’elevatissimo numero di ricorsi, in detta materia, che tutt’ora pendono presso la Corte Europea e di cui ancora deve essere decisa l’ammissibilità.
Ai sensi dell’articolo 35 della Convenzione Europea la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne , qual è inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti.

La stessa Corte, con giurisprudenza sino ad ora costante, ha statuito che in caso di ricorso per violazione del termine ragionevole non bisognasse aspettare di esaurire i gradi di giudizio previsti dall’ordinamento italiano, poiché ciò avrebbe finito con l’aggravare la violazione del diritto di cui si chiedeva la protezione: così ha spesso dichiarato ricevibili ricorsi contro l’eccessiva durata di procedimenti di primo grado.
Dal momento che poi in Italia non esisteva un valido e specifico mezzo di ricorso interno per far valere tali violazioni presso il giudice nazionale con apposito procedimento, non vi erano ostacoli alla dichiarazione di ricevibilità dei ricorsi presentati direttamente alla Corte di Strasburgo.
Ora, grazie alla legge 89/2001, un tale meccanismo sembrerebbe essere stato istituito anche in Italia e quindi si dovrebbe procedere con ricorso alla Corte di Appello e, successivamente ed eventualmente, a quella di Cassazione, onde poter poi ricorrere alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione del principio del termine ragionevole ex art. 6 par. 1 della Convenzione.

A stretto rigor di logica quindi un ricorso presentato direttamente a Strasburgo per tali motivi dovrebbe venire dichiarato irricevibile dalla Corte Europea.
Però, con altrettanta logica, chi avesse per tempo presentato ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e fosse ancora in attesa di ricevere una decisione sull’ammissibilità del ricorso, dovrebbe essere lasciato libero di decidere se mantenere il ricorso a Strasburgo o trasporlo presso la Corte di Appello in Italia.
Se è vero che il tenore letterale dell’articolo 6 della legge 89/2001 sembrerebbe lasciare tale facoltà, in realtà purtroppo le cose non sono poi così chiare.
Infatti la Cancelleria della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è affrettata a comunicare a tutti i ricorrenti italiani per violazione del principio del termine ragionevole che fossero in attesa della decisione sulla ricevibilità del ricorso, che sarebbe per loro consigliabile adire la Corte d’ Appello italiana.
Essendo infatti stato istituito un valido, almeno teoricamente, mezzo di ricorso interno e permettendo l’articolo 6 della legge 89/2001 anche a loro di ricorrere al giudice italiano, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo potrebbe anche decidere di dichiarare tali ricorsi irricevibili.

A tal fine si cita la giurisprudenza costante della medesima Corte, secondo la quale essa stessa è un organo sussidiario alle procedure di protezione degli stati membri e che in caso di dubbio circa l’efficacia di un ricorso interno, lo stesso deve essere comunque tentato.
Per cui, seguendo tale ragionamento, un cittadino che avesse presentato due anni fa un ricorso a Strasburgo per eccessiva durata di un procedimento di primo grado italiano (ad esempio una diecina di anni), e non avesse ancora visto dichiarare ricevibile ed ammissibile il suo ricorso, dovrebbe trasporlo presso la Corte di Appello in Italia.
Nel caso si vedesse dalla stessa dar torto dovrebbe presentare ricorso contro tale decisione presso la Corte di Cassazione e, solo successivamente, potrebbe ri-adire la Corte Europea dei Diritti dell’uomo.

A parte l’evidente ingiustizia di tale impostazione, si tenga presente che il fatto che dopo vari anni dalla tempestiva presentazione di un ricorso a Strasburgo non sia intervenuta una decisione sulla ricevibilità dello stesso, va addebitato unicamente alla Corte medesima.

Che poi la cancelleria della stessa porti avanti tale politica par ancor più assurdo, sol che si consideri che un organismo che ha giustamente in passato protetto molti cittadini contro le lungaggini dei processi, non può ora servirsi dei propri ritardi per cercare di liberarsi dei carichi pendenti.
In altre parole, se la Corte Europea avesse provveduto a registrare tali ricorsi per tempo e senza lungaggini e ne avesse prontamente discusso la ricevibilità, non sarebbero sorti problemi del genere.
Infatti molti di tali ricorsi, anche se presentati anni fa, portano ancora un numero di registrazione temporaneo.
Nella comunicazione della cancelleria si fa presente comunque che per coloro che intendessero continuare con il procedimento a Strasburgo si provvederà con la registrazione finale del ricorso come tale.
In realtà però, quello che la cancelleria della Corte sembrerebbe aver dimenticato, è che per altrettanta giurisprudenza costante un ricorso si considera pendente dal momento in cui la semplice lettera con l’ esposizione delle doglianze e la richiesta di formulario viene registrata dalla Corte medesima.
Quindi coloro i quali intendessero continuare la loro battaglia a Strasburgo, oltre a svariati profili critici sul sistema istituito dall’ordinamento italiano, ben potranno far valere che al tempo della presentazione del loro ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’ Uomo non esisteva in Italia alcun valido mezzo di ricorso interno.
E per vedere la data di presentazione del loro ricorso bisognerà far riferimento al momento della ricezione da parte della Corte della lettera di esposizione delle doglianze, o in caso di ricorso presentato direttamente su apposito formulario, alla data di ricezione dello stesso.
D’altro canto è lecito sperare che un organismo di tale prestigio rispetterà, oltre che la propria giurisprudenza, pure principi di diritto internazionale che depongono in tal senso .

Il rischio, in caso contrario e di contemporaneo malfunzionamento del nuovo procedimento italiano, è che la palla possa passare, attraverso diverse vie, alla giurisdizione comunitaria.

Ben vero che la Comunità Europea non ha aderito alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali, ma non meno vero che i principi della stessa sono richiamati espressamente nel Trattato CE e, in maniera specifica, anche dal nuovo testo dell’articolo 6 del Trattato UE/Amsterdam.
Inoltre molti di essi erano già considerati dalla giurisprudenza comunitaria come principi generali del diritto comunitario.
Quindi vi potrebbe essere il rischio, o per un procedimento di infrazione avviato su una denuncia contro l'Italia o per il caso di rinvio pregiudiziale del giudice italiano ex art. 234 del Trattato CE adito in tal senso, che anche i giudici di Lussemburgo comincino a occuparsi della materia, magari interpretando uno stesso concetto in maniera diversa da quanto fatto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Per il momento non rimane che aspettare e vedere se i rilievi sin qui posti saranno o meno accettati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.
Non va infatti dimenticato che le comunicazioni sino ad ora arrivate provenivano dalla cancelleria, organo stimato e di grande importanza, ma che alla fine a decidere saranno i giudici.

Anche se il buon giorno, nel caso di specie, non sembrerebbe vedersi dal mattino, nulla esclude che la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, voglia accedere alle soluzioni ora proposte.

 

     Dott. Davide Rovetta

Torna alla Home Page