L'impresa agricola nel diritto comunitario. 
La nozione e i principi generali del sistema

Saggio di Rosalba Alessi



Le pagine che seguono costitutiscono parte di capitolo di uno dei volumi collettanei dedicati al diritto privato dell' Unione Europea nel Trattato di di diritto privato in corso di pubblicazione presso l'editore Giappichelli.


1. Premessa

L’approccio al tema dell’impresa agricola nel diritto comunitario assume di consueto come punto di partenza la perentoria affermazione di una ormai lontana pronuncia della Corte di giustizia secondo cui una nozione di azienda agricola «universalmente valida per l’intero settore delle disposizioni legislative e regolamentari concernenti la produzione agricola» non soltanto non è rintracciabile nelle fonti comunitarie ma non appare, in quest’ordinamento, né utile né necessaria. Il riferimento all’azienda, anziché all’impresa, giustificato del resto dal tenore dell’art. 36 (ex art. 42) del Trattato CE, non sminuiva come sappiamo la portata del principio, stante la sostanziale equivalenza, nel contesto normativo considerato, dei due termini .
Il rilievo ben riassumeva i contenuti e gli scopi di un intervento fino ad allora prioritariamente rivolto alla istituzione e alla disciplina di «organizzazioni comuni di mercato» e per questo bisognoso di identificare e selezionare con sufficiente elasticità le produzioni agricole di cui regolare di volta in volta la circolazione all’interno delle singole aree, piuttosto che attento a definire sotto il profilo giuridico i caratteri dell’impresa o del soggetto che la organizza.
A distanza di oltre vent’anni, segnati peraltro dal consolidamento, accanto alle politiche di mercato, di un deciso intervento sulle strutture agricole, il disinteresse del diritto comunitario verso i caratteri delle aziende agricole o, più direttamente, verso la figura dell’imprenditore agricolo deve essere quanto meno sottoposto a più aggiornata verifica.
Di sicuro il diritto derivato, come del resto il Trattato pur dopo le recenti riforme, non accoglie né suggerisce una nozione di impresa agricola. E le ragioni, come vedremo, sono solo in parte identiche a quelle che spiegano l’irrintracciabilità, più in generale, di una nozione di impresa tout court. Meno certa ci sembra però oggi l’indifferenza dell’ordinamento comunitario verso i modelli di organizzazione dell’attività produttiva agricola: basterebbe a smentirla l’introduzione, proprio nelle fonti comunitarie e in tema di misure di sostegno alle aziende agrarie, della figura dell’imprenditore agricolo a titolo principale .
Soprattutto, si impongono all’attenzione gli effetti indotti, nei singoli diritti interni, dal processo di adeguamento alla normativa comunitaria. Può fin d’ora anticiparsi infatti – e sembra questo il dato di maggiore rilievo sistematico – che il diritto comunitario, parimenti disinteressato sia a ricercare una definizione unitaria (diremmo europea) di impresa agricola sia, ovviamente, a rispettare quelle in vario modo consolidatesi all’interno dei singoli ordinamenti, ha messo a dura prova la resistenza di queste ultime; ha finito anzi col far entrare in crisi la stessa fruibilità di una simile nozione e, a monte, la praticabilità di quel rigido collegamento tra qualificazione dell’attività e qualificazione dell’impresa su cui, specie nel nostro ordinamento, quella nozione ha potuto sinora fondarsi.


2. L’impresa (agricola) come entità economica nella giurisprudenza e nelle fonti comunitarie

Sia pure come prima e non certo esaustiva considerazione, per l’impresa agricola può ripetersi quanto si suole rimarcare a proposito dell’impresa in genere: la mancanza di una nozione giuridica se, per un verso, rimanda alla tipica «variabilità» del relativo concetto (di cui è al contempo presupposto e risultato), per altro verso segnala la rilevanza, nell’ordinamento comunitario, di una nozione squisitamente e programmaticamente metagiuridica, «comprensiva di tutte le possibili fattispecie, nei loro più diversi aspetti, di ‘unità economiche’» .
È pacifico che anche a proposito di produzione agricola vada adottata l’ampia accezione di impresa ormai consolidata nella giurisprudenza formatasi sugli artt. 81 e 82 (ex artt. 85 e 86) del Trattato CE: quanto meno «sotto il profilo del diritto comunitario della concorrenza, la nozione di impresa abbraccia qualsiasi entità che eserciti un’attività economica, indipendentemente dal suo statuto giuridico» .
In questa direzione proprio nel nostro settore è possibile rintracciare più di una conferma a livello normativo. Così nel testo principale in materia di «associazioni di produttori» agricoli –reg. n. 1360/78 del 19 giugno 1978– si intende per produttore «ogni conduttore di un’azienda agricola situata nel territorio della Comunità che produce i prodotti del suolo e dell’allevamento» indicati nell’art. 3 del medesimo regolamento o che, essendo «produttore di prodotti di base, produce i prodotti trasformati» di cui al medesimo art. 3.
Assai significative le formule adottate nel § 4, art. 1, del reg. n. 3508/92 del Consiglio del 27 novembre 1992, secondo cui è imprenditore «il singolo produttore agricolo, persona fisica o giuridica o associazione di persone fisiche o giuridiche, indipendentemente dallo statuto giuridico conferito secondo il diritto nazionale all’associazione e ai suoi membri, la cui azienda si trova nel territorio della Comunità». Sempre ai fini del citato regolamento si intende poi per azienda «l’insieme delle unità di produzione gestite dall’imprenditore che si trovano nel territorio di uno Stato membro».
Il regolamento menzionato per ultimo interviene ad istituire «un sistema integrato di gestione e di controllo» di diversi importanti regimi di aiuto, quali il sostegno ai produttori di taluni seminativi di cui al reg. n. 1765/92, i regimi di premio a favore dei produttori di carni bovine e ovine (reg. n. 805/68 e n. 3013/89) e la concessione dell’indennità compensativa per talune produzioni animali, nelle zone di montagna e svantaggiate, di cui al reg. n. 2328/91 (oggi reg. n. 950/97). La trasversalità del provvedimento e del relativo ambito di applicazione conferisce dunque una valenza più generale a tali definizioni che peraltro ben riassumono quelle presenti in discipline settoriali e a loro volta confermano la trasposizione, nel campo delle politiche di mercato nel settore agricolo, dei princìpi che abbiamo visto affermarsi nel diritto della concorrenza .
Coerente alla visione spiccatamente oggettiva dei fenomeni economici che gli è propria, il diritto comunitario guarda alla presenza, in concreto, di una struttura destinata alla produzione e allo svolgimento, per il suo tramite, di una attività produttiva; e l’attenzione verso questo dato toglie risalto agli elementi giuridico-formali dell’imputazione di siffatta attività .
Ne consegue la stretta connessione tra la nozione di imprenditore e quella di azienda e l’irrilevanza del titolo in base al quale il primo ha la disponibilità della seconda . Il diritto comunitario si rivolge prioritariamente all’unità di produzione agricola e per il suo tramite a chi in atto la gestisce, meglio identificabile, appunto, come produttore , qualità che si attaglia sia al proprietario che all’affittuario e per la quale, nel caso di locazione, non rileva neppure quale delle due parti contraenti abbia apportato i beni aziendali.


3. Gli sviluppi delle politiche comunitarie e le ricadute nella teoria dell’impresa agricola

3.1. Dall’impresa al prodotto: l’art. 32 (ex art. 38) del Trattato CE, le Organizzazioni Comuni di Mercato e la crisi della nozione di impresa agricola.


Forte della dichiarata irrintracciabilità, nel diritto comunitario, di una nozione unitaria di impresa agricola, la nostra Suprema Corte ha risolto ogni divergenza tra i criteri di identificazione dei «produttori» o «imprenditori» agricoli assunti come destinatari delle politiche della CE e la nozione accolta dal diritto interno attestandosi sul rassicurante principio secondo cui le definizioni di volta in volta adottate dalle fonti comunitarie e per questa via introdotte nel- l’ordinamento interno non possono «avere alcuna influenza oltre i confini e gli scopi ed effetti» che sono loro propri.
Parte della dottrina ha tentato al contrario di istituire una corrispondenza tra la norma-base del Trattato e il nostro art. 2135 c.c.; o, meglio, di fronte alla crescente presenza, nella legislazione speciale interna di derivazione comunitaria, di definizioni alquanto disomogenee, ha tentato di preservare la centralità della nozione codicistica prospettandone una lettura aggiornata e adeguatrice, sì da ricongiungerla ad una presunta nozione ricavabile dall’art. 32 (ex art. 38) Trattato CE.
Tale norma sancisce che «per prodotti agricoli si intendono i prodotti del suolo, dell’allevamento e della pesca, come pure i prodotti di prima trasformazione che sono in diretta connessione con tali prodotti». Risultano qui segnati – come si vedrà anche oltre – i confini della competenza comunitaria in materia di politica agricola (dunque, i confini dell’«agricoltura» e del «commercio dei prodotti agricoli» nell’ambito del mercato comune e della politica agricola comune: v. art. 32, § 1). Una parte della nostra dottrina ha ritenuto invece di potere rintracciarvi non solo una nozione moderna e allargata di agricoltura ma anche e conseguentemente un rinnovato concetto di «agrarietà», idoneo ad identificare e distinguere l’impresa nel solco della dicotomia su cui si regge il nostro sistema ai sensi degli artt. 2135 e 2195 c.c.
La portata definitoria dell’art. 32 (ex art. 38), § 1, a questo riguardo, appare però, come è noto, subito ridimensionata dal rinvio all’Annesso II (ora Allegato I), operato dal § 3. I prodotti cui si applicherà il «diritto speciale agrario» di fonte comunitaria saranno infatti comunque quelli inclusi nell’elenco di cui al suddetto Allegato, ancorché non rientranti nella definizione di cui al § 1. La ricerca a tutti i costi di una nozione comunitaria di impresa agricola che poggi sul § 1 dell’art. 38 è destinata così a scontrarsi, da una parte, con la presenza, nel citato Allegato, di prodotti per natura differenti e non riconducibili alle categorie menzionate in tale comma e dall’altra con la presenza di interventi della politica agricola comunitaria rivolti a prodotti perfettamente rientranti in quelle categorie ma non inclusi nell’Allegato: ci riferiamo, nel primo caso, al- l’alcool etilico e nel secondo alla forestazione e al legno .
Nel contesto descritto il forzato accostamento tra norma comunitaria e norma interna è stato possibile a prezzo di una rottura della coerenza che comunque sembra ispirare l’art. 32 (ex art. 38) e che ha condotto ora a svalutare la portata del- l’Allegato I (ex Allegato II) ora addirittura a scomporre il dettato della norma, sì da isolarne il preteso nucleo definitorio . Rifiutata l’opinione dominante che assegna alla definizione di cui all’art. 32 (ex art. 38), § 1, seconda frase, «un valore puramente illustrativo» a beneficio del contenuto analitico dell’Allegato , si è ritenuto che proprio la prima disposizione consenta di enucleare, se non una definizione, almeno un concetto comunitario di agricoltura «in qualche misura assonante con l’art. 2135 c.c.» ed infatti destinato a segnare i confini dell’azione comunitaria in materia di strutture agricole ancorché non sempre coincidente con quello per implicito accolto nell’Allegato.
Sicuramente condivisibile è, in questa ricostruzione, la presa d’atto della impossibilità di rintracciare a tutti i costi una corrispondenza tra la definizione di prodotto adottata nel Trattato e il suo concreto sviluppo o, ciò che è lo stesso, la irriducibilità ad una definizione generale delle scelte che presiedono all’elenco di cui all’ex Annesso II, ora Allegato I.
Non altrettanto può dirsi, invece, per l’attribuzione alla norma comunitaria di pretese definitorie ulteriori rispetto a quelle dichiarate. Ed invero, l’art. 32 (ex art. 38) del Trattato recupererebbe una generale valenza definitoria a patto di prospettarne una lettura doppiamente amputata, così come finisce col proporre la dottrina in questione.
Ne andrebbe infatti isolato, in prima istanza, il § 1 nel presupposto, tutt’altro che dimostrato, che le disposizioni di cui ai c. 2° e 3° con il relativo rinvio all’Allegato abbiano un differente ambito di applicazione e riguardino le (sole) politiche di mercato ; e ancora, per renderne possibile il parallelismo con il nostro art. 2135 c.c., occorrerebbe isolare, nella definizione di cui al § 1 seconda frase, il riferimento all’agricoltura-produzione («prodotti del suolo e dell’allevamento»). Certamente difficile sarebbe infatti sostenere che la corrispondenza tra la norma comunitaria e quella interna sia così spinta da riguardare anche l’uso del criterio di connessione, sì da far ritenere che la qualifica in termini di «agrarietà», per i prodotti «di prima trasformazione ... che sono in diretta connessione» con quelli precedentemente indicati nell’art. 32 (ex art. 38) Trattato CE dipenda, anche nel contesto della norma comunitaria, dalla ricorrenza dei medesimi presupposti richiesti (ma per le attività) dal nostro art. 2135, c. 2°, c.c. .
In verità non si comprende perché la definizione di prodotto agricolo di cui al- l’art. 32 (ex art. 38), § 1, quale che sia il suo rapporto con l’Allegato I, debba essere letta fuori dal contesto cui appartiene; al contrario, deve presumersi che essa si riannodi alle differenze cui allude in apertura la norma, dove appunto si menzionano, distintamente, agricoltura (come attività produttiva) e commercio dei prodotti agricoli. I prodotti agricoli qui definiti sono pur sempre quelli cui andrà a riferirsi sia l’intervento rivolto alla produzione sia quello rivolto allo scambio.
L’instaurazione di un mercato comune è sicuramente strumentale alla promozione di uno sviluppo armonico delle attività economiche (art. 2 del Trattato) ma è pur sempre l’obiettivo cui è a sua volta preordinata l’instaurazione di una politica comune nel settore dell’agricoltura (v. art. 3, lett. d)) e in apertura, nonché art. 32 (ex art. 38), § 4). Trattato e norme derivate, insomma, consentono di far salva una distinzione tra attività produttrici ed attività di scambio e tra attività di trasformazione ed attività di produzione di beni primari, ma a condizione che sia chiaro che queste ultime sono oggetto di intervento e dunque «definibili» in quanto interferiscono, al pari delle altre, con i fini comunitari. Ne consegue che sia la definizione di «prodotto» sia il disposto dell’art. 32 (ex art. 38) (con il relativo Allegato II, ora Allegato I) non consentono cesure e vanno apprezzati a partire dalla sicura inscindibilità, nell’ottica della CE, tra produzione e mercato.
La non piena corrispondenza tra la selezione dei prodotti cui applicare le norme in materia di agricoltura operata in seno all’Allegato e le categorie menzionate nel § 1, seconda frase, dell’art. 32 (ex art. 38) non va a questo punto ignorata ma neppure sopravvalutata e conforta semmai il già rilevato scetticismo circa l’attitudine definitoria di questa parte della norma.
Lo ha ben puntualizzato, del resto, una pronuncia abbastanza lontana della Corte di giustizia: «Se è vero che l’art. 38 e le disposizioni ad esso connesse consentono di precisare, a determinati fini, l’ambito di applicazione delle disposizioni agricole del Trattato, non è men vero che per altri fini, e specialmente per quanto riguarda il tipo delle aziende soggette alle disposizioni di cui trattasi, la nozione di agricoltura non è delimitata in modo preciso dal Trattato. Spetta quindi alle autorità competenti precisare, se del caso, ai fini della normativa agricola derivante dal Trattato, l’ambito di applicazione personale e materiale della normativa stessa» .
Il senso della norma comunitaria, ma anche la sua distanza rispetto all’art. 2135 c.c. e in generale la sua scarsa fruibilità in vista della ricerca di una nozione di impresa agricola, appaiono chiari solo se si valorizza adeguatamente il punto di vista del diritto comunitario, certamente diverso da quello del nostro ordinamento. Non a caso il più affidabile canone interpretativo delle scelte comunitarie è quello che propone di sostituire al concetto di agrarietà, conosciuto al nostro sistema, quello di «agro-alimentarietà», quale necessaria presa d’atto della primaria finalità del diritto comunitario di costituire e regolare un unico mercato agro-alimentare prendendo per questo in considerazione sia i prodotti del- l’agricoltura tradizionale (della coltivazione o degli allevamenti su base fondiaria) sia quelli che comunque abbiano la medesima destinazione alimentare (accomunati dallo specifico squilibrio tra domanda ed offerta, originato per ciascuno di essi dalla rigidità, pur variabile, dell’una e/o dell’altra) sia infine quelli che comunque interferiscano con la produzione e il collocamento dei primi .
Il criterio agro-alimentare prospetta una lettura convincente delle scelte del diritto comunitario proprio perché parte dall’assunto che in quel contesto normativo – come del resto in quello nazionale che ne deriva – punto di riferimento determinante non è più l’impresa ma il prodotto e il mercato. In quest’ottica si giustifica e viene adeguatamente valorizzata l’equiordinazione tra le attività produttive e quelle di trasformazione e persino di commercializzazione dei prodotti, già nell’art. 32 (ex art. 38) del Trattato e nell’Annesso II (ora Allegato I); e soprattutto si coglie, all’opposto, la distanza incolmabile tra norme comunitarie (del Trattato e derivate) rivolte a considerare tutte le attività ora ricordate e art. 2135 del nostro codice civile entro il quale le attività qualificate «agricole» (e le relative imprese) sono solo quelle di produzione .
L’irrintracciabilità di una nozione di impresa agricola, nel diritto comunitario, trova a questo punto motivazioni più specifiche e più dense di implicazioni di quelle che possono spiegare, a monte, l’assenza di una nozione comunitaria di impresa. Nel quadro di una generale attenzione verso i dati economici e i fenomeni rilevanti sul mercato si innesta, con specifico riguardo al settore agricolo, l’esigenza di individuare i produttori e/o imprenditori a partire dalla categoria aperta delle attività comunque coinvolte nelle dinamiche del mercato agro-alimentare e per questo oggetto dell’intervento comunitario. Le fonti comunitarie, in altri termini, partendo dai prodotti e/o dalle attività economiche ad essi relative, inevitabilmente privilegiano una qualificazione in progress dei produttori che va in direzione opposta alla ricerca di una nozione: e ciò soprattutto perché risulta in principio impraticabile una selezione fondata sulla natura (agricola) dell’attività e dunque dell’impresa.
«L’exploitation agricole représente seulement une partie constitutive, un élément de la réglementation des marchés agricoles dont l’organisation comprend toutes les enterprises de l’économie alimentaire» .
La riflessione sul processo di allineamento tra diritto interno e diritto comunitario guadagna dunque innanzitutto in chiarezza e trasparenza se, in linea con l’insegnamento della nostra Suprema Corte a suo tempo ricordata, si mette in risalto come l’odierno ampliarsi della fascia di imprenditorialità considerata «agricola» a determinati fini trovi le sue ragioni e il suo limite nell’esigenza dell’ordinamento (nazionale e comunitario) di incentivare e proteggere le attività che costituiscono il primo anello della catena agro-alimentare.
Tuttavia, proprio in ragione della prospettiva adottata, il diritto comunitario per l’agricoltura introduce nei diritti interni una contraddizione per molti aspetti insanabile che a torto viene generalmente apprezzata soltanto sul piano dei contenuti. L’iniziale difficoltà degli Stati membri nel tenere il passo con i successivi ampliamenti delle attività da considerare «agricole» ai sensi della normativa comunitaria, la successiva comparsa, al loro interno, di norme definitorie sparse, valide nell’ambito delle singole leggi speciali di derivazione comunitaria e infine l’irrimediabile perdita di coerenza del sistema, particolarmente negli ordinamenti di civil law, evidenziano non soltanto l’irriducibilità delle scelte comunitarie ad una logica definitoria e, in particolare, alle nozioni consolidatesi all’interno dei singoli diritti nazionali, ma, più in generale, la crisi della nozione stessa di impresa agricola e del suo fondamento.
Nella prospettiva del diritto comunitario non ha ragion d’essere infatti una distinzione che si appunti sulla natura dell’attività economica (e sul modo di esercizio) e per questo tramite giunga a qualificare l’impresa che la esercita, secondo la consueta contrapposizione tra imprese commerciali e imprese prive del requisito (generale) della commercialità, individuate a partire dalle tipologie e dalla natura delle attività svolte (come avviene, ad esempio, nel nostro sistema). Assai eloquenti appaiono del resto a questo riguardo i processi determinati nei singoli ordinamenti europei dal difficile impatto con il diverso punto di vista comunitario. Ci riferiamo all’impasse della nostra dottrina nella ricerca di una più ampia nozione di «agrarietà» capace di ricondurre entro un’unica categoria (e sempre sotto l’egida dell’art. 2135 c.c.) attività di coltivazione del suolo e coltivazioni fuori fondo, allevamenti tradizionali e allevamenti senza terra ; o, ancora, alla più coerente scelta di differenti punti di osservazione del quadro normativo prevalsa nella dottrina tedesca o, infine, ai continui ripensamenti sulla nozione di bail rural e alla giuridicizzazione (a nostro avviso discutibile) del criterio biologico nell’esperienza francese .
L’interprete non può pertanto limitarsi a segnalare, anche in questo settore, la nota indifferenza del diritto comunitario verso una nozione di impresa; deve rilevare piuttosto come le finalità proprie delle politiche comunitarie per l’agricoltura ed innanzitutto di quelle rivolte alla organizzazione ed al sostegno del mercato spostino irrimediabilmente l’attenzione dell’ordinamento dalla natura alla funzione dell’impresa nel mercato agro-alimentare.Il diritto comunitario, insomma, via via che sviluppa la propria efficacia pervasiva nel diritto interno, lungi dal suggerire aggiornamenti della nozione di impresa agricola ne reclama semmai, particolarmente nel caso italiano, un ripensamento sul piano sistematico. 

(continua)


(*) Prof.ssa Rosalba Alessi. Ordinario di Istituzioni di diritto privato presso la Facoltà di Giurisprudenza
dell'Università di Palermo.

 

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