LA SUCCESSIONE FRA ENTI PUBBLICI:
I SOGGETTI INTERESSATI E L’INQUADRAMENTO NEL FENOMENO SUCCESSORIO IN GENERALE

del dott. Raffaele Vairo

 

 

 

 

Prima di poter trattare delle similitudini e delle differenze intercorrenti tra il fenomeno della successione fra enti pubblici e l’istituto della successione globalmente inteso mi sembra opportuno cercare di far luce, per quanto possibile, sul concetto di persona giuridica.

Se dal punto di vista meramente negativo, infatti, la si può definire, senza suscitare obiezioni e riserve, come un soggetto di diritto diverso dalla persona fisica, una entità, cioè, portatrice di pretese giuridiche e di obbligazioni che non è un individuo umano; sotto l’aspetto positivo la determinazione del concetto risulta particolarmente ardua e di certo non poco influente su un argomento come quello in discorso che proprio di persone giuridiche, prima che pubbliche, si occupa.

 

 

  

 

§ Persone giuridiche. La teoria della finzione. La teoria della realtà. La confutazione dei vecchi indirizzi dottrinali e l’affermarsi della concezione normativa: l’elemento del substrato in Ferrara. Il superamento della teoria del substrato e le moderne definizioni di persona giuridica.

 

 

 

Molteplici teorie si contendono il campo intorno alla persona giuridica e non sono mancate nell’arco degli anni anche correnti di pensiero che, seppur con scarsissimo seguito, hanno tentato di negarne addirittura l’esistenza, centralizzando il dato empirico e qualificando conseguentemente come persona, in senso tecnico giuridico, solo la persona fisica: è evidente come se ad una simile iperbolica conclusione effettivamente si pervenisse, il nostro intero discorso cadrebbe nel nulla venendo meno l’elemento portante del rapporto successorio tra enti pubblici e cioè il riconoscimento di una autonoma soggettività giuridica degli enti medesimi.

Oggi, però, seppure il diritto ci aiuta consacrando tale realtà positivamente, il problema assume una diversa colorazione caratterizzata dal folto numero di teorie elaborate nel tempo sull’argomento e la cui caratteristica comune è data dalla assoluta varietà con cui divergono nel determinare l’essenza della persona giuridica, "tanto che il contrasto, deciso e profondo in alcune, si va attenuando progressivamente in altre rendendo quanto mai difficile una uniforme classificazione delle teorie medesime". I filoni dottrinali più importanti possono, però, ridursi a due: quello che si manifesta come fautore della teoria della finzione e quello che pone a cardine del proprio pensiero la teoria della realtà.

La teoria della finzione , dominante per lungo tempo in Italia e all’estero, specialmente in Germania, e seguita da grandi giuristi, quali l’Heise, il Savigny, il Puchh, l’Arndts, l’Unger e numerosi altri, muove dal principio che solo l’uomo può essere soggetto di diritti, giacché solo l’uomo ha una sua volontà e una capacità naturale, che consente la realizzazione dei medesimi.

Fuori dalla persona fisica, quindi, non esisterebbero enti capaci di diritti e di doveri se non per virtù dell’ordinamento giuridico, il quale fingerebbe in una associazione di uomini o in un insieme di beni l’ esistenza di una unità alla quale attribuire la soggettività, considerando questa unità fittizia come persona.

Conseguentemente dal diritto soltanto, e quindi soltanto dallo Stato, deriverebbe la nascita della persona giuridica, la sua capacità, la sua fine, così come allo Stato sono devoluti, in caso di estinzione, i beni costituenti i mezzi destinati all’attuazione degli scopi propri della persona estinta.

Questa teoria, che deriva certamente, se non esclusivamente, dal diritto romano (e che trova espressione nel brocardo "personae vice fungitur"), in cui l’universitas è trattata come persona, non è solo errata nella premessa, ma è pressoché unanimemente ritenuta errata ed insufficiente anche nella sua portata intrinseca.

Dire che solo l’uomo ha capacità di volere e di agire è senza dubbio esatto, ma non è altrettanto esatto dedurre che, pertanto, solo l’uomo può considerarsi come persona, cioè come soggetto di diritti. Già la stessa soggettività giuridica dell’uomo non è un prodotto naturale, ma un effetto anch’esso del diritto obiettivo.

E’ dunque l’ordinamento giuridico che attribuisce al fatto naturale della nascita l’effetto del sorgere della persona, cioè del sorgere del soggetto di diritto. Quindi come il diritto obiettivo riconosce la soggettività nell’uomo per il fatto naturale della sua venuta ad esistenza, in vista del soddisfacimento dei suoi bisogni individuali, allo stesso modo, in relazione a dati fatti naturali o volontari, può riconoscere la soggettività giuridica ad altre entità, in vista del soddisfacimento di bisogni ed interessi collettivi.

Ma queste entità non sono un parto della immaginazione, la quale finge in esse una persona corporale che in effetti non c’è: "non sono ombre, alle quali solo per finzione, sia pure ridotta questa ad un rapporto di analogia, vengono attribuiti diritti, a somiglianza di ciò che si verifica riguardo alla persona fisica".

Altro grande difetto della scuola della finzione riposa poi nel totale disconoscimento della realtà della vita sociale, la quale, lungi dall’ignorare i gruppi di individui legati da interessi e fini comuni, vede allargarsi ed intensificarsi ogni giorno di più il fenomeno associativo, e questo essere oggetto di cure crescenti da parte dello Stato.

Né può essere sottaciuta la totale insufficienza di tale teoria per le applicazioni che se ne facevano alla persona dello Stato e che lasciavano senza spiegazione numerosi fenomeni giuridici di grande rilevanza inerenti le manifestazioni della sua sovranità.

Proprio le prime critiche mosse alla teoria della finzione costituiranno il terreno fertile per la enucleazione della teoria della realtà con le sue molteplici derivazioni. Il maggiore esponente di tale dottrina fu il Gierke, il quale tra i primi parlò di collettività di individui, intesi come organismi perseguenti scopi sociali, dotate di una propria autonomia, al pari dei singoli uomini: "queste collettività, pur trovando base nella pluralità di persone fisiche, sono unità a sé stanti e hanno una realtà seppur diversa da quella delle persone fisiche, non per questo meno effettiva e sicura".

Da ciò discenderebbe, secondo l’Autore, che questi enti reali collettivi, capaci di volere e di agire, debbano godere anch’essi di una propria soggettività, in senso tecnico, al pari dei singoli individui e che l’attribuzione di tale soggettività costituisca non la creazione di una persona giuridica, ma il semplice riconoscimento della stessa, così come avviene per le persone fisiche.

La persona collettiva è quindi per il Gierke una entità reale avente una esistenza obiettiva: proprio sulla natura di tale realtà si snoderanno quelle teorie che si sono definite come derivate e che talvolta la ricollegano ontologicamente al campo organico (le cd. teorie organiche della personalità), tal altra al campo sociale (le cd. teorie sociali), tal altra ancora al campo economico (le cd. teorie economiche).

Ma lo stesso elemento di realtà, che inteso come autonoma soggettività degli enti collettivi costituisce il grande passo in avanti e quindi l’indiscutibile merito di questa dottrina, la quale finalmente sgancia l’intero discorso dal necessario riferimento all’uomo, visto sotto un’altra accezione determina la globale confutazione della teoria medesima. Infatti, alla luce di oggi, si ritiene assolutamente inconcepibile una autonoma e reale esistenza della persona collettiva anteriore al riconoscimento giuridico.

Intendo riferirmi al pensiero dottrinale successivo a quello realista, cioè a quello che si esprime nella teoria dommatica basata sulla concezione normativa del diritto, e che fa capo al Ferrara ed al Maiorca.

La persona giuridica, si dice, è una creazione del diritto in relazione ad una realtà sociale, allo stesso modo come la persona è una creazione del diritto in relazione ad una realtà corporea: è cioè la realtà giuridica di una realtà sociale. Il diritto però trasforma questa realtà sociale nella sua struttura, e ai rapporti interni dell’organizzazione esistente dà atteggiamenti e possibilità nuove e diverse.

Il diritto trova, cioè, nella vita sociale organizzazioni di uomini e di mezzi per la soddisfazione d’interessi e bisogni collettivi. Queste organizzazioni hanno una individualità propria e distinta da quella dei singoli membri partecipanti o dai singoli interessati.

I parametri per riconoscere tale individualità vanno rintracciati innanzitutto nella non esatta coincidenza di interessi e scopi tra singolo e collettività e nella visione della volontà di chi "rappresenta" l’organizzazione come esplicitazione volitiva dell’intera collettività.

L’insieme e cioè qualcosa di più e di diverso da una semplice somma; è una entità a sé stante, il che è quanto dire una unità.

Il diritto fa propria questa unità sociale, che diviene così una unità giuridica o persona giuridica, ma, nell’atto in cui la fa propria, la trasforma nella sua intrinseca struttura, sicché ciò che ne deriva, è, a confutazione della tesi della realtà, qualcosa di diverso da ciò che preesisteva.

L’argomento della preesistenza non viene però immediatamente abbandonato in toto dalle moderne teorizzazioni intorno alla persona giuridica. Autori illustri, infatti, trattano della necessità di un preesistente substrato, costituito dagli elementi di fatto forniti dalla realtà sociale, perché possa aversi il riconoscimento da parte dello Stato: quindi, utilizzando le parole del Ferrara, "dietro le persone giuridiche non c’è altro che associazioni od istituzioni sociali" ..."La personalità è una veste giuridica, una impronta giuridica, che viene dal di fuori a sovrapporsi a queste forme associative o di organizzazione"..."il sottostrato, la materia grezza coniata a questo stampo giuridico è formata sempre da collettività od organizzazioni sociali"..."Pertanto gli elementi costitutivi delle persone giuridiche sono due: a) il substrato che si personifica; b) il riconoscimento dello Stato".

Pare però, agli occhi di una dottrina forse più attenta, che il preteso requisito del substrato sia frutto di un equivoco, contrario alla realtà ed alla logica della concezione normativa stessa.

E’ difatti incontestabile che non sempre esiste nella persona giuridica una materia che possa riguardarsi come sostrato; non sempre, cioè, è dato di ravvisare nella persona giuridica un complesso di elementi concreti, che vengono sussunti ad unità attraverso il riconoscimento statuale. Così non solo la storia offre numerosi esempi di conferimento di personalità giuridica ad entità puramente immaginarie, ma di continuo si assiste alla creazione ex nihilo, da parte dell’ordinamento giuridico, di persone giuridiche, le quali giuridicamente esistono sin dal momento in cui l’ordinamento le pone in essere, anche quando non posseggano ancora alcuna organizzazione e alcuna capacità di funzionare. Secondo la concezione qui esposta, quindi, l’organizzazione di individui e mezzi, diretta al soddisfacimento di interessi collettivi, una volta riconosciuta dallo Stato, non è semplicemente il substrato della persona giuridica, ma è la stessa persona giuridica.

Il che implica che quando l’ente sociale diviene, col riconoscimento, ente giuridico, sia pure con trasformazione della struttura, ciò non significa che la realtà di quest’ultima scompaia per divenire semplice substrato di una diversa realtà.

Il conferimento della personalità è quindi semplice atto di qualificazione sia che l’ente preesista in linea di fatto sia che si tratti di entità poste in essere dall’ordinamento mediante il cosiddetto riconoscimento.

Conseguentemente è da aggiungere che, in questa opera di creazione di persone, nessun limite di ordine giuridico può essere posto all’ordinamento (fatti salvi ben inteso, i limiti non giuridici: limiti politici, da una parte, e limiti di fatto, dall’altra, come ad esempio quando non vi sia alcun interesse umano da soddisfare.).

Quest’ultimo crea la personalità giuridica certamente per soddisfare un interesse umano, ma l’esistenza di un tale interesse, se pure è motivo del riconoscimento, non ne è elemento essenziale, il cui difetto possa porsi come limite giuridico al riconoscimento stesso.

Al libero apprezzamento dell’ordinamento giuridico è, pertanto, lasciato di dar vita a nuovi soggetti, di negare quando e a chi creda personalità e, per rientrare a pieno nel nostro argomento, di trasformare o estinguere quelli già esistenti.

 

 

 

 

 

 

§ Segue. Persona giuridica pubblica e privata: difficoltà nella distinzione ed il fallito tentativo di identificazione degli enti parastatali in una sorta di terzo genus. Persona giuridica pubblica: i parametri discretivi intrinseci della struttura e dell’azione dell’ente

 

 

 

 

 

La persona giuridica può, quindi, definirsi come l’unità sociale, costituita da un’organizzazione di persone e di mezzi idonei, diretta al soddisfacimento di scopi di interesse collettivo e permanente, che l’ordinamento giuridico riconosce come soggetto indipendente di diritti e doveri giuridici, soggetto destinato a volere ed agire per mezzo di persone fisiche. In tal modo viene a ricondursi ad un concetto unico, sia pure da un punto di vista molto generale, la complessa varietà che dà vita alla persona giuridica, e questo concetto è comune sia al diritto privato che al diritto pubblico.

Detto questo occorre prendere in esame la distinzione più rilevante, ai fini del nostro argomento, e cioè quella intercorrente tra persone giuridiche pubbliche e private.

Una operazione di questo tipo potrebbe apparire prima facie superflua, ma in realtà non può che ritenersi fondamentale ai fini di un indagine sulle vicende modificative ed estintive inerenti gli enti pubblici, proprio perché su tale differenziazione s’innesta l’intero dibattito volto alla ricerca dei principi fondamentali in tema di successioni di diritto pubblico. Qualora, infatti, la natura pubblica della persona giuridica fosse concretamente dicotomizzata da quella privata, forse il problema neppure esisterebbe; ma è un fatto che, nonostante gli innumerevoli studi elaborati in proposito, non esistono criteri distintivi, né unici, né combinati, che possono dar luogo ad una vera e propria teoria.

Situazione quest’ultima, che se da una parte ha reso possibile parlare di successioni fra enti pubblici grazie ad una sorta di "fenomeno di vasi comunicanti" intercorrente tra diritto privato e diritto pubblico, nello stesso tempo ne ha reso difficile la definizione essendo appunto talvolta sfumati i contorni dei soggetti interessati.

In considerazione di ciò, un’ampia letteratura ha ritenuto di poter avvertire la sola esistenza di indici rivelatori della pubblicità dell’ente, sintomi ricognitivi che valgono, volta per volta, ad inquadrare la persona giuridica nell’una o nell’altra categoria.

Più precisamente, e in ordine di preminenza, i parametri discretivi della persona giuridica pubblica, secondo questa corrente di pensiero che meglio oggi potremmo indicare come comune opinione, sono:

 

  1. godimento di potestà d’imperio, per attribuzione diretta da parte dello Stato e quindi esercizio di tale potestà in nome proprio dell’ente;

 

 

  1. costituzione della persona giuridica per diretta iniziativa dello Stato;

 

 

  1. obbligo verso lo Stato di adempiere il proprio scopo in connessione col controllo dello Stato diretto ad assicurare tale adempimento.

 

Certamente non mancano ipotesi, a dir il vero molto frequenti, in cui ricorra la contemporanea presenza di questi segni, ma per l’individuazione del pari sicura della personalità pubblica, non occorre che essi si riscontrino tutti simultaneamente: talvolta uno solo di essi può risultare determinante.

L’unica eccezione sembra essere data dal terzo elemento, di cui sopra, del quale si ritiene che debbano ricorrere entrambe le condizioni dell’obbligo e del controllo, essendo ciascuna di esse insufficiente, se presa isolatamente. Pertanto, la prima indagine sarà quella intesa ad accertare se l’ente è fornito di diritti di potestà pubblica in nome proprio, e la ricerca andrà effettuata in rapporto al diritto positivo, onde, se l’ente può ordinare o vietare un atto, imporre obblighi, stabilire limiti per le persone e gli averi, ecc., esso è indubbiamente pubblico: l’avvertimento datoci dalla dottrina è però quello di non confondere i veri e propri diritti, rientranti nel potere d’impero, con le posizioni privilegiate o di favore accordate talora dalla norma giuridica a questo o a quel soggetto.

Qualora, poi, non si riscontri l’esistenza di un potere di impero, anche ridotto entro confini modesti, l’indagine si sposterà ad accertare l’origine della persona giuridica, e se risulta che essa è stata creata per iniziativa diretta dello Stato, la pubblicità è sicura.

L’origine, dicono gli studiosi, è un elemento equivoco quando l’iniziativa del sorgere dell’ente giuridico risale a soggetti privati, perché questi ultimi, con la loro iniziativa, possono dar vita sia ad un ente privato, sia ad un ente pubblico; ma è un segno decisivo ed incontroverso quando risale allo Stato direttamente, perché significa che questo considera come propria la funzione che la persona giuridica è chiamata ad espletare. Riusciti infruttuosi gli accertamenti sulla ricorrenza del primo e del secondo segno riconoscitivo, si procederà ad una terza indagine. Converrà cioè esaminare se la persona giuridica è vincolata verso lo Stato ad agire per il conseguimento del proprio scopo, vincolo nel quale si comprende anche il divieto di scioglimento, e se, in stretta relazione con tale vincolo siano disposti interventi dello Stato rivolti ad assicurare che l’attività dell’ente si svolga effettivamente ed in modo da soddisfare convenientemente lo scopo.

Si ritiene, a tal proposito, che il solo obbligo non basti, perché anche soggetti privati possono trovarsi in posizione di obbligo verso lo Stato per l’adempimento di una attività pubblica (come ad esempio le società concessionarie di pubblici servizi).

Parimenti è da non considerarsi sufficiente, a confortare la natura pubblica, il solo assoggettamento a controlli di varia specie, in quanto vi sono enti indubbiamente privati, che pure sono sottoposti a controlli come gli enti pubblici: esemplificando per antonomasia, si pensi alle società di assicurazioni o a quegli enti giuridici privati che esercitano la raccolta del risparmio e la funzione creditizia.

Naturalmente, non ricorrendo alcuno degli elementi di cui sopra, la persona giuridica è privata, ma non per questo, muovendo da un altro equivoco, a scopo di lucro: in effetti lo scopo di lucro non può essere invocato a parametro discretivo, essendo elemento normale ma non necessario del soggetto di diritto privato.

Immanente alla distinzione tra persone giuridiche pubbliche e private, nonché rilevante ai fini di una più esaustiva delineazione del gruppo dei soggetti interessati dall’istituto della successione fra enti pubblici, è la fenomenologia degli enti parastatali.

Quest’ultima figura è stata oggetto in passato di un tentativo di catalogazione a sé stante ed intermedia, una sorta di terzo genus, tra le due aree soggettive di cui stiamo discorrendo.

Ma l’erroneità di una simile operazione fu presto avvertita, sia perché non conciliabile col nostro diritto positivo, sia perché si sottoponeva questa pretesa categoria intermedia di persone giuridiche allo stesso regime degli enti pubblici in generale, e quindi veniva meno la ragion d’essere della nuova configurazione e ogni suo interesse giuridico e pratico. Pertanto anche gli enti parastatali rientrano nell’ampia schiera degli enti pubblici, di cui costituiscono una classe, caratterizzata, non tanto dal riferimento della loro azione a tutto il territorio dello Stato, né dallo svolgimento di questa azione, in misura fondamentale e prevalente, nella sfera del diritto privato, quanto dal loro costituirsi ad iniziativa esclusiva e diretta dello Stato.

Specificatamente i cosiddetti enti parastatali, insieme alle varie istituzioni di beneficenza e di assistenza, sono compresi in quella categoria di persone giuridiche pubbliche definite a base istituzionale.

Ciò mette a fuoco una differenziazione, operata dalla dottrina, intrinseca al soggetto di diritto pubblico, e cioè quella che, poggiando sul parametro "struttura dell’ente", dicotomizza le persone giuridiche a base corporativa da quelle, appunto, a base istituzionale.

Una formula di questo tipo si ritiene necessaria per richiamare il concetto che, nelle corporazioni e nelle fondazioni pubbliche, spesso intervengono rispettivamente elementi propri dell’altra categoria, sicché è l’elemento prevalente che deve servire alla qualificazione delle une e delle altre. Tra le corporazioni pubbliche, quindi, si annoverano le corporazioni pubbliche territoriali, come le province, i comuni, le regioni, le quali sono caratterizzate dall’essere un dato territorio, non solo limite spaziale della loro attività, ma soprattutto elemento costitutivo della loro personalità, per cui l’appartenenza al territorio in ragione della residenza importa senz’altro l’appartenenza alla corporazione, vale a dire la qualità di membro della medesima.

Tutte le altre corporazioni pubbliche sono enti non territoriali, sia che spieghino la loro attività in una determinata zona del territorio statale (si pensi, ad esempio, ai consorzi fra enti pubblici, alle camere di commercio, ecc.), sia che estendano la loro azione a tutto il territorio dello Stato. Altro parametro discretivo, endogeno alle persone giuridiche pubbliche, è quello della loro "azione": precisamente la sfera di diritto in cui questa si manifesta, in modo tale da distinguere tra enti a prevalente capacità di diritto pubblico (comuni, province, regioni, istituzioni pubbliche di assistenza e di beneficenza) ed enti a prevalente capacità di diritto privato (si pensi alle Casse di risparmio, agli Istituti di credito di diritto pubblico per la raccolta del risparmio e l’esercizio della funzione creditizia, ecc.).

Così facendo si appalesa un altro aspetto, tutt’altro che semplice, circa l’applicarsi di una regolamentazione successoria che potrebbe essere tanto privata quanto pubblica, se non addirittura eterogenea, cioè il frutto di una commistione di entrambe gli elementi; ed ancora non può non richiamare a quella "singolare" realtà, e ad una relativa distinzione ai nostri fini, che è propria degli enti pubblici economici, i quali per antonomasia costituiscono il simbolo dell’incontro tra momento privato e pubblico, essendo questi titolari di imprese di diritto comune, avendo come funzione esclusiva, o prevalente, la gestione di imprese, operando, nei rapporti coi terzi, secondo le regole del diritto civile e connotando privatisticamente anche il rapporto di lavoro con il personale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

§ Segue. La natura pubblica o privata dell’ente: importanza della distinzione ai fini della determinazione dei soggetti interessati dall’eventuale rapporto successorio di diritto pubblico; coscienza legislativa del problema: l’art. 113 del D.P.R. 24\7\1977 n. 616. La distinzione tra enti pubblici territoriali e non: sintesi del problema e rinvio.

 

 

 

 

 

Alla luce di quanto detto sopra, appare di tutta evidenza come già il primo passo volto all’esame del fenomeno successorio interessante gli enti pubblici, sia tutt’altro che privo di complicazioni.

La determinazione dei soggetti eventualmente interessati dall’istituto in questione, infatti, risulta quanto mai problematica, in primo luogo, per quella sottolineata mancanza di univocità nel definire addirittura il concetto di persona giuridica e conseguentemente nel distinguere tra persona giuridica pubblica e privata, e, da ultimo, dalla non omogenea "morfologia" degli stessi enti pubblici.

Qualora poi si ritenesse che la questione, relativa al primo punto sottolineato, sia propria ed ontologica al solo ambiente dottrinale e si rivolgesse attenzione al diritto positivo in cerca di prescrizioni solutorie e definitive non si potrebbe che rimanere delusi.

Emblematico di una coscienza legislativa del problema in oggetto è il d.P.R. 24 Luglio 1977, n.616.

Questo provvedimento, che insieme ai decreti legislativi nn.1-11 del Gennaio 1972 rappresenta la consacrazione normativa del fenomeno forse più vistoso di modificazione delle attribuzioni di un ente (mi riferisco, ovviamente, al trasferimento di attribuzioni dallo Stato alle Regioni), mette, infatti, il legislatore dinanzi al dilemma della natura pubblica o privata degli enti, facendo dipendere dalle due diverse qualificazioni una correlativa diversa disciplina normativa.

Lo stesso d.P.R. n. 616 nel prescrivere, all’articolo 113, gli accertamenti preliminari ai fini della soppressione di numerosi enti, tratta, oltre del vaglio del tipo di attività e di struttura dell’ente ( e quindi, per certi versi, tocca anche quello che si è definito come problema di eterogeneità morfologica dei soggetti pubblici) di tale ricognizione.

La natura dell’ente è, quindi, per il legislatore, non qualcosa di definito, ma di definibile singulatim, e la cui ricorrenza, in forma pubblica o privata, non potendo essere constatata in forza di nessun postulato, dev’essere accertata, a priori, da una apposita Commissione tecnica, istituita ad hoc dal comma 14 dello stesso articolo 113, e sottoposta al parere della Commissione parlamentare per le questioni regionali.

A sostegno di questa tesi, va peraltro sottolineato, che l’accertamento medesimo è ritenuto superfluo per gli enti dichiarati necessari dalla legge n. 70 del 1975 ("Disposizioni sul riordinamento degli enti pubblici e del rapporto di lavoro del personale dipendente"), pubblici per definizione, per gli enti soppressi a norma della stessa legge, poiché il provvedimento di soppressione ne ha dichiarato la pubblicità, e per le Istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, fatte salve dallo stesso d.P.R. n. 616: il che manifesta la fiducia del legislatore verso il solo dato positivo a fronte di una prospettata carenza di solidi ed unidirezionali principi teorici.

Quanto al merito, poi, di un simile accertamento, gli studiosi rilevano che "se dovesse essere compiuto con criteri rigorosi, sarebbe in grado di paralizzare, sine die, l’intera procedura, nota essendo la diversità di opinioni esistente sul punto della pubblicità degli enti in dottrina ed in giurisprudenza", ed aggiungono, "tuttavia, qui come altrove sembra evidente che la soluzione verrà trovata, prima che sul piano giuridico, su quello politico e della stessa non resterà che prendere atto, sia che derivi da accordi formatisi in seno al procedimento disciplinato dall’art. 113, sia, ed a più forte ragione, che essa derivi viceversa da un nuovo intervento risolutore del Parlamento".

Mentre, allora, la natura pubblica dell’ente risulta essere requisito fondamentale ed ontologico all’applicazione del rapporto successorio di diritto pubblico, e constatato che tale attributo verrà valutato caso per caso, il più delle volte, in sede legislativa, resta da dire di quel secondo aspetto, questa volta intrinseco all’ente medesimo, che pur rileva ai fini del nostro discorso, seppur in maniera diversa: precisamente denotando lo schema successorio da applicarsi al caso concreto.

In tal senso, e senza anticipare quel che sarà trattato in seguito più diffusamente, va comunque accennato, a quella che può, fuor di dubbio, dirsi la più rilevante ed influente, sul nostro argomento, distinzione fra enti pubblici: cioè quella intercorrente tra enti pubblici territoriali e non. Basti per il momento richiamare, in proposito, le parole del Virga (per altro, come si vedrà, non unanimemente accolte) che ben sintetizzano la questione: "In seguito alla soppressione di un ente pubblico, si pone il problema della successione nei rapporti personali e patrimoniali, che facevano capo all’ente soppresso.

Per risolvere il problema, bisogna distinguere anzitutto secondo che si tratti di enti territoriali ovvero di enti non territoriali; nel primo caso, la modificazione della circoscrizione territoriale dell’ente, per incorporazione di altro ente, comportando una espansione della potestà d’impero dell’ente successore sul territorio dell’ente soppresso, dà luogo ad una successione a titolo universale; nel secondo caso, bisogna distinguere se le stesse funzioni già esercitate dall’ente soppresso vengano o meno devolute ad un ente successore; solo nel caso positivo, potrà verificarsi una successione a titolo universale".

 

 

 

 

 

§ L’essenza unitaria del fenomeno successorio: il mutamento soggettivo. Il carattere unificante nella successione mortis causa: la estinzione del soggetto. Differenze ontologiche relative al rapporto tra successioni mortis causa interessanti le persone fisiche e quelle inerenti le persone giuridiche.

 

 

Il maggior numero di studiosi italiani e stranieri, che si sono occupati del problema della successione tra enti pubblici, attratti dalle indubbie particolarità che il fenomeno successorio di diritto pubblico presenta rispetto ai noti schemi privatistici, ha talora trascurato, seppur in vista di preoccupazioni giustificabili di autonomia metodologica, di porre sufficientemente in rilievo l’essenza unitaria del fenomeno successorio. Quest’ultimo infatti, per definirlo come il Vignocchi, "sia che interessi il diritto pubblico o privato, le persone fisiche e giuridiche, le successioni mortis causa o per atto tra vivi, quelle testamentarie o legittime, i trasferimenti a titolo particolare od in universum ius, risponde ad un unico schema essenziale, quello cioè della identificazione normativa, con conseguente effetto surrogatorio (effettuato in vista di un principio riconosciuto dall’ordinamento positivo), tra due situazioni giuridiche caratterizzate da uguale oggetto e contenuto e differenziate unicamente per l’intervenuto mutamento del soggetto titolare".

A ragion del vero bisogna rammentare, però, anche il pensiero di chi, come il Miele si è opposto a tale concezione ed ha visto una concreta impossibilità di inquadrare in un unico genus due forme successorie tanto diverse, quali la universale e la particolare; ancora considerevole la teoria del Gierke, il quale ha parlato di successione collettiva in materia di enti pubblici contrapposta alla successione universale tra persone fisiche; né può essere sottaciuta la pretesa distinzione, avanzata da parte della dottrina al fine di negare sempre la unicità del fenomeno successorio, tra successione nei rapporti e nei diritti (o doveri).

In realtà queste considerazioni, oggi, sono fatte proprie da una letteratura di minoranza, stante anche le autorevoli confutazioni dottrinali che sono state avanzate: si pensi al Cannada-Bartoli, il quale, nell’interpretare il subingresso in un determinato rapporto giuridico come successione nella situazione attiva o passiva che caratterizza il rapporto stesso, afferma la piena coincidenza del concetto di successione nei rapporti con quello di successione nei diritti (o doveri); ed ancora al Romano, che da subito ha sottolineato l’opportunità di assumere il termine di successione nella sua più ampia accezione e di elevarlo a dignità di categoria generale.

Ammessa, così, la possibilità di inquadramento in una autonoma figura giuridica di queste pur diverse fenomenologie, occorre accennare agli altri elementi variabili, cioè a quelli che mutano compatibilmente ed ulteriormente all’elemento soggettivo.

Volta per volta, infatti, saranno diverse la giustificazione e le premesse di ordine sociologico o giuridico che stanno alla base delle varie figure di successione.

Il riconoscimento e la valorizzazione di vincoli famigliari, ad esempio, potranno essere il cardine nella successione legittima mortis causa delle persone fisiche; un omaggio all’autonomia della volontà e al principio di libera disponibilità dei diritti e dei beni, anche oltre la vita del titolare, quello per la successione testamentaria; la opportunità di prosecuzione dei fini e delle funzioni sociali dell’ente estinto, in base a criteri teleologici, per ciò che riguarda la successione delle persone giuridiche; la necessità di una sostituzione, alla autonoma volontà del titolare, dei beni e rapporti giuridici per esigenze speciali di ordine sociale, nell’ipotesi dei trasferimenti coattivi.

In tutti questi casi, quindi, l’elemento comune, identificante, è sempre offerto dalla volontà dell’ordinamento positivo, ricollegante a determinati eventi l’effetto della equiparazione di due situazioni giuridiche succedentisi nel tempo e diversamente caratterizzate sotto l’unico profilo soggettivo.

Ammettere questo implica una conseguenza rilevantissima: l’applicabilità, cioè, di alcuni principi generali a tutti i fenomeni successori, quali, per esempio, quello della natura derivativa, della identificazione dell’oggetto e del contenuto del vecchio e del nuovo rapporto, della traslazione del rapporto stesso dall’uno all’altro soggetto, con tutti i principali aspetti accessori e garanzie che lo accompagnano.

Ovviamente, è poi naturale che, nell’ambito dell’unico genus, siano individuabili gruppi e specie di fenomeni tra loro contrapponibili per l’esistenza di particolari elementi differenziatori.

Il gruppo per eccellenza è rappresentato dalla successione mortis causa, nella quale l’aspetto identificante è dato dal fatto che l’elemento cui la legge ricollega l’avverarsi del trapasso successorio è costituito dalla estinzione di un soggetto giuridico.

Tale specie di figura successoria è idonea a comprendere, nel proprio ambito, sia la successione delle persone fisiche, sia quelle tra persone giuridiche private e pubbliche, poiché entrambi gli schemi sono dominati da principi generali comuni.

Sotto questo profilo la dottrina può dirsi pressoché unanime, salvo rare eccezioni; e il Romano, così, ben definisce la questione: "è possibile, con un processo di generalizzazione, giungere ad un principio comune alla successione delle persone giuridiche e delle fisiche, il principio per cui, ogni successione nei diritti e negli obblighi di un subbietto, trova la sua base nel materiale ed effettivo trasferimento nella sfera giuridica del successore, di ciò che prima rientrava nella sfera giuridica del predecessore ed è sopravvissuto alla sua estinzione".

In entrambi gli schemi successori, quindi, si rintraccia la possibile alternativa di trasferimenti o in rapporti e beni singoli, ovvero, più largamente, nell’universum jus del soggetto estinto.

Anche in quest’ultima ipotesi, accanto a particolari elementi diversamente caratterizzanti i due schemi successori (persone fisiche e persone giuridiche) è riscontrabile indubbiamente un comune denominatore valido ed operante in ogni caso e consistente nella ricezione, da parte del successore, dell’intera serie di relazioni giuridiche (fatta eccezione per quelle "ad personam" ontologicamente intrasmissibili) già facenti capo all’antico titolare e ordinate ad unità.

A ciò la dottrina aggiunge che ,differentemente da quanto avveniva nel diritto romano, il fenomeno della successione in universum, in qualunque settore si realizzi, attualmente non possa trovare giustificazione dal subingresso in una posizione e titolo già proprio del soggetto estinto, con conseguente prolungamento della personalità di quest’ultimo, poiché le caratteristiche e le qualifiche nonché i poteri generici (non ancora esercitati) dei soggetti giuridici, non sembrano più essere passibili di trasferimento: si afferma, così, un principio che, rivestendo valore con riferimento ad ogni settore dell’ordinamento, sembrerebbe che debba riguardare anche le potestà degli enti pubblici.

Ancora, e sempre allo scopo di delineare questa preliminare unitarietà del fenomeno successorio, è da notarsi che, riguardi questo le persone fisiche o le persone giuridiche, la sua regolamentazione risponde pur sempre a prescrizioni di provenienza o legislativa o volitiva: regolamentazione, cioè, ope legis o frutto di disposizioni ricollegate alla volontà ed all’autonomia del soggetto estinto.

Chiaramente questa seconda forma goderà di una applicazione più attenuata, e sussidiaria, qualora facessimo riferimento alle persone giuridiche pubbliche.

E’ un fatto, però, che le stesse norme del codice civile in tema di persone giuridiche, prendano in considerazione tale principio: l’art. 16 del codice civile, al secondo comma, prescrive, infatti, che "L’atto costitutivo e lo statuto possono inoltre contenere le norme relative alla estinzione dell’ente e alla devoluzione del patrimonio, e, per le fondazioni, anche quelle relative alla loro trasformazione"; ed ancora l’art. 31 primo comma, sempre del codice civile, recita che "I beni della persona giuridica, che restano dopo esaurita la liquidazione, sono devoluti in conformità all’atto costitutivo e allo statuto".

Da siffatte considerazioni, comunque, non ci si può sentire legittimati ad istituire una completa assimilazione e , ancor meno, una identificazione, tra le manifestazioni di autonomia anzidetta e le attività testamentarie vere e proprie delle persone fisiche.

In proposito molto lucide mi sembrano le osservazioni del Vignocchi, il quale rintraccia l’elemento ostativo in una duplice serie di ragioni.

L’Autore, innanzi tutto, afferma, condivisibilmente, che mentre nelle successioni testamentarie, l’ordinamento giuridico lascia il più ampio spazio di disponibilità, ai soggetti privati, relativamente ai diritti ed ai beni, i quali sono suscettibili di essere destinati, nel modo più vario e a favore di qualsiasi altro soggetto (salve particolari eccezioni dettate dalla legge: per esempio a tutela dei legittimari), nell’ambito delle persone giuridiche prevale invece il principio opposto dell’intervento dei pubblici poteri nella regolamentazione degli eventi successori e delle loro conseguenze patrimoniali.

Ciò significherebbe, secondo lo studioso, e comprensibilmente, che man mano che si proceda dalla categoria delle persone giuridiche private a quella degli enti pubblici, le manifestazioni di autonomia degli enti stessi si ridurrebbero proporzionalmente (stante il maggior interessamento del legislatore e dell’esecutivo nei confronti del soggetto pubblico) ad una sorta di elemento complementare ed accessorio, rilevante quindi al solo duplice fine di integrazione della disciplina pubblicistica e di soddisfazione dell’interesse collettivo.

Sotto un secondo profilo, ineccepibilmente, il Vignocchi rileva come l’attività autonomica delle persone giuridiche, soprattutto pubbliche, in materia di regolamentazione successoria, si svolga di massima non tanto sul piano del negozio, come invece avviene per il testamento privato, bensì su quello della norma.

Ciò trova conferma negli articoli del codice civile sopra citati che fanno, appunto, riferimento all’atto costitutivo e allo statuto delle persone giuridiche: fonti tipiche dell’autonomia degli enti istituzionali e corporativi. Nonostante questo, però, l’elemento causativo del trapasso è sempre comune: in ogni tipo di successione mortis causa, infatti, è individuabile un "fatto-evento", dato dall’estinzione del soggetto, sia esso persona fisica o giuridica, che trae direttamente dall’ordinamento giuridico la sua giustificazione ed efficacia.

Tale principio trova, quindi, applicazione nelle ipotesi di una successione testamentaria così come nelle fenomenologie successorie che, concernenti le persone giuridiche, possono essere regolate sulla base di statuizioni emanate dall’ente in estinzione, o da regolamentazioni poste in essere, in proseguo di tempo, dall’autorità governativa.

In proposito va, inoltre, aggiunto che, anche quando l’evento estintivo risulti strettamente collegato o addirittura coincidente con manifestazioni volitive dei pubblici poteri diretti alla soppressione pura e semplice di un ente o alla sua fusione, smembramento ecc., non verrebbe meno la validità del principio affermato, dato che i provvedimenti in parola, pur essendo indubbiamente la causa diretta del fenomeno estintivo, non sarebbero però, secondo una autorevole dottrina, da considerarsi come immediatamente operativi, ai fini del trapasso successorio.

Anzi, nei confronti di quest’ultimo, tali atti si presenterebbero piuttosto come semplici accadimenti, ossia " come fatti-atti condizionanti il verificarsi di effetti astrattamente preveduti dalle norme giuridiche".

L’evento estintivo della personalità è allora il cardine del trapasso successorio, mentre le determinazioni volitive che eventualmente lo accompagnano presentano un carattere collaterale ed accessorio, mirando semplicemente ad imprimere una determinata fisionomia alle modalità di trapasso, il quale comunque fa derivare il suo titolo giuridico unicamente dalla volontà dell’ordinamento ricollegata al fatto-evento estintivo: i civilisti, in tal senso, e relativamente al testamento, parlano di una sua azione ed efficacia "correttiva" nei confronti della regolamentazione della successione ex lege.

Ammessa in siffatti termini l’esistenza di un unico genus delle successioni mortis causa, vanno, a questo punto, sottolineati gli aspetti peculiari, che giustificano un esame ispirato a criteri di autonomia, relativamente al fenomeno successorio interessante le persone giuridiche.

In primo luogo, è da notarsi che la sua regolamentazione particolareggiata, seppur sempre contenuta nel codice civile, gode di una sede autonoma rispetto a quella occupata dalle norme in materia di successioni tra persone fisiche: specificamente il codice dedica il titolo secondo del libro I alle persone giuridiche, mentre affida al libro II il compito di regolamentare le vicende successorie inerenti le persone fisiche.

Cosicché, pur, potendosi, in linea di massima, ritenere applicabili, anche alle persone giuridiche, alcuni dei precetti fondamentali del diritto successorio delle persone fisiche, tuttavia il principio di specialità impone il ricorso alla prima fonte per l’esatta regolamentazione della fattispecie in concreto, soprattutto ove sussistano diversità e discordanze tra l’uno e l’altro gruppo di norme.

In secondo luogo, va rilevato che mentre per le persone fisiche lo schema successorio generalmente ricorrente è quello della successione a titolo universale a favore degli eredi testamentari o legittimi, ultimi dei quali lo Stato, per le persone giuridiche, comprese quelle pubbliche, vale invece, in linea di massima, e salvo specifiche eccezioni per taluni settori, il principio della successione a titolo particolare, previa procedura liquidatoria dei beni dell’ente estinto: principio quest’ultimo deducibile sia dalla dottrina prevalente, facente capo al Vignocchi, sia dagli interventi legislativi in tal senso, che, come si vedrà in seguito, dalla giurisprudenza; la successione universale, quindi, rimarrebbe riservata solo a speciali statuizioni desumibili più o meno esplicitamente da particolari regolamentazioni positive.

In terzo luogo, le caratteristiche della successione in universum jus applicata alle persone giuridiche, specificatamente pubbliche, risultano essere assolutamente tipiche e peculiari.

Il fenomeno successorio universale implica, infatti, per i soggetti indicati, un subingresso in un complesso istituzionale unitario, in un ordinamento giuridico, settorialmente o totalmente, già facente capo all’ente estinto. Sennonché, pur in presenza di notevoli analogie, nell’ambito delle persone fisiche lo stesso fenomeno successorio riveste un significato sicuramente più esiguo e limitato: cioè di semplice subingresso nella titolarità di un complesso unitario, al quale anzi, parte della dottrina ha addirittura negato, a demarcare la contrapposizione, lo stesso carattere di universitas.

Da ultimo, ma non per questo elemento di minor importanza, va notato che per le persone giuridiche, a differenza di quelle fisiche, ricorre la possibilità di trapassi successori a titolo universale in una frazione soltanto dell’ordinamento e delle strutture del soggetto originario, senza contemporanea estinzione del soggetto stesso, come accade, per esempio, nelle ipotesi di circoscrizioni di enti pubblici territoriali, con relativa successione nella serie indeterminata di rapporti e situazioni afferenti, però, alla sola parte di territorio trasferito.

 

 

 

 

 

 

§ Segue. Successione fra enti pubblici e fra enti privati: elementi comuni. Successione previa liquidazione: cenni sul rapporto tra le disp. Att. e trans. cod. civ. e la Legge 4\12\1956 n.1404. La successione in universum jus a carattere parziale. L’intrasmissibilità dei rapporti e delle situazioni strettamente personale. L’importanza della normativa civilistica. L’estinzione previo provvedimento formale.

 

 

 

 

Dalle differenze intercorrenti, all’interno del prospettato unico genus delle successioni mortis causa, tra fenomeni successori interessanti le persone fisiche e quelli relativi alle persone giuridiche, si possono dedurre, ora, alcuni motivi fondamentali comuni sia agli enti privati che agli enti pubblici.

Innanzitutto va notato il ruolo fortemente unificante che la norma imperativa in questo settore svolge: infatti, il primo libro del codice civile, nella parte in cui detta norme in tema di persone giuridiche (titolo II, libro I: art.11 ss.), non pone le basi di una rigida distinzione, a fini regolamentativi, tra persone giuridiche pubbliche e private, trattando, anzi, omogeneamente, di entrambi i soggetti: conclusione questa arguibile dalle stesse disposizioni generali, di cui al capo I, titolo II, del libro I, le quali si limitano a definire l’ente pubblico e l’ente privato (art.11 per quanto riguarda le persone giuridiche pubbliche; art.12 per le persone giuridiche private).

Da questa considerazione la dottrina fa discendere un corollario, in forza del quale, le norme sopra segnalate conterrebbero enunciazioni di principi generali valevoli, nonostante la particolare collocazione, oltre che per il diritto privato, anche per quello pubblico, qualora non sussistessero speciali diverse regolamentazioni legislative.

La stessa normativa civilistica, ancora, nel disciplinare la procedura liquidatoria degli enti (art. 27 c.c.per quanto riguarda l’estinzione della persona giuridica; art. 11 ss. disp. att. e trans. cod. civ. per quanto concerne strettamente la procedura liquidatoria), si ispira a ragioni di ordine economico-sociale che sussistono fondamentalmente sia per le persone giuridiche pubbliche che per quelle private.

L’opportunità, quindi, avvertita dal legislatore, di stabilire, attraverso la liquidazione stessa, condotta con criteri di ufficialità, una linea di demarcazione tra le risultanze finanziarie-patrimoniali di un ente ormai esauritosi e le vicende future degli enti successori, nonché l’esigenza di assicurare un pronto soddisfacimento di eventuali ragioni creditorie di terzi, costituiscono i due cardini portanti tanto della disciplina relativa al soggetto pubblico quanto di quella inerente il soggetto privato.

Qualora, poi, si prendesse in esame la portata prescrittiva della legge 4\12\1956 n.1404 ( di cui si tratterà più diffusamente in seguito), recante norme precipue sulla "Soppressione e messa in liquidazione di enti di diritto pubblico e di altri enti sotto qualsiasi forma costituiti, soggetti a vigilanza dello Stato e comunque interessanti la finanza statale", non risulterebbe impresa ardua rilevare la presenza dei due parametri cardine, sopra menzionati, anche in questo specifico settore.

Basti, per il momento, sottolineare come i criteri di ufficialità di cui all’art. 11 disp. att. e trans. cod. civ, norma che centralizza l’autorevole figura del Presidente del Tribunale nella quasi totalità della fenomenologia liquidatoria, si trasfondano già negli ultimi due commi dell’art. 1 della legge n. 1404, laddove, e nell’insieme, prescrivono che "I provvedimenti di soppressione, liquidazione o incorporazione degli enti (ovviamente pubblici), e le relative norme di attuazione sono promossi dal Ministro per il tesoro ed emanati con decreto presidenziale. Alle operazioni di liquidazione provvede il Ministro per il tesoro a mezzo di speciale Ufficio liquidazioni".

Parallelamente, poi, a quanto disposto dall’art. 13 disp. att. e trans. cod. civ. (norma che prescrive l’obbligo per i liquidatori di richiedere agli amministratori la consegna dei beni e delle scritture della persona giuridica, nonché la redazione di un inventario volto a documentare nella sostanza tale consegna), l’art.3 della legge citata, tratta della presa in consegna, da parte del summenzionato Ufficio liquidazioni, sulla base di appositi inventari, delle attività esistenti nonché dei libri contabili e del conto di gestione relativo al periodo successivo all’ultimo bilancio (o dall’ultima relazione economica e finanziaria approvati). Inoltre, per quanto concerne la tutela dei creditori, a fronte del diritto di opposizione di cui al terzo comma dell’art. 14 disp. att. e trans. cod. civ., o del principio di pubblicità del provvedimento di liquidazione e del bilancio finale di liquidazione ex art. 18 disp. att. e trans. cod. civ., professati dalla norma imperativa, la legge n. 1404 dispone di altrettanto efficaci sistemi di garanzia che vanno dal riconoscimento di crediti, effettuato dall’ apposito Ufficio liquidazioni presso il Ministero del tesoro, su domanda degli interessati, alla possibilità, riconosciuta ai creditori ed ai terzi interessati, di ricorso all’autorità giudiziaria, avverso le decisioni del suddetto Ufficio, relativamente ai crediti ammessi o non ammessi alla liquidazione.

Da questo, seppur breve ed esemplificativo, confronto normativo emerge, quindi, quella prospettata esistenza di comuni ragioni economico-sociali sottese alla liquidazione di un ente, sia esso privato o pubblico, ma non solo: sembrerebbe, infatti, giustificabile, alla stregua dello stesso rapporto, anche il primo punto indicato all’inizio del nostro discorso comparativo, cioè quello dell’applicazione delle norme civilistiche anche al particolare settore degli enti pubblici.

Non è frutto di un caso, dunque, il riferimento alla legge 4\12\1956 n. 1404, dal momento che fino dalla sua emanazione, trattando della soppressione di una serie di enti che potremmo definire disparati, nel senso che non determinati erano i referenti delle disposizioni facenti corpo nella stessa legge, ha posto il problema di una analisi circa la natura dell’ente e le conseguenze della sua soppressione.

Senza entrare troppo nel merito della questione, (che involge, tra i propri peculiari aspetti, anche problematiche relative allo schema successorio da adottarsi, universale o particolare, ed al momento estintivo dell’ente, le quali saranno oggetto di una apposita trattazione) va, in tal senso, notato come, mentre alcuni enti, interessati da tale normativa, erano sottoposti essenzialmente alla disciplina civilistica, altri erano di meno sicura sistemazione, occupandosi principalmente o accessoriamente di attività commerciali.

Ciò ha fatto propendere la dottrina, e di riflesso la giurisprudenza, a ritenere che "alle persone giuridiche di diritto pubblico si applicano analogicamente le norme privatistiche, quando la legge sia muta in proposito e non disponga diversamente".

Una asserzione, quest’ultima, sicuramente importante anche sotto un altro profilo. Non può essere, infatti, messo in ombra che, prima dell’entrata in vigore della legge 1404, autorevoli autori, come il Sandulli, avevano sostenuto l’impossibilità di una estinzione previa liquidazione degli enti pubblici, per una prospettata incompatibilità con la normativa civilistica relativa alla liquidazione della persona giuridica privata. Specificatamente, il Sandulli, riteneva che, il caso di estinzione sic et sempliciter dell’ente pubblico senza apposita regolamentazione positiva, avrebbe dovuto qualificarsi come un’ipotesi successoria a favore dello Stato, così come in ogni altro caso di soggetti venuti meno senza eredi.

Sennonché, non soltanto, oggi, la possibilità di liquidazione degli enti pubblici è positivamente prevista, ma addirittura, e peraltro questo già da tempi molto vicini all’epoca in cui il Sandulli scriveva, annoverata tra le possibilità successorie formalmente comuni sia al soggetto pubblico quanto a quello privato.

Seppure, infatti, lo Stato possa talora, ed in via eccezionale, disporre anche per l'acquisizione a suo favore dei beni residui della liquidazione di enti pubblici, laddove, ad esempio, non siano individuabili altri soggetti aventi fini analoghi a quelli dell’ente estinto e a cui la devoluzione dei beni in parola possa essere utile per l’interesse collettivo, rimane comunque il fatto che lo Stato medesimo, per far ciò, né possa prescindere dalla procedura di liquidazione, né "da un provvedimento di autoerogazione, che oltretutto differenzierebbe, anche sotto tale aspetto, la forma di acquisizione in parola da quella della successione automatica di cui all’ art. 586 c.c.": un esempio, in proposito, è rinvenibile nei testi legislativi che hanno sancito, in seguito all’abbattimento del regime fascista, la soppressione del P.N.F. e la devoluzione dei relativi beni allo Stato; precisamente l’art. 10 del R.D.L. 2\8\1923 n. 704 dispone tale translatio esclusivamente per "le attività residuate" dalla liquidazione del patrimonio dell’ente soppresso.

Detto ciò, la rassegna degli elementi comuni, caratterizzanti il fenomeno successorio nell’ambito delle persone giuridiche (sia private che pubbliche), può riprendere da considerazioni, in un certo senso, più specifiche ed attinenti alle problematiche che verranno analizzate in seguito. Segnatamente, potremmo parlare, di altri (oltre, cioè, alla già menzionata collocazione di entrambi i soggetti nel titolo II, del libro primo del codice civile; alla possibilità, di cui sopra, di liquidazione tanto di un ente privato quanto di un ente pubblico; e all’esistenza, ricordata anch’essa, di ragioni di ordine economico-sociale comuni, sottese alla procedura di liquidazione) quattro punti di coesione fondamentali:

 

  1. Diversamente da quanto avviene per le persone fisiche, dove, come s’è segnalato, non è pensabile un semplice frazionamento e una estinzione parziale, per la persona giuridica, sia essa pubblica o privata, può verificarsi una successione in universum jus a carattere parziale, ossia con riferimento a una frazione soltanto del complesso patrimoniale e dell’ordinamento giuridico dell’ente originario.

Si ritiene che tale fenomeno, maggiormente ricorrente per gli enti pubblici territoriali (intendo riferirmi alle modificazioni territoriali di cui all’art.11 della L. 8 giugno 1990, n. 142), possa trovare applicazioni anche per ogni altro tipo di ente pubblico o privato a fondamento corporativo o istituzionale, ogni qualvolta, "anziché trovarcisi di fronte a una cessazione pura e semplice dell’ente stesso o a una sua disintegrazione totale, si assista invece ad un semplice rimpicciolimento del suo apparato (disposto in via autoritaria o preveduto attraverso manifestazioni di volontà dell’ente) con conseguente originarsi di persone giuridiche nuove e con aggregazioni delle parti distaccate ad altri soggetti preesistenti": ciò, implicherebbe, infatti, una successione in una universitas di rapporti pertinenti ad un intero settore dell’ordinamento del soggetto originario e non di certo in singole situazioni concrete ed isolate, pur non avendosi una acquisizione totale, da parte del nuovo ente, delle strutture già proprie del predecessore.

In relazione a tale evenienza, la dottrina si è, poi, posta un problema assai delicato: stabilire, cioè, se l’ente o gli enti successori in via parziale, subentrino nelle ragioni attive e passive dell’ente originario, per quote ideali di una communio pro-indiviso, così come accade nell’ambito della successione civilistica (dove solo per i rapporti obbligatori è sancito il principio della divisione automatica, ma sempre in quote proporzionate dell’intero credito o debito), o, invece, con riferimento a parti, ben determinate in concreto, del patrimonio stesso.

Il quesito non può che essere risolto se non tenendosi presenti le particolari caratteristiche della successione tra enti pubblici, che non consiste soltanto in un rilievo di attività e passività, ma anche e soprattutto in un subingresso in complessi istituzionali e in strutture organizzative funzionali. Ne consegue che, "sotto un profilo patrimoniale, la successione parziale nei confronti di una persona giuridica che non si estingua, involge, in linea di massima, non tutti i rapporti giuridici - e le conseguenze economiche già facenti capo all’ente originario - bensì quelle soltanto che con le strutture trasferite sono strettamente e stabilmente collegate".

Un principio, quest’ultimo, che trova riconoscimento anche da parte di un autorevolissimo autore quale il Romano, che, trattando nella specie di persone giuridiche territoriali, afferma la stretta corrispondenza fra trapassi territoriali e successione in tutti i beni demaniali insiti nelle zone trasferite, nonché, di massima, in quei beni patrimoniali stabilmente destinati alla organizzazione e alla vita dei gruppi sociali che insistono nei territori stessi. Tale paradigma, peraltro, troverebbe, secondo lo studioso, il proprio referente genetico nel diritto internazionale: per la successione tra Stati, infatti, nel caso di annessioni parziali, si ritiene, dai più, che siano oggetto di trasmissione quei rapporti suscettibili di una localizzazione nel territorio trasferito, anche se non sempre regni l’accordo sulla formula precisa di tale trapasso.

Quanto sopra, comunque, può trovare applicazione applicazione, seppur con qualche inevitabile modifica, anche per gli enti pubblici non territoriali corporativi o istituzionali, nei quali si assiste analogamente a passaggi di strutture organizzate, di uffici e di raggruppamenti, che trascinano con sé anche il complesso delle situazioni patrimoniali attive e passive con esse collegate.

Nota, però, la dottrina come, in tutti questi casi, occorra scindere i fenomeni di semplice distacco parziale di strutture dell’ente originario dalle ipotesi di estinzione totale del medesimo, con trasferimento dei gruppi strutturali che lo componevano, a più successori: qualora, infatti, si verificasse questa seconda evenienza, il principio del subingresso nelle situazioni e rapporti, per così dire, localizzati, pur rimanendo solido ed operante, dovrebbe essere necessariamente integrato, almeno per quanto concerne il diritto pubblico interno, con l’altro della successione pro-quota in tutti i rapporti generali ed indivisibili. La assegnazione delle rispettive quote potrà essere fatta con criteri di vario ordine, determinabili per convenzione tra gli enti interessati nella successione o per iniziativa dell’autorità tutoria e in misura, in genere, proporzionata alla consistenza delle strutture rispettivamente utilizzate.

 

 

 

b)La successione universale tra enti (pubblici o privati) trova un proprio limite in quei rapporti e situazioni già ricollegati alla persona giuridica estinta a titolo strettamente personale. Per converso, la stessa successione in universum jus implica non solo un trapasso in una generalità di rapporti, ma anche in un intero ordinamento giuridico concepito come complesso istituzionale e normativo.

Quest’ultimo, che seppur in forma embrionale trova posto anche nelle persone giuridiche private, rimane sempre utilizzabile, più o meno integralmente, nell’ente successore, attorno alla cui persona esso si polarizza, almeno sino a che quest’ultimo non provveda a regolare, in modo diverso ed autonomo, l’attuazione e la manifestazione dei rapporti giuridici caduti in successione.

 

 

 

c) In ogni caso di successione tra persone giuridiche (pubbliche o private), l’autorità amministrativa, o quella giudiziaria che eventualmente fosse chiamata a decidere su determinate controversie insorte, non può prescindere del tutto dall’applicazione delle norme generali dettate dal legislatore civile in tema di successione delle persone giuridiche e, in quanto compatibili, neanche da quelle relative alle persone fisiche.

Seppure, infatti, l’autorità amministrativa gode di poteri discrezionali nella regolamentazione dei rapporti successori interessanti gli enti pubblici, va, comunque, rilevato che tali potestà, non potranno mai derogare la materia successoria nella sua essenza, applicando, ad esempio, principi della successione a titolo singolare, quando ricorrono invece gli estremi per una successione in universum jus, o viceversa.

La discrezionalità, quindi, sta non nei risultati a cui si deve mirare, ma solo eventualmente nei mezzi e negli esperimenti per giungervi.

Anticipando fin da ora, però, quel che in seguito verrà documentato con la giurisprudenza, va precisato che l’intero discorso talvolta diviene relativo, stante le numerosi leggi speciali, che con una normativa di dettaglio superano tale postulato.

 

 

 

d) Diversamente da quanto avviene per le persone fisiche, dove la morte del de cuius costituisce il fatto-evento naturale, in seguito al quale si originano le conseguenze successorie, per le persone giuridiche (pubbliche o private) è, invece, necessario, allo scopo, anche un provvedimento formale.

Quest’ultimo, che può essere frutto del potere legislativo od esecutivo, anche nei casi in cui si limiti a prendere atto di una estinzione già avvenuta, indipendentemente, cioè, da iniziative di soppressione in via autoritaria, rappresenta, pur sempre, un elemento costitutivo, almeno sotto il profilo formale, delle fattispecie estintive.

Prima di questo momento, quindi, l’ente originario non può dirsi ancora venuto meno, né, conseguentemente, la successione può considerarsi giuridicamente aperta.

Da siffatta considerazione emerge un elemento centrale nel nostro discorso: la rilevanza del momento estintivo, a cui sarà dedicata una apposita trattazione, essendo innumerevoli, come è ovvio che sia, i corollari che la giurisprudenza fa discendere dalla effettiva determinazione temporale dell’estinzione dell’ente.

 

 

 

 

 

 

§ Successione fra persone giuridiche in genere e successione fra enti pubblici: un rapporto da genus ad speciem. La teoria del Vignocchi. La decisione del Consiglio di Stato 21\12\1992 n.1539.

 

 

 

Le affermazioni sopra riportate non significano, comunque, rinuncia ad una costruzione dommatica della successione pubblicistica su basi autonome, ma piuttosto costituiscono le ragioni che hanno fatto dedurre, dall’esistenza di un principio unitario che collega tutti i fenomeni successori in genere, la sussistenza di un unico genus successorio interessante le persone giuridiche, di cui la categoria dei trapassi per estinzione tra enti pubblici rappresenta una species.

Considerazione quest’ultima tutt’altro che infruttuosa in un sistema giuridico che ancora ai nostri giorni stenta a riconoscere l’esatto punto di confine tra successione di diritto pubblico e quella di diritto privato.

Sintomatica di questa perplessità, dal momento che si è dovuto ricorrere alla pronuncia di un giudice, ma nello stesso tempo molto lucida, ai nostri fini conclusivi, mi sembra la sentenza del Consiglio di Stato 21\12\1992 n.1539.

La questione che viene sollevata dinanzi al giudice amministrativo attiene alle vicende successorie che si sono verificate in seguito alla istituzione del Servizio sanitario nazionale: precisamente, data per pacifica la translatio a titolo di successione universale nella sfera giuridica dell’Unità sanitaria locale dei rapporti posti in essere e degli atti adottati dai già esistenti Enti ospedalieri, si chiedeva al Consiglio di Stato di verificare se, insieme al trasferimento dei rapporti, si fosse costituito in capo all’Amministrazione succedente il potere di emanazione degli atti inerenti a situazioni anteriori al trasferimento stesso.

Senza avventurarci nel merito della causa , basti qui considerare che un siffatto "quesito" ha costituito l’occasione per definire e puntualizzare una importante distinzione: "Le regole sulla successione tra Enti pubblici si discostano da quelle proprie del diritto privato, atteso che il soggetto privato si colloca nel sistema come centro d’imputazione dei rapporti giuridici (capacità giuridica) e la sua facultas agendi è collegata e conseguente alle titolarità e si pone come attività di gestione delle stesse, mentre la soggettività pubblica esprime un riferimento prevalentemente funzionale, e si pone come centro di riferimento di attribuzioni e poteri, rispetto ai quali l’idoneità ad essere titolare di rapporti è di norma secondaria e strumentale".

Tale principio è stato così motivato in diritto: "Trattandosi, nella specie, di giudicare sul trasferimento di poteri pubblici, e per di più da esprimersi con atti discrezionali, sembra incongruo il riferimento ai principi civilistici sulle successioni universali; va invece verificato se è coerente con il sistema, quale delineato con le norme regolanti l’istituzione del Servizio sanitario nazionale, considerare trasferiti ai nuovi Organismi i poteri già spettanti agli Enti che svolgevano i propri compiti in campo sanitario e relativi a vicende e situazioni anteriori al passaggio delle funzioni. E’ determinante, al proposito, riconsiderare le già indicate esigenze di continuità, nonché di tutela del dipendente, unici argomenti la cui rilevanza risulti compatibile con l’impostazione sistematica del problema in oggetto. Concepire quindi la successione tra Enti pubblici come fenomeno prevalentemente riferito ad un trapasso di titolarità costituisce un punto di vista illogico ed asistematico".

Diversamente da ciò che potrebbe apparire prima facie, la decisione del Consiglio di Stato non sembra rompere quel rapporto di genus ad speciem intercorrente fra successioni interessanti le persone giuridiche in genere e i rapporti successori relativi agli enti pubblici; anzi, ritengo che l’utilizzo dello stesso avverbio "prevalentemente" volto ad escludere che il fenomeno della successione tra enti pubblici si identifichi totalmente in un mero trapasso di titolarità, in qualche modo suffraghi la stessa relazione di specialità.

Assunta per vera tale considerazione, ben si comprendono allora le parole del Vignocchi, che, occupandosi della questione in parola, dice: "Ammettere l’esistenza di un’unica categoria successoria concernente le persone giuridiche, di cui la categoria della successione fra enti pubblici costituisce una species, implica il riconoscimento dell’esistenza di alcuni principi fondamentali comuni, ma non importa nessun asservimento ai principi privatistici, secondo criteri che segnerebbero una involuzione e un ritorno a tempi ormai superati e che caratterizzarono necessariamente il primo enuclearsi delle scienze pubblicistiche".

Mi sembra, quindi, che il pensiero dell’Autore e le argomentazioni del Consiglio di Stato siano legati da una comune ratio: presupposta l’esistenza di un unico genus successorio esistono comunque degli elementi caratteristici della species successoria interessante gli enti pubblici che costituiscono un discrimen ontologico ed invalicabile.

Alla luce di quanto detto, illuminata ritengo che sia l’elencazione (ovviamente non tassativa) di questi ultimi operata dallo stesso Vignocchi. In primo luogo lo studioso parla di una maggior frequenza, diversamente da quanto accade nel settore delle persone giuridiche private, di trapassi a titolo universale, il che trarrebbe la sua origine e giustificazione dalla particolare esigenza che non di rado si manifesta, nel campo del diritto pubblico, di non disperdere complessi strutturali e organizzativi socialmente utili ed idonei ancora al perseguimento di finalità collettive. In secondo luogo definisce come prevalente la regolamentazione in via eteronoma ed autoritaria, operata assai spesso attraverso appositi interventi legislativi, nella determinazione delle modalità di estinzione degli enti e dei particolari principi successori da applicarsi di conseguenza.

In terzo luogo, ed in stretta correlazione con ciò che si è appena affermato, rileva la minor forza, ai medesimi fini, delle manifestazioni di volontà statuarie ed assembleari, che talora sono prese in considerazione, con valore di pure proposte da presentare alle autorità governative per l’emanazione successiva di provvedimenti di estinzione e modificazione degli enti.

Da ultimo, constata la possibilità e necessità d’integrazione delle norme generali contenute nel titolo secondo, libro primo, del codice civile, con norme e principi attingibili dal diritto pubblico (ciò dovrebbe avvenire, per esempio in materia di proprietà demaniale, di crediti di imposte, di prescrizioni, di manifestazione di poteri di autarchia in genere) ed anche, sotto certi aspetti, con principi attinti, entro certi limiti, e con cautela, dal diritto internazionale o addirittura dall’ambito delle esperienze sociali e delle norme equitative.