Poteri dei privati e statuto della proprietà.
Riflessione dottrinale e law in action  in  un recente libro.

di Giacomo Viotti
Dottorando di ricerca in diritto privato 
nell'Università di Pisa

 

1. Premessa.

Perché un’antologia sulla proprietà  (G. Alpa, M. Bessone, A. Fusaro (cur.), Poteri dei privati e statuto della proprietà, SEAM, Roma , 2001)?

L’interrogativo sorge spontaneo, in un’epoca in cui l'attenzione verso questo tema sembra allentata  rispetto a qualche tempo addietro, e anche i contributi dottrinali paiono diradarsi. La giurisprudenza, per il vero, continua ad occuparsene, a dimostrazione di un contenzioso non sopito, e di una conflittualità sempre accesa intorno a tradizionali questioni.
La proprietà non si identifica più soltanto con quella fondiaria, e le numerose disposizioni del codice civile che evocano un’economia rurale appaiono poco sincrone rispetto al dato economico attuale, in cui l’interesse è catturato dalle new properties.
Alcune voci denunziano il tramonto della proprietà, non più in nome della collettivizzazione, o della redistribuzione secondo criteri di equità e giustizia, quanto piuttosto in ragione di un nuovo atteggiarsi del rapporto con i beni. Il pensiero corre verso il libro di Jeremy Rifkin, intitolato per l’appunto “L’era dell’accesso”, in cui  la proprietà viene messa a dura prova di fronte a beni soggetti a precoce obsolescenza. L’accesso implica il pagamento di una sorta di pedaggio, commisurato all’utilizzo del bene, che tuttavia non viene acquistato. La stagione di internet, poi, ha varato nuovi strumenti per la circolazione di beni e servizi, che consentono anche l’acquisizione gratuita di rilevanti informazioni o banche dati.
Non possono neppure sottovalutarsi quelle tendenze, provenienti soprattutto dagli Stati Uniti, animate da uno spirito fieramente avverso alla remunerazione economica del diritto d’autore, specie se avente ad oggetto prodotti in rete. La libertà di copiare propugnata dall’etica hacker sta progressivamente prendendo il sopravvento sulla logica proprietaria, anche perché sovente rappresenta la via per giungere a migliori parametri di efficienza. Un futuro travagliato potrebbe attendere anche le case farmaceutiche, in crisi perché la titolarità esclusiva dei loro brevetti sempre più di frequente avverte il peso dell’incoerenza rispetto ai tempi. Nell’aprile del 2001 un’opinione pubblica nettamente ostile le ha indotte a ritirare l’azione giudiziaria che era riuscita fino a quel momento ad impedire l’utilizzo a basso costo da parte della popolazione sud africana di farmaci anti – Aids. Dopo l’11 settembre, e l’inizio della guerra batteriologica, l’intervento del Presidente Bush ha indotto la Bayer a dimezzare il prezzo dell’antibiotico contro l’antrace.
E allora, qualcuno potrebbe avere ragione di domandarsi,  perché un’antologia sulla proprietà? Perché una riedizione di un’opera nata e concepita più di venti anni fa, quando l'attenzione verso questi temi era ben più pronunciata?
Ripercorrendo il contenuto di quest’antologia il dubbio viene fugato.
Preliminarmente sembra necessaria una puntualizzazione, per contestualizzare l’opera all’interno della produzione letteraria di questi ultimi anni sul diritto di proprietà. La dottrina continua ad indagare questo composito universo, e lo dimostrano – tra l’altro – i numerosi contributi raccolti nell’antologia, molti dei quali di recente conio. La visuale, tuttavia, - e questo è innegabile – è diversa da quella di qualche decennio addietro. Si è notevolmente attenuata la tensione politica e sociale, e si privilegiano altri profili: da un lato, si ritornano ad affrontare i  tecnicismi, sensibilmente acuiti specialmente a seguito della sempre più copiosa normativa edilizia; dall’altro, si apprezzano aperture verso le esperienze straniere, e si dimostra sensibilità anche per le discipline economiche, e per le loro applicazioni al diritto di proprietà. I riferimenti al diritto comparato ed all’analisi economica del diritto, in particolare, rappresentano quasi un leit motiv e, lungi dall’essere circoscritti ai due capitoli del primo volume ad essi specificamente dedicati, sono costanti e frequenti nel corso di tutta l’opera.
Quest’antologia si colloca nel solco di una tendenza che negli ultimi anni sembra avere riscosso notevole successo. La predisposizione di opera maxima aventi ad oggetto il tema della proprietà coincide con la monografia di Antonio Gambaro del 1995, edita all’interno del Trattato Cicu – Messineo, cui ha fatto seguito quella di Ugo Mattei del 2001, nell’ambito del Trattato Sacco: entrambe, oltre a rappresentare un punto di approdo ad esito di lunghi anni di studi, costituiscono senza dubbio significative testimonianze della perdurante riflessione, e delle molteplici angolature sotto le quali la proprietà viene riguardata. Nella prima opera si avverte una forte attenzione, oltre che per le spigolature più acute del diritto positivo, anche per il diritto comparato. La seconda riflette in pieno l’impostazione e la formazione dell'Autore, che coltiva l’analisi economica del diritto, ed in particolare l’applicazione dei suoi teoremi ai diritti reali, come testimonia anche  il saggio – apparso nel 2000 per i tipi della Greenwood Press – intitolato Basic Principles of Property law. A Comparative Legal and Economic Introduction.

 

2. Il contenuto dell’opera ed il suo metodo.

Non è opportuno anticipare i contenuti dell’opera e trarre le fila del discorso, interrogandosi sull’attualità del contenuto e sui rapporti che la legano con la precedente edizione: si tratta di spunti che si tenterà di proporre in chiusura, nel corso dell’ultimo chilometro di quello che si preannuncia un affascinante viaggio.

Alcune anticipazioni generali sembrano tuttavia doverose.

Nei due volumi non ci si limita ad effettuare una ricognizione delle questioni classiche intorno alle quali ruota la materia, come la funzione sociale e l’evoluzione storica, che pure vengono puntualmente affrontate,  ma sono rischiarati orizzonti meno consueti, e si sollecita la curiosità del lettore per gli sviluppi che attendono di essere esplorati. Sebbene si tratti di un’antologia, non ci si limita ad offrire una fotografia dello stato dell’arte, come sarebbe confacente ad un siffatto genere letterario (e comunque dall’osservatorio in cui i Curatori hanno saputo collocare il lettore si gode di un panorama davvero vasto), ma si esprime  una palese opzione metodologica.
Molti echi politici e sociali si sono persi lungo il cammino, e fin da una prima lettura risalta una nuova impostazione, più marcatamente tecnica, alimentata da un accresciuto ricorso alla comparazione ed all’analisi economica del diritto. E’ un felice connubio, peraltro già auspicato da Antonio Gambaro nelle pagine introduttive della sua Opera: una completa messa a punto della materia reclama l’emancipazione da quella che viene definita “letteratura dei raccontini”, per concentrarsi sul diritto positivo. D’altra parte, si avverte anche l’insegnamento di Ugo Mattei, che negli ultimi dieci anni ha firmato numerosi studi sulla proprietà e sui profili connessi alla sua analisi economica, sempre con un occhio attento alle esperienze d’oltre confine. 

Poteri dei privati e statuto della proprietà” ha quindi recepito i suggerimenti più freschi: si presenta come un prodotto originale e, per molti versi, nuovo rispetto alla precedente edizione. L’impalcatura che sorreggeva quest’ultima era di ispirazione più marcatamente concettuale: il primo libro era incentrato sulla definizione dell’oggetto dell’indagine, e sui limiti al godimento del diritto imposti dalla legge; il secondo ripercorreva la parabola storica che ha interessato la proprietà, transitata da diritto sacro e inviolabile, come era definita nello Statuto Albertino, a rapporto economico e sociale, che come tale deve conformarsi ad una superiore utilità. Alla funzione sociale era dedicato ampio spazio, ed erano riportati numerosi brani di giuristi di formazione sia pubblicista sia privatista, nonché i commenti spesi a margine delle celebri sentenze della Corte Costituzionale che negli anni sessanta e settanta hanno acceso il dibattito intorno ai temi dell’edificabilità dei suoli e dell’indennizzo da liquidarsi in caso di espropriazione. Il terzo tomo, infine, era dedicato alle questioni più strettamente urbanistiche, e conteneva una compiuta analisi del Decreto Nicolazzi e della Legge Buccalossi, con riferimenti anche ai programmi di Edilizia Residenziale Pubblica e al recupero del patrimonio edilizio.

Oggi i volumi si sono ridotti a due. Il primo ha ad oggetto la nozione del diritto di proprietà e la sua rilevanza costituzionale, mentre il secondo affronta la materia dal punto di vista del codice civile e dalle leggi speciali. La scelta di intervenire sull’impianto dell’originaria stesura mediante l’inserzione di paragrafi nuovi, rende perfettamente conto dell’evoluzione che ha interessato la materia, e consente di operare un raffronto immediato con il precedente stadio, registrandone le mutazioni. Laddove, invece, interi capitoli si sono dovuti sostituire o parzialmente sopprimere, si evidenzia un quadro completo della disciplina attuale, in cui peraltro non mancano riferimenti alle questioni sorte in passato, dalle quali è scaturita l’attuale regolamentazione. La scansione del campo di indagine a seconda della fonte, di rango costituzionale o di legge ordinaria non importa una cesura netta: i due tomi sono legati da un filo unitario, quasi trasversale rispetto alla legge regolatrice, che delimita il campo di indagine e contribuisce a definire l’attuale latitudine del diritto di proprietà.

Il genere antologico, forse oggi ingiustamente ritenuto demodé, offre una sorta di rappresentazione scenica, animata da una pluralità di protagonisti. Vengono riportati brani di sentenze, quando non addirittura decisioni intere, e materiali ad uso degli operatori pratici (quali modelli di regolamenti di multiproprietà o di convenzioni di lottizzazione).

Quando, poi, ci si immerge nella lettura dei "classici", non si compie solo un esercizio intellettuale fine a se stesso, ma - come insegnava Cicerone nella Pro Archia – si gode di un momento di otium in funzione ed in preparazione del negotium: quest'antologia, in altre parole, non si presenta solo come un'opera letteraria, ma pure quale inventario di problemi, di casi e questioni.

 

3.1 Il primo volume della nuova edizione: l’impresa di fornire una definizione del diritto di proprietà.

In apertura del primo libro si prova ad offrire una definizione del diritto, pur nella consapevolezza dell’estrema difficoltà di racchiudere il concetto in una visione unitaria. "Proprietà" è termine polisemico, che attiene ad una pluralità di discipline, e che assume diverse connotazioni anche in dipendenza delle varie condizioni politiche e sociali.

L'opera privilegia ovviamente il punto di osservazione del giurista, il cui compito "deve consistere, in primo luogo, in un contributo di chiarezza, anche se vi è la consapevolezza, ormai da lungo tempo acquisita, che non può esistere una nozione di diritto di proprietà univoca e schematica, immutabile nel tempo e nello spazio” (p. 10). Si susseguono le diverse prospettive del filosofo del diritto, attraverso le pagine di Giovanni Tarello, del privatista, che riconduce la proprietà alla libertà e alla tutela della persona (Pietro Rescigno), ovvero che la osserva alla stregua del più importante tra i rapporti giuridici (Mario Costantino); del pubblicista, che regista l'emancipazione della nozione di proprietà da quella costituzionale (Antonio Baldassarre).

A questi contributi, in parte già presenti nella prima edizione, ne vengono affiancati altri, volti ad illustrare la nozione tratta dalla giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo. I casi riportati sono indicativi dell'inclinazione ad incrementare la tutela del diritto. Sono riportati (p. 22) due casi relativi alla determinazione dell'indennizzo a seguito di esproprio, i quali non erano stati decisi in tempi ragionevoli da parte dei giudici svedesi. In un'altra fattispecie (p. 25) si discuteva della legittimità di una normativa di favore per l'enfiteuta, che i giudici hanno ritenuto di discrezione delle singole legislazioni nazionali, in quanto rientranti nella nozione di "pubblica utilità".

La ricerca di una definizione deve scontare l’impatto con le  new properties. Alla preoccupazione di Giorgio De Nova, secondo il quale siamo ancora abituati a ragionare con il parametro delle vecchie res, cosicchè "non esiste una teoria generale unitaria dei beni, che sia in grado di recepire le new properties", fanno da contraltare le analisi di Stefano Rodotà ed Antonio Gambaro. Il primo sposta l'attenzione su alcuni casi particolari di new properties: "quando è in questione la tutela dell'ambiente o il rispetto del corpo, sempre meno si può far ricorso alle tecniche di conciliazione tra contrapposte categorie d'interessi, divenendo centrale il problema dei limiti dell'appropriazione, vale a dire delle categorie di beni le cui regole d'uso non possono essere quelle della proprietà privata" (p. 35). Il secondo allarga l'orizzonte sul fenomeno dei nuovi beni, che "si manifesta con particolare intensità nel settore delle creazioni intellettuali e delle informazioni che esse contengono, ma non sono da trascurare anche altri fenomeni quali quelli relativi a forme immateriali di sfruttamento dello spazio" (p. 38).

 

3.2 Diritto comparato ed analisi economica quali tasselli di un mosaico composito.

L’indagine rimane aperta, e pure la multiforme varietà delle definizioni del termine, come dimostrano i due capitoli del primo libro (rispettivamente il secondo ed il terzo) dedicati alla comparazione ed all’analisi economica del diritto, al cui interno si ritrovano qui molti apporti nuovi.

Nel secondo capitolo si segnala la difficoltà di trovare un omologo del termine “proprietà” negli ordinamenti stranieri, anche a causa dell’anfibologia semantica nel nostro sistema, e della conseguente difficoltà di traduzione. Property, propriété ed Eigentum designano una categoria certamente nota nelle sue linee di fondo, ma dotata sempre di aspetti peculiari.

Le difficoltà in cui si imbatte il giurista interno che ricerchi una traduzione del termine "property" sono palesate da Giovanni Pugliese, il quale sottolinea le differenze che intercorrono con la nostra proprietà, e la duplice accezione di property, intesa ad un tempo quale diritto e bene (p. 45). Anche Antonio Gambaro (nel saggio di cui è proposta una sintesi) mette in guardia dai fraintendimenti in cui si può incorrere con la traduzione: questa richiede necessariamente un preventivo processo di omologazione, che non sempre è percorribile; in Common Law, ad esempio, si apprezza una differenza tra real property e personal property, che intercorre soprattutto sulla base della prospettiva rimediale (p. 57). La retrospettiva storica può chiarire aspetti che altrimenti rischierebbero di rimanere nella penombra: un esempio di questo metodo è fornito dalla produzione scientifica di Maurizio Lupoi, ed in particolare dalla prima parte della monografia "Appunti sulla real property e sul trust nel diritto inglese", ripercorsa a p. 53 e segg..

L'esperienza francese è affidata innanzitutto al sunto della monografia di Anna De Vita (p. 66). Nell'art. 544 del Codice Napoleonico il termine "proprietà" è sinonimo di libertà, ma l'evoluzione dello Stato moderno implica il predominio del diritto pubblico su quello privato: ne è derivata una frattura tra titolarità ed esercizio del diritto di proprietà, e la riemersione della distinzione medioevale tra dominio utile e dominio eminente. I limiti vengono allora inquadrati sullo sfondo della funzione sociale, rimarcata dalla giurisprudenza fin dalla prima metà del secolo XIX, e poi dal formante legislativo con l'introduzione di numerosi vincoli pubblicistici. Anche Albina Candian ha contribuito ad una definizione della propriété, ripercorrendone la storia dal punto di osservazione dei limiti, mentre Antonio Gambaro nella prospettiva dello ius aedificandi. In Francia la nozione di proprietà non è quella offerta dalla definizione del codice civile, ma si identifica in quella proposta dalla dottrina. I limiti, in realtà, erano già contenuti a livello costituzionale, ma in Francia si è sempre registrata una certa noncuranza della Carta Costituzionale. Il ruolo di garanzia verso le incursioni della Pubblica Amministrazione è stato assunto dal Consiglio di Stato, in rapporto alle norme sull'espropriazione per pubblica utilità.

Non potevano mancare riferimenti al sistema tedesco, riprendendo la voce di Barbara Pozzo, e poi all'esperienza statunitense, anch'essa feconda di spunti utili per una puntuale definizione dell'universo della proprietà. Si propone un brano di Anna De Vita in cui si approfondisce il significato della taking clause, nell'ambito dell'esproprio dei terreni per finalità pubbliche. Essa fu interpretata in modo progressivamente sempre più esteso, e ciò comportò un'accezione più ampia del termine "property", intesa come riferibile non più solo "alla cosa materiale, alla terra, ma al complesso dei diritti reali minori (servitù, leases, restrictive covenants) gravanti sulla proprietà" (p. 92).

L'analisi prosegue osservando la prospettiva rimediale.

La tutela dalle immissioni in common law è approfondita da Antonio Procida Mirabelli Di Lauro: è curioso notare come la tutela nei confronti di queste ultime, nell’ambito del Common Law inglese, sia affidata essenzialmente al tort di public nuisance, specialmente ove le immissioni pregiudichino l’integrità psico – fisica e la sicurezza dei cittadini, mentre pare meno utilizzata l’action di trespass to land, rimedio di natura possessoria e di portata più ristretta. Per il raffronto tra l'esperienza francese e quella italiana ci si è affidati ad un saggio di Giovanna Visintini, in cui si avverte una particolare attenzione per i profili connessi alla tutela dell'ambiente (p. 100).

L'analisi dei rapporti tra azione inibitoria ed injunction nella Common Law si rinviene nella monografia di Aldo Frignani, da cui sono state tratte alcune pagine attinenti al profilo storico (p. 109). Si ripropongono inoltre alcune pagine della monografia di Silvia Ferreri, dedicata alle azioni reipersecutorie, da cui traspare un'accurata lettura della giurisprudenza in ottica comparativa, secondo l'auspicio di chi ritiene che l'evoluzione degli ordinamenti giuridici possa trarre beneficio anche dalla considerazione della giurisprudenza straniera.

L'istituto del trust, che comporta un effetto segregativo della titolarità del bene rispetto all'amministrazione, è indagato attraverso le pagine dei suoi più insigni studiosi italiani: innanzitutto Maurizio Lupoi,  che avverte le difficoltà che si presentano al giurista continentale, troppo incline ad un parallelo con gli istituti di diritto interno. La condizione dei beni costituiti in trust è illustrata da Michele Graziadei e Bernard Rudden, secondo i quali "la ricchezza costituita dal patrimonio fiduciario appartiene ai beneficiari della gestione. Rispetto a questo patrimonio essi vantano posizioni soggettive di varia natura, e di diverso valore, le quali costituiscono poste attive nello stato patrimoniale di ciascuno dei beneficiari della gestione" (p. 124).  

Un ricco paragrafo è riservato ai sistemi di pubblicità del trasferimento della proprietà. Rodolfo Sacco, circoscrivendo il campo di indagine alla circolazione dei beni mobili, suddivide i principali sistemi giuridici a seconda che richiedano un solo elemento (il consenso, ovvero la consegna), oppure più requisiti (consenso e consegna, ovvero consenso e causa). Egli nota quindi una distonia tra la soluzione abbracciata dal diritto romano, che richiedeva la consegna e la volontà di alienare, ed attribuiva alla causa un rilievo marginale, e la disciplina in vigore attualmente in Italia, per cui sono necessari il consenso e la causa. Il brano si diffonde nella ricerca di una giustificazione per questo mutamento, e prende le mosse dal diritto comune (p. 125). Il versante della pubblicità immobiliare è stato invece affrontato da Luigi Moccia, dalla cui monografia "Figure di usucapione e sistemi di pubblicità immobiliare. Sistemi di diritto privato europeo"  è stato tratto il quarto capitolo, riferito al sistema inglese (p. 136).

Si anticipa un tema che verrà poi ripreso nel secondo capitolo del secondo volume. Si tratta del numero chiuso dei diritti reali, qui riguardato in un'ottica comparatistica attraverso la lente di Andrea Fusaro, che in un recente saggio ha addotto numerose argomentazioni a sostegno dell'opinione per cui il principio del numero chiuso dei diritti reali non sarebbe esclusiva dei sistemi di civil law, essendo avvertito anche nella common law, e trovando in certa misura supporto anche in considerazioni di indole economica (p. 140).    

Anche l’analisi economica del diritto apporta il proprio contributo. Essa implica una diversa allocazione dei property rights, ad opera del giudice, il quale nella sua interpretazione dovrà considerare anche i parametri di efficienza. Ugo Mattei fonda la propria concezione della proprietà sulla base del fondamentale obiettivo della lotta agli sprechi. Muovendo dal presupposto per cui le norme dettate in materia di proprietà rivestono natura dispositiva, cosicchè costituiscono un programma di allocazione delle risorse intorno a cui le parti possono negoziare soluzioni alternative più efficienti, l'Autore ricava il principio per cui è necessario che ciascun consociato sopporti i costi che derivano dalla propria azione. Solo in questo modo la proprietà privata può armonizzarsi con la prescrizione costituzionale della funzione sociale (p. 159).

L'importanza dell'applicazione del paradigma economico allo studio del diritto è sottolineato anche nell'introduzione al saggio di Calabresi, The Pontlessess of Parets: Carrying Coase Further, che Ugo Mattei ha scritto insieme con Luisa Antoniolli Deflorian: "l'analisi economica è ben più che una semplice moda, è un modello analitico che, attraverso l'uso interdisciplinare di strumenti forniti da varie branche del sapere (economia, matematica applicata, statistica, econometria, ecc.), permette al giurista di compiere analisi descrittive e prescrittive di grande rigore, che possono fruttuosamente affiancarsi alle tradizionali tecniche ermeneutiche giuridiche" (p. 189).

Pier Giuseppe Monateri ha approfondito questi aspetti, ravvisando un'inconciliabilità di fondo tra analisi economica e diritto, in quanto "i giuristi pretendono di derivare le regole dai precedenti o dalle norme legislative, e di giustificare queste regole indipendentemente dai risultati concreti e particolari cui esse conducono" (p. 181).

Il bilancio finale è lasciato alla penna di Roberto Pardolesi, autore della voce "Analisi economica del diritto" per il Digesto IV, qui parzialmente riprodotta (p. 205). L'EAL non è in grado di offrire risposte certe, ma induce a porre domande: questa è la più sicura acquisizione, che non può essere giudicata di poco momento.

Attraverso la lettura delle osservazioni di Adolfo Di Majo si recuperano riferimenti agli intrecci tra analisi economica e property rights. La prospettiva rimediale fornisce al privato il servizio più efficiente: "dovrà così distinguersi se la regola di tutela abbia per scopo o finalità di garantire al soggetto l'appartenenza o la fruizione di beni o utilità, impedendo che altri abbia ad approfittarne senza il consenso di esso, ovvero se essa abbia per scopo di mantenere indenne il soggetto da (peso del) danno subito nel proprio diritto" (p. 207).

L'antologia offre inoltre alcuni esempi del metodo scientifico che propone il connubio tra comparazione ed analisi economica. Gli esiti della ricerca condotta da Ugo Mattei (approdati dapprima nella monografia Tutela inibitoria e tutela risarcitoria. Contributo alla teoria dei diritti sui beni, Milano 1987 e, da ultimo, in quella - già ricordata - su La proprietà, Torino, 2001) rappresentano un riuscito tentativo di questa sintesi: secondo il suo pensiero, attraverso la lezione della comparazione - storicizzando i problemi e seguendo l'evoluzione dei concetti - dovrebbe verificarsi il carattere neutro delle categorie coniate dall'analisi economica. La prima parte del lavoro muove da uno studio intorno all'applicazione dell'analisi economica ai property rights, e dopo un puntuale richiamo alle teorie di Richard Posner, e della Scuola di Chicago (che utilizza un criterio di efficienza pura), e quella di Calabresi (che vi affianca anche finalità distributive), si rileva la preferibilità della tutela inibitoria rispetto ad altri remedies, che danno solo diritto all'indennizzo. 

A questo punto sono maturi i presupposti per una riflessione sull'allocazione dei property rights e sui limiti alla tutela nel sistema statunitense e in quello italiano. Nell'esperienza nord - americana assume un ruolo centrale il rimedio dell'injunction, il cui mancato adempimento costituisce un civil contempt e può condurre addirittura ad una pena detentiva. Nel nostro ordinamento questo rimedio è stato avvicinato a quello offerto dall'art. 700 c.p.c., la cui inottemperanza può al massimo condurre ad una sentenza per l'esecuzione forzata degli obblighi di fare, ai sensi dell'art. 2931 cod. civ..  La norma di raccordo viene individuata nell’art. 2058 cod. civ., che tuttavia secondo l’Autore “non prescinde dalla tutela contro le esternalizzazioni, per le medesime considerazioni che consigliano prudenza nell’inquadrare l’art. 2043 cod. civ. fra gli strumenti istituzionali di controllo contro le esternalità negative” (p. 220).
Riflessioni di segno ed impostazione analoghi si ritrovano nelle pagine della monografia di Angelo Chianale (Diritto soggettivo e tutela in forma specifica. Indagine in tema di responsabilità extracontrattuale, Milano, 1993), secondo cui l’art. 2058 cod. civ. rappresenta anche una cartina di tornasole per verificare il potere dei giudici: esso infatti “impone soltanto che il contenuto della condanna sia suscettibile di essere astrattamente deducibile in obbligazione secondo i principi  generali. Appare chiara la potenzialità di una simile impostazione, che restituisce al giudice il compito di determinare e allocare le situazioni di appartenenza, relegando alle memorie del passato l’esistenza della sola tutela (risarcitoria) per equivalente” (p. 227).
Viene ospitato anche il tema dell'"accesso al sole", che negli Stati Uniti è stato al centro di alcuni interventi giurisprudenziali, ad esito dei quali si è optato per riconoscere l'esperibilità del rimedio di nuisance nei casi di ostruzione della luce del sole che investe i pannelli solari. Giovanni Pascuzzi ha ripercorso i termini di questo dibattito, palesando qualche perplessità per un sistema che richiede il passaggio attraverso l'intervento giudiziale, ed auspicando quindi un intervento del legislatore (p. 228).

L’antologia conferma la sua prerogativa di volume polivalente, ed anche in questo settore ospita un contributo di natura pubblicista. E’ ancora una volta Antonio Baldassarre a portare il testimone: muovendo dallo sforzo di unificazione concettuale del diritto di proprietà operato dalla dottrina tedesca, rileva che si tratta di un mero artificio, in quanto non si dà carico di considerare la poliedricità del concetto. Quest’ultima, del resto, è facilmente desumibile sia sulla scorta della pluralità di angolazioni dalle quali viene osservata la nozione di property rights, sia – soltanto – sulla base di una corretta interpretazione dell’art. 42 della Costituzione italiana: “l’art. 42, infatti, contiene una norma generale sulla proprietà privata, applicabile come principio costituzionale a tutte le varie forme di proprietà privata, comprese quelle che hanno una specifica previsione in altre disposizioni costituzionali. Nel nostro ordinamento, infatti, (…) previsioni differenziate sono presenti, sia pure come paradigmi che attendono un ulteriore ed essenziale svolgimento attraverso le leggi, nelle disposizioni della Costituzione” (p. 235).

Il capitolo si chiude con la traduzione del celebre saggio di Bernard Rudden incentrato sul significato del numero chiuso dei diritti reali, sulle sue aporie e sulla sua difficoltosa conciliabilità con le teorie economiche (accompagnato da una presentazione di Andrea Fusaro). L’Autore passa in rassegna numerosi ordinamenti “non feudali”, e rileva in tutti la presenza del principio del numerus clausus: in alcuni ordinamenti esso è stato codificato, in altre esperienze è  invece difeso dalle Corti e dalla dottrina, a tutela di presunti interessi socialmente rilevanti. Vengono quindi esaminati gli argomenti che usualmente sollevati a presidio del dogma, all’interno dei quali sono rilevate lacune o contraddizioni interne; poi, attraverso l'applicazione delle teorie economiche, ci si imbatte nella prassi, ormai frequente, che vede i privati impegnati nella ricerca di soluzioni alternative, più confacenti alle rispettive esigenze.

 

3.3 La funzione sociale della proprietà.

La ricerca dei confini che circoscrivono la nozione della proprietà non poteva evitare il transito attraverso la rilevanza della “funzione sociale”, introdotta in Italia con la Costituzione repubblicana, e considerata addirittura come scopo precipuo del diritto di proprietà.

Il quarto capitolo ripercorre innanzitutto le opinioni espresse nel secondo dopoguerra fino agli anni ottanta, quando il problema risultava ancora molto avvertito. Si tratta di pagine già lette, che forse oggi sono ai margini del dibattito, ma che ciò nondimeno non possono considerarsi solo reperti storici. Le occasioni per una loro riconsiderazione sono molteplici: ad esempio, la determinazione dell’indennizzo dell’espropriazione. Giustamente, quindi, esse vengono riproposte, accompagnate da quegli interventi, più recenti, ormai scevri da ogni aspetto ideologico, ma tuttora vigili anche su questi temi.

L'antologia riprende – attraverso le immagini di Stefano Rodotà -  il dibattito svoltosi in seno all'Assemblea Costituente per la definizione del testo dell’art. 42. Le relazioni dei componenti la commissione si sono concentrate sulle connessioni tra proprietà ed impresa, “perché si partiva dal presupposto che sarebbero state le decisioni di principio in materia di proprietà a definire il quadro d’insieme all’interno del quale sarebbero state poi coerentemente tracciate le specifiche linee di disciplina dell’impresa” (p. 259).

Seguono quindi le diverse letture dell'art. 42 Cost. proposte con la consueta lucida chiarezza da Giovanni Tarello con il suo inconfondibile stile. La nozione di funzione sociale è termine polisenso, il cui significato si desume non solo dall’art. 42, ma anche dai collegamenti che sono stati proposti con gli aspetti sociali e filosofici che ne rappresentano il fondamento.

In questo scenario si innesta il monito di Mario Costantino, il quale avverte che non ci si può limitare all’enunciazione di un generico principio di solidarietà, ma occorre definire in concreto la formula: “l’interprete non può sottrarsi al compito di precisare il criterio in base al quale l’attività del proprietario si determina nel nome della solidarietà sociale; altrimenti o resta nel vago e nel generico, oppure si limita ad accertare che nella nozione di proprietà vi è un elemento sociale, magari prevalente, in antitesi all’elemento individuale” (p. 265). Ma le interpretazioni della nozione di "funzione sociale" non si arrestano a questo punto: essa viene riguardata ora alla stregua di un modo in cui la proprietà si presenta all'esterno, che peraltro non ne stravolge la natura di diritto soggettivo (F. Santoro Passarelli); ora come uno strumento di collegamento tra proprietà e persona, in netta contrapposizione con gli ordinamenti liberali, per i quali la proprietà rappresentava una forma di libertà priva della dimensione sociale (Lener); ora alla stregua di un limite interno alla proprietà (U. Natoli): “proprietà e iniziativa economica privata rappresentano (e non senza ragione) di per sé i pilastri di tutto l’ordinamento corporativo e l’affermazione di una loro funzione sociale (rectius, pubblica) – anche se prudentemente non enunciata dal codice – non era l’espressione di un dover essere, ma di un modo di essere e più precisamente di un essere in situazione di privilegio” (p. 278).

La funzione sociale è stata al centro di un acceso agone sul terreno dell’espropriazione. Ampio spazio è stato dedicato anche alla vicenda dell’occupazione acquisitiva, che trova in un saggio di Guido Alpa un'efficace sintesi, alla luce della modifica normativa introdotta con la Legge Finanziaria per il 1996, nonché un punto di partenza per alcune ricostruzioni e proposte di regolamentazione. Il problema deriva dalla previsione di un ristoro la cui determinazione avviene per relationem rispetto a quello che sarebbe dovuto in caso di esproprio. Tuttavia, “un conto è liquidare al privato un indennizzo di esproprio che non necessariamente deve essere completamente satisfattivo, dovendo il ristoro non essere irrisorio; altro conto è disciplinare il risarcimento del danno nei casi in cui si verifichi la (fictio legis) dell’occupazione acquisitiva"  (p. 308). La novella legislativa ha sollecitato altri autorevoli e preoccupati interventi: Antonio Gambaro rileva come la mancanza di un'esaustiva tutela risarcitoria di fronte ad atti di imperio della Pubblica Amministrazione rischi di determinare un'eccessiva compressione di un diritto soggettivo costituzionalmente garantito (p. 310); Roberto Pardolesi pone l'accento sulla confusione che ha ottenebrato la mente del legislatore in questa vicenda (vista con la metafora "dalla supernova al buco nero"), non rinvenendosi giustificazione di quest'opzione nei lavori preparatori, né essendo stata reclamata da voci dottrinali o giurisprudenziali (p. 314).

Il problema di fondo consiste nell’indeterminatezza dell’espressione “funzione sociale”, che deve essere valutata ed apprezzata in primo luogo dal legislatore. In una sentenza della Corte Costituzionale del 1964 si rileva che “l’identificazione degli interessi da soddisfare e dei mezzi e dei sacrifici da imporre, ai fini dell’utilità generale, spetta al Parlamento alla cui sensibilità è affidato il compito di determinare nei vari momenti della vita della collettività quali siano le esigenze e i mezzi nel quadro e nei limiti dei precetti costituzionali” (p. 321). Ma la Consulta non si è limitata ad un generico richiamo al legislatore, e negli anni sessanta e settanta ha proposto letture sempre attente agli interessi in gioco.   

Il dibattito intorno al significato della funzione sociale è proseguito fino ai nostri giorni, sebbene con forme e toni meno accorati. Si è acquisita la coscienza del difetto di prospettiva in cui si è incorsi per lungo tempo quando si tendeva a ridurre il senso di tale espressione ai soli limiti della proprietà. In realtà, come osserva Pietro Perlingieri, “in un sistema ispirato alla solidarietà politica, economica e sociale e al pieno sviluppo della persona (art. 2 Cost.) il contenuto della funzione sociale assume un ruolo di tipo promozionale, nel senso che la disciplina delle forme proprietarie e le loro interpretazioni dovranno essere attuate per garantire e per promuovere i valori sui quali si fonda l’ordinamento” (p. 342). Posta questa premessa, si ripercorre il tema della natura dei funzione sociale intesa come limite, e si dimostra di aderire all’opinione per cui essa costituirebbe un elemento che contribuisce a disegnare la struttura della relativa situazione soggettiva (p. 347).

Un disinganno forse più amaro sembra emergere dalle pagine di Antonio Gambaro, secondo cui “vi è materia per sospettare che la funzione più importante svolta dalla formula costituzionale sia stata quella di persuadere la dottrina ad abbandonare le visioni della proprietà privata che non erano, se sono state mai, adeguate alla realtà normativa e a quella che si coglie nelle prassi amministrative e negli indirizzi giurisprudenziali” (p. 355). In realtà, prima di pervenire a siffatte conclusioni, Antonio Gambaro esprime una preferenza per l’opinione che su questo punto aveva manifestato Salvatore Pugliatti, secondo il quale la formula costituirebbe una “sintesi di tutte le metamorfosi che la proprietà aveva subito a partire dai codici ottocenteschi per impulso della legislazione speciale” (p. 352). Quindi riprende le diverse posizioni che nel corso degli anni hanno dominato la scena: da quelle più marcatamente ideologizzate, a quelle maggiormente ispirate dalle istanze avanzate dall’analisi economica del diritto.

 

3.4 La proprietà e le proprietà.

Un doveroso omaggio è tributato al pensiero di Salvatore Pugliatti: intitolando il quinto capitolo “La proprietà e le proprietà” i Curatori hanno inteso riprodurre il disagio di fronte alla ricerca di uno statuto unitario del diritto, percepibile di fronte alla moltiplicazione dei tipi di bene, e a quella – correlata – dei diversi modi di possedere.

Il capitolo si apre con un paragrafo dedicato alla crisi del diritto soggettivo, il cui esempio eminente è - com'è noto - rappresentato dal diritto di proprietà. Il significato di “diritto soggettivo” non è più quello di un tempo, legato al razionalismo settecentesco, ma ha assunto una differente connotazione, che deve ruotare intorno alle direttive di solidarietà sociale. L’art. 2 Cost. rappresenta la riduzione in diritto positivo di quest’esigenza, e gli articoli della Costituzione dedicati alla proprietà concretizzano questa teorizzazione con specifico riferimento a tale diritto, e nelle pagine di Adolfo Di Majo si può scorgere nitidamente questa differente concezione del diritto soggettivo, ammantata dall’ideologia dello Stato sociale (p. 361).

Proprio questa nuova concezione del diritto soggettivo fornisce il grimaldello per scardinare la visione unitaria e monolitica del diritto di proprietà, un tempo ritenuta dominante. Nella precedente edizione dell’opera si attribuiva risalto ai differenti statuti che si determinano in relazione alle diverse tipologie di beni (acqua, cave, proprietà terriera). La frammentazione delle discipline aveva condotto a riflessioni in merito ai rapporti tra la natura del diritto di proprietà ed il potere del legislatore di apporvi limiti. Ove si ritenga che il privato non goda di poteri illimitati, ma che il suo godimento sia circoscritto dalla legge, si configurerà una proprietà conformata, che non dà diritto ad indennizzi né a reintegrazioni. Qualora, invece, si postuli in capo al privato un potere assoluto, l’imposizione di limiti o vincoli darà vita al modello di proprietà vincolata.

Un ampio spazio è stato dedicato alla proprietà edilizia. L’introduzione al tema è offerta dalla voce comparsa sull’Enciclopedia del Diritto a firma di Adolfo Di Majo e Lucio Francario, in cui si avverte della “difficoltà specifica derivante dalla scarsa chiarezza esistente circa i confini tra la materia urbanistica e quella edilizia". Quindi viene riproposto il pensiero di Umberto Breccia sul “bene casa” e sul diritto all’abitazione: si tratta di un contributo apparso nel 1980, a ridosso della celebre legge cosiddetta “sull’equo canone”, da cui traspare palese l’attenzione per le tematiche sociali. Egli constata che “il diritto all’abitazione appare ancora subordinato alla figura consolidata del diritto di proprietà in un duplice senso: teorico e politico. Per un verso, la proprietà si presenta pur sempre come l’essenziale modello sul quale è stato costruito lo stesso diritto fondamentale; per altro verso, sembra che non si riesca a concepire una soddisfazione integrale delle istanze connesse all’atto umano dell’abitare se non per il tramite di un’universale estensione della possibilità di accesso alla proprietà privata individuale” (p. 390). In sostanza, è necessario considerare che la proprietà è il prototipo di quelle situazioni in cui si esprime la situazione dell’”avere”, cosicché non può essere considerata quale la conduzione esclusiva per la promozione dei valori dell’”essere”. “Vero è piuttosto che il nucleo sostanziale della formula del diritto all’abitazione si articola in alcuni aspetti fondamentali non sempre riducibili agli schemi già noti: a) interesse a un equo accesso al bene (a titolo di proprietà o a titolo diverso); b) interesse a un godimento pienamente adeguato ai bisogni delle persone; c) interesse a una stabile soddisfazione del bisogno” (p. 391). Gli intrecci che legano la proprietà edilizia con il diritto urbanistico sono poi visitati attraverso alcuni contributi di Antonio Gambaro, che individua tre strumenti o settori di intervento pubblico: il piano urbanistico, l’espropriazione e la licenza edilizia.
Un’altra ampia pagina, anch’essa piuttosto nutrita, è stata predisposta – con la collaborazione di Maria Rosa Spallarossa - per la proprietà agraria. La scelta dei Curatori si rivela  felice: la proprietà agraria è una realtà ancora frequente in numerosi luoghi della penisola, e genera sempre interessi contrapposti e conflitti, come è testimoniato dalle numerose sentenze pubblicate annualmente in tema di prelazione agraria.

In questa seconda edizione è stata introdotta la trattazione di alcune nuove forme di proprietà, che il pioniere Salvatore Pugliatti probabilmente non aveva previsto. Il tema della proprietà degli enti non personificati viene illustrato da Michele Graziadei, nella nota scritta a commento della sentenza della Suprema Corte del 1986 a margine dell’acquisto immobiliare di un comitato non riconosciuto (p. 448).

Si propongono inoltre alcuni contributi su particolari forme di proprietà: i fondi comuni di investimento, ed i fondi pensione. Questi ultimi, come viene messo in luce da Giulio Ponzanelli, sono soggetti giuridici di natura associativa, distinti dai soggetti promotori dell’iniziativa. E’ stato tuttavia osservato che la forma di gestione collettiva più appropriata sarebbe stata forse quella societaria, cui è connaturato l’esercizio dell’attività di impresa e la distribuzione degli utili.

Nuovi problemi hanno animato la scena del diritto civile, e hanno contribuito ad alimentare la crisi del modello tradizionale di proprietà, intesa come potere di godere e disporre della cosa in modo pieno ed assoluto. I limiti alla facoltà di godimento del titolare del diritto non derivano da esigenze pubblicistiche, ma dalla volontà stessa dei privati, la cui autonomia ha saputo utilizzare schemi già consueti, per dar forma a figure nuove. Il riferimento è alle nuove conquiste raggiunte dalla teoria del negozio fiduciario: l’utilizzo, specie nel campo del diritto societario, della fiducia germanistica, e la conseguente opponibilità nei confronti dei terzi della segregazione tra diritto di proprietà e potere di amministrazione; il ricorso all’istituto del trust, la cui indiscriminata applicabilità nel nostro ordinamento è ancora al centro di un vivace dibattito, dimostrano una stimolante apertura delle frontiere del diritto di proprietà, sempre più mobili ed interagenti con altri settori dell’ordinamento.

Ancora Michele Graziadei illumina gli aspetti della proprietà fiduciaria, analizzandone con rigore scientifico le differenze rispetto a quella del mandatario, che nel nostro ordinamento rappresenta il paradigma della proprietà per conto altrui: “tutti gli interrogativi circa la natura costitutiva o meramente dichiarativa dell’atto di ritrasferimento previsto dall’art. 1706, 2° co., c.c., che hanno tormentato la dottrina sul mandato sono scaturiti proprio dalla percezione, più o meno acuta, della particolare posizione rivestita dal proprietario per conto altrui, rispetto agli altri soggetti obbligati a dare. Salvo patto contrario, il proprietario per conto altrui è privo della facoltà di godere del bene, ed è responsabile della sua conservazione. Non può certo essere considerato titolare di tutti gli attributi che normalmente competono a un proprietario, sia pure obbligato a dare” (p. 462).

Il tema della proprietà – garanzia è affidato alle pagine tratte dalla monografia di Mauro Bussani, che ha approfondito il presupposto e lo scopo del contratto di leasing, traendone conclusioni che  - già dieci anni or sono – erano perfettamente coerenti con quelle avanzate da Rifkin, di cui si diceva in apertura, e che rimanevano pur sempre nell’ambito del diritto di proprietà, palesando istanze per nulla eversive: si dà conto della tendenza a privilegiare l’utilizzazione del bene, indipendentemente dalla proprietà formale di esso, nonché ad evitare quelle immobilizzazioni nel patrimonio che non sarebbero in sintonia con i disegni produttivi, o con le strategie finanziarie di un’attività economica (p. 469).

 

4. Il secondo volume: il codice civile e le leggi speciali.

Si tratta di un’indagine che completa quella intrapresa nel primo, e contribuisce a delinearne i contorni. Mentre il velo della Costituzione ha ispirato considerazioni sociali ed economiche, come si addice ad una fonte non necessariamente precettiva, il passaggio attraverso la legislazione di rango inferiore, idonea a dirimere i conflitti tra i consociati e a dettare prescrizioni immediatamente vincolanti, rende ragione di contributi forse più tecnici. L’impostazione, peraltro, non rivela cesure con il contenuto del primo tomo, ma anzi ne rappresenta un felice continuum, dal punto di vista sia stilistico, sia concettuale.

 

4.1 L’evoluzione storica.

Il primo capitolo propone l’evoluzione storica del diritto di proprietà, e si rivela assai curioso e ricercato, proponendo brani tratti dai più diffusi Commentari dell’epoca, nonché alcune Relazioni ai testi legislativi. Viene così resa efficacemente l’atmosfera e l’ideologia liberale che hanno ispirato l’emanazione dei testi legislativi, e che dimostra come ogni legge sia figlia del proprio tempo, non potendo essere disgiunta dal contesto politico e culturale circostante.

Il viaggio a ritroso si protrae fino al Codice Napoleonico, che ha ereditato l’idea di proprietà già presente in alcune Costituzioni della Rivoluzione Francese. L’ideologia borghese, che serbava una concezione di proprietà quale dominio assoluto, non compresso da ispirazioni solidaristiche, o anche solo dalle superiori esigenze dello Stato, si è riversata nei codici preunitari, in cui si ritrovano definizioni in quei termini.

Lo Statuto Albertino viene rivisitato attraverso uno dei commenti più diffusi, che sottolinea come la proclamata inviolabilità del diritto di proprietà debba essere ridimensionata: oltre all’espropriazione per pubblica utilità, le leggi ordinarie prevedevano già all’epoca limitazioni di vario genere, per molti aspetti ancora attuali. Il Codice Civile del 1865  non apporta modifiche di rilievo né al Codice Napoleonico, né ai testi dei Codici preunitari, limitandosi a variare alcuni aspetti marginali. Viene riprodotto un commento al Codice Civile francese, a dimostrazione del fatto che la dottrina dell’epoca prodottasi a margine di quel testo poteva utilizzarsi anche per il Codice italiano, non essendosi registrate innovazioni rispetto al modello.

Anche la giurisprudenza dimostrava ossequio per questa concezione. L’antologia riporta alcune decisioni dell’epoca, tra le quali si segnala una della Corte d’Appello di Firenze in materia di espropriazione, in un passo della quale si legge che “per il nostro diritto pubblico tutte le proprietà, senza alcuna eccezione, sono inviolabili, (art. 29 dello Stato costituzionale), e si può essere tenuti a cederle quando lo esiga l’interesse pubblico legalmente accertato”, ma in tal caso è dovuta una giusta indennità (p. 39). Il caso più interessante, anch’esso ripercorso attraverso la lettura di brani di giurisprudenza, concerne il conflitto, sorto alla fine del XIX secolo, tra i proprietari terrieri e le industrie che dovevano costruire la linea ferroviaria. Vengono riportate sentenze italiane espressione di un orientamento contrario all’espropriazione, e decisioni del medesimo periodo dei giudici inglesi di segno opposto, in cui ai proprietari dei fondi finitimi era stato imposto di sopportare rumori e danneggiamenti necessari per il perfezionamento dell’opera.

Il percorso verso una concezione della proprietà conformata dalla funzione sociale è stato lungo e non privo di travagli. Ne è offerto uno spaccato interessante, attraverso la dottrina pubblicista e quella privatista. Tra gli esponenti della prima si segnala il contributo di Giuseppe Fragola, che nel 1910 scrisse un libro sulle limitazioni amministrative al diritto di proprietà, chiaro indice di una progressiva maturazione dei limiti imposti al godimento “dall’alto”. Tra i rappresentanti della seconda è necessario ricordare almeno Emanuele Gianturco, che ha raffrontato la proprietà romanistica, assoluta ed incontrastata, con quella dell’epoca, limitata dall’interesse pubblico: “in virtù dell’assolutezza il proprietario può usare e abusare della cosa propria, finchè la sua volontà non trovi un limite nelle leggi, oggi più restrittive del classico dominio assoluto” (p. 76).

Un ulteriore, notevole, impulso verso più incisivi poteri dello Stato nella regolamentazione del diritto dei privati è offerto dalla legislazione speciale emanata a ridosso della Prima Guerra Mondiale. Viene riprodotto un brano tratto da un saggio di Filippo Vassalli del 1919, ove si rifletteva sui nuovi confini che il diritto privato veniva assumendo a seguito di questi interventi straordinari.

Anche la Costituzione di Weimar contribuì a riempire di contenuto il concetto di funzione sociale. Essa costituì un modello cui si ispirò non solo il legislatore del 1948, ma anche – probabilmente – buona parte della dottrina di inclinazione marxista che fu attiva nel secondo dopoguerra. Basti pensare all’art. 153, III comma, che attribuiva allo Stato il plusvalore della proprietà immobiliare che non fosse frutto del lavoro dell’uomo.

Gli echi di queste istanze sono tuttavia assenti nel Codice Civile del 1942. Si discusse, in realtà, dell’opportunità di introdurre nell’impianto legislativo la nozione di “funzione sociale”, la quale peraltro sarebbe stata ispirata dalla dottrina corporativa piuttosto che da quella socialista che era alla base della Costituzione di Weimar. Ad esito di un acceso dibattito, tuttavia, si preferì la soluzione negativa, come è bene testimoniato dalla Relazione di sintesi di un convegno tenutosi a Genova nel 1942, affidata a Francesco Santoro Passarelli, secondo il quale "la funzione sociale della proprietà è tutta fuori del diritto (…). Proprietà privata e funzione sociale sono termini contraddittori" (p. 97).

Benchè assente dal testo legislativo, la funzione sociale aveva affaticato a lungo gli studiosi chiamati a collaborare ai lavori preparatori, e i dibattiti spesi non potevano rimanere senza esito. Con riguardo alla proprietà agraria, si ricordano gli artt. 838 e 854 cod. civ., su cui viene riferito il commento di Francesco De Martino nel Commentario Scialoja – Branca, e con riferimento alla proprietà edilizia non si rinvengono specifiche disposizioni nel codice, essendo la disciplina rimandata alla cosiddetta “legge Urbanistica”, anch’essa del 1942. Quest’ultima, sebbene sia stata riconosciuta piuttosto evoluta per l’epoca in cui è stata emanata, risente fortemente dell’ideologia fascista,  e negli anni sessanta e settanta ha ricevuto incisive critiche, che ne hanno consigliato una radicale revisione.

L’evoluzione dottrinale cui si è assistito dagli anni ottanta ai nostri giorni, forse più distaccata da quella sviluppatasi nell’immediato dopoguerra, ha messo in luce alcune incoerenze tra i lavori preparatori al Codice Civile e il testo legislativo, anche alla luce delle applicazioni pratiche ricevute da certe norme. In un saggio del 1983 Umberto Breccia poteva riscontrare “un evidente divario tra l’ideologia ufficiale della Relazione del Guardasigilli, già di per sé vaga e non sempre coerente, e il sistema normativo, nel quale ogni enfasi si attutisce e le innovazioni (quand’anche non si riducano a mere messe a punto di indirizzi già consolidati nella giurisprudenza o nella legislazione) quasi mai sono diretta espressione di valori nei quali possa compendiarsi in maniera durevole una svolta storica” (p. 136)

La proprietà, tuttavia, non è più al centro del cuore del legislatore.

In uno scritto del 1991 Stefano Rodotà si interrogava sull’attuale significato della “funzione sociale”, e senza riuscire a darsi una risposta univoca, si poneva un inquietante interrogativo di fondo: “l’individualismo proprietario è la forma costitutiva, e quindi invincibile, dell’attuale organizzazione sociale”? (p. 138). Si tratta di un dubbio che fino a pochi anni addietro non avrebbe avuto ragione di affiorare, tanto sicura sarebbe stata la risposta negativa.

Rispetto all’impianto del codice del 1865, che ruotava intorno alla tripartizione personae, res actiones, il codice del 1942 continua a riservare un intero libro alla proprietà, ma ne dedica uno pure alle obbligazioni. Nella relazione tenuta nel 1989 al Convegno di Venezia Lina Bigliazzi Geri si era soffermata sulla forza erosiva del credito nei confronti della proprietà. L’orientamento giurisprudenziale favorevole alla risarcibilità della lesione del credito da parte di terzi, la necessità di una proprietà dinamica per l’esercizio dell’attività di impresa, che “si manifesta attraverso forme che tendono a sostituire al criterio dell’appartenenza quello della spettanza”, sono indici di una progressiva inversione di ruoli, tale per cui “sembra essere ormai la proprietà a fungere, non di rado, da strumento servente rispetto al credito” (p. 140).

 

4.2 Il numero chiuso dei diritti reali.

Il tema del numero chiuso dei diritti reali dev'essere inserito nella categoria dei limiti. L’attributo che i Curatori hanno voluto riservare a questa vicenda - “definita come “concettuale” – intende significare che si tratta di un dogma solo presunto, mai sinceramente avvertito, né del tutto abbracciato. Il contenuto del capitolo è finalizzato alla dimostrazione di questa tesi, peraltro oggi condivisa dalla dottrina prevalente, nonché da alcune sentenze, soprattutto in tema di multiproprietà.

L’apertura è riservata ad alcuni contributi dell’inizio del secolo scorso, in cui già si palesavano  alcune perplessità. Nel suo “Corso” del 1922, Ruggero Luzzatto riteneva che nell’ordinamento si trovassero figure non ascrivibili nella categoria dei diritti reali, né in quella dei diritti di credito (p. 152). La tesi  opposta era sostenuta da Giacomo Venezian, il quale nel 1936 scriveva che “l’autorità sociale cesserebbe di essere autorità se la sua protezione potesse venir reclamata ad arbitrio dei privati che vi sono soggetti (…). Ma l’individuo non può da sé allargare il suo potere; non può da sé procacciare questa maggior forza” (p. 153).

Un chiaro indice di inquietudine è rappresentato dalla giurisprudenza maturata a margine della natura del diritto di cacciare sul fondo altrui. Una sentenza conclude per la qualificazione in termini di obbligazione personale, ma dimostra sensibilità ed apertura per quelle opinioni che vi ravvisavano la presenza di una servitù irregolare. In un’accurata nota alla sentenza della Cassazione di Firenze del 1889 F. Bianchi criticava l’opinione per cui la ratio del principio del numero chiuso dei diritti reali risiederebbe nell’esigenza politica di non moltiplicare i pesi gravanti sulla proprietà, e con specifico riferimento al diritto di cacciare sul fondo altrui, ritiene che “i temuti pericoli di aggravi soverchi alla proprietà, di inciampi alla circolazione dei fondi, sono maggiori nel campo della teoria e delle ipotesi che non in quello della pratica” (p. 168).

Anche i vincoli di destinazione pattuiti tra privati possono essere ascritti all’interno di questa categoria. La giurisprudenza più recente è fedele alla regola per cui servitus in faciendo consistere nequit, e ne prevede l’opponibilità solo in caso di trascrizione, ovvero di riproduzione della clausola nei successivi atti di compravendita. Viene riportata una sentenza della Cassazione di Roma del 1917, relativa ad un patto inserito in un contratto di compravendita di un opificio, in cui il venditore stabiliva che esso non sarebbe mai stato destinato al medesimo uso industriale a cui serviva in precedenza, eguale a quello di altro vicino opificio di proprietà del medesimo venditore. La pronuncia si segnala per aver ammesso la trascrivibilità di un obbligo personale, trasformandolo – di fatto – in un peso gravante sul fondo, in quanto opponibile nei confronti dei terzi.

L’evoluzione successiva riflette la medesima alternanza di opinioni espresse all’indomani dell’emanazione del Codice Civile del 1865. Da una parte si colloca chi, come Francesco Messineo, stima che “la tipicità dei diritti reali su cosa altrui dipenda dal principio della libertà fondiaria: il moltiplicarsi di questi diritti finirebbe col soffocare, e praticamente con lo svuotare di contenuto, il diritto del proprietario di bene immobile, così come era avvenuto nell’Età di mezzo” (p. 188). Considerazioni non dissimili riappaiono - aggiornate - nelle pagine di Marco Comporti, il quale puntualizza la distinzione tra numero chiuso – che attiene all’esclusività della fonte – e tipicità – che concerne la determinazione del contenuto -, e quindi osserva che “l’ordinamento intende riservare a sé medesimo l’azione ordinante delle situazioni reali, attesa l’importanza, sotto il profilo sociale ed economico, che tali situazioni acquistano nell’utilizzazione dei beni e nell’assetto generale del settore patrimoniale” (p. 196). Su questa linea deve collocarsi anche Umberto Morello, il quale nella monografia “Multiproprietà e autonomia privata” ha passato in rassegna quella giurisprudenza che, attraverso vigorose forzature, inserisce figure di incera collocazione nell’ambito dei diritti reali tradizionali (p. 199). L’Autore non esprime un giudizio in ordine a questa tendenza, ma si limita a constatare la crisi, nei fatti, del principio del numero chiuso.

Dall’altra si pongono quanti, come Michele Giorgianni, hanno dubitato dell’attuale valenza della distinzione tra diritti reali e diritti di credito, e adducono quali esempi le figure dell’obbligazione propter rem e dell’onere reale, di incerta collocazione e, più plausibilmente, a metà del guado che separa le due categorie. Questo Autore dedica particolare attenzione anche alle convenzioni urbanistiche, in quanto la loro trascrizione rende opponibili gli obblighi che vi sono contenuti: “si è finito col riconoscere da un canto che quei rapporti si realizzano esclusivamente a mezzo di un vero e proprio rapporto obbligatorio, e dall'altro che le finalità avute di mira dalle parti possono trovare soddisfacimento attraverso la inerenza dell’obbligo, ovverosia attraverso il suo automatico trapasso in capo ai successivi acquirenti della res” (p. 195).
Da ultimo, viene riportata la decisione della Corte Costituzionale del 1999, che ha esteso la servitù coattiva, concepita per le esigenze dell’industria e dell’agricoltura, ai bisogni ed alle utilità dei portatori di handicap (p. 207).
L'ammissibilità dei diritti reali atipici ha incontrato nuovi sostenitori. Il sesto paragrafo affronta i temi relativi alle convenzioni di lottizzazione, agli asservimenti ed alle cessioni di cubatura. Si tratta di aspetti di cui già si era occupato Mario Bessone, che evidenziano come questi strumenti siano preordinate ad una pluralità di scopi, e si inseriscano nel più ampio quadro che coinvolge i rapporti tra i privati e la Pubblica Amministrazione. Il problema involge essenzialmente la loro trascrivibilità, che è condizione necessaria ai fini dell'opponibilità, ed avvicina il diritto soggettivo alle fattispecie connotate dai caratteri della realità. Vengono riportate alcune sentenze, in merito a tale questione, che testimoniano di un’estrema incertezza della giurisprudenza sia in ordine alla loro trascrivibilità, attesa la tassatività delle ipotesi previste dall’art. 2643 cod. civ., sia con riguardo alla loro opponibilità in assenza di pubblicità, che da taluni viene affidata alla clausola “per sé, eredi o aventi causa”.

L'antologia assolve al proprio compito con una tecnica originale, affiancando ai contributi dottrinali e giurisprudenziali anche materiali ricavati dalla prassi, ed in particolare alcuni modelli di convenzioni di lottizzazione. Uno di questi attiene ad un atto di impegno di lottizzazione di terreni a scopo edificatorio, il cui art. 13 prevede che "in caso di trasferimento anche parziale a terzi degli immobili oggetto del piano di lottizzazione, il lottizzante si impegna a porre a carico degli eventuali futuri aventi causa, mediante specifica clausola da inserire nei relativi atti di trasferimento, tutti gli obblighi od oneri derivanti dal presente atto di impegno (…)" (p. 212).

L'affidamento riposto nella trascrizione, tuttavia, non può ritenersi del tutto al sicuro da inconvenienti né - di conseguenza - è idonea ad apportare un decisivo impulso all'abbattimento del muro del numerus clausus. Lo documenta un decreto del Tribunale di Firenze del 1991, riprodotto insieme con la nota di Andrea Fusaro, che ha negato la trascrivibilità degli atti di impegno, attesa la tassatività delle ipotesi previste dall'art. 2643 cod. civ. (di segno opposto è un'altra pronuncia di un anno precedente, sempre del Tribunale di Firenze, che ha ammesso la trascrivibilità - ai sensi dell'art. 2645 cod. civ. - di una convenzione stipulata tra il Comune ed un privato, avente ad oggetto l'obbligo perpetuo di destinazione di un'area a parcheggio).
Ai fini dell'ammissibilità della creazione di nuovi diritti reali, si presenta con ancora maggiore impatto la decisione della Cassazione del 1988 (riportata con la nota di Angelo Chianale), in cui il contratto avente ad oggetto trasferimento di cubatura viene riguardato alla stregua di una fonte di un diritto reale immobiliare a sé stante, che - unitamente all'autorizzazione rilasciata dalla Pubblica Amministrazione - permette l'ampliamento del contenuto economico del diritto (p. 234). Albina Candian ha dedicato a questo tema la monografia “Il contratto di trasferimento di volumetria”, di cui si è offerta una sintesi (p. 238): l’Autrice è in disaccordo con la tesi seguita dalla Suprema Corte nella sentenza testè ricordata, escludendo che la volumetria sia assimilabile ad un bene, e qualificando ad effetti obbligatori il contratto di cessione di cubatura.
Le perplessità in ordine all'ermetica chiusura della categoria dei diritti reali si annidano da più parti.
La distinzione tra diritti reali e di credito, quale consegnataci da una lunga tradizione, non appare più così nitida. La voce “Diritti soggettivi” del Digesto IV, scritta da Attilio Guarneri, testimonia di queste difficoltà, e si affida a qualche “punto di emersione” delle antitesi: l’acquisto per atto tra vivi, la tutela aquiliana e quella possessoria (p. 239).

I brani di Marco Comporti e di Francesco Romano, tratti dagli atti di un Convegno tenutosi a Venezia nel 1991, testimoniano al riguardo qualche inquietudine. Nel primo si constata la mutata funzione del diritto reale, non più solo espressione di dominio sulla cosa, ma strumento di tutela del diritto soggettivo, in relazione alla tendenziale perpetuità ed all'opponibilità ai terzi (p. 245). E' evidente che si tratta di connotati in certa misura propri anche di taluni diritti personali, la cui durata non è perpetua ma di certo determinabile, e la cui pubblicità può essere affidata allo strumento della trascrizione, nei limiti di un'interpretazione estensiva degli artt. 2643 e 2645 cod. civ.. Nel secondo si azzarda la configurazione del principio del numero chiuso alla stregua di "una resistente dello stato d'animo" (p. 247). La peculiarità del diritto reale, che consiste nel rapporto diretto ed assoluto con la cosa, si rivela soltanto nella proprietà, mentre è assente negli altri diritti reali cosiddetti minori, in cui persiste un rapporto con altro soggetto. Il potere è dunque mediato, similmente a quanto accade per i diritti di credito.

 

4.3 L'oggetto del diritto di proprietà.

Il terzo capitolo rivela una struttura analoga ai precedenti. Il discorso verte sull'oggetto, la cui concreta determinazione ha ricevuto notevoli spunti di riflessione dalle new properties. Ci si imbatte, quindi, in uno dei profili di maggiore novità dell’antologia, che dedica ampi paragrafi al tema dei nuovi beni, ed agli apporti che la dottrina ha saputo fornire, specie negli ultimi quindici anni. Esso deve quindi essere letto quale prosecuzione del primo capitolo del primo volume, in cui peraltro si è palesata la non agevole definibilità del diritto di proprietà.
Dopo aver riferito l’opinione di Francesco Messineo, che intendeva i beni quali cose corporali o comunque dotate di autonomo rilievo economico, viene dato spazio alle tesi più recenti, in cui ormai non si dubita della necessità di estendere la portata del significato del termine “bene”, in modo da allargare in misura corrispondente quella del diritto soggettivo che si rapporta ad esso: e, quindi, della proprietà, che rappresenta il diritto soggettivo per eccellenza.
Non a caso il Digesto IV non contiene la voce "Bene". I suoi curatori hanno preferito sostituirla con quella "Cosa", affidandola a Vincenzo Zeno -  Zencovich. La scelta appare una chiara dichiarazione di programma, volta a far apprezzare - con l'ausilio del diritto comparato - la multiforme varietà che i beni possono assumere e, ancor più, le origini della frequente confusione del termine "bene" con "diritto", laddove il primo viene utilizzato quale medio logico del secondo. L'art. 810 cod. civ. definisce i beni come "le cose che possono formare oggetto di diritto", cosicchè ad una sommaria impressione si potrebbe desumere l'equivalenza semantica dei due termini. L'indagine storica e comparatistica, ed in particolare di quella inglese, rivela tuttavia differenti forme di appartenenza: la land law si estende "a ogni forma di property, finendo per ricomprendere in tale nozione tutti gli interessi di rilevanza economica che non consistono meramente in un rapporto personale esistente unicamente fra due parti" (p. 259).

Il lettore può anche godere di una visione, per così dire, dall'alto. Antonio Gambaro osserva l'impostazione dei manuali più diffusi, che suddivide in due categorie. Da un lato, si pone chi collega il bene alla cosa materiale; dall'altro si collocano coloro che intendono il bene quale oggetto di diritti, in una posizione che non necessariamente implica il transito attraverso la categoria dei diritti reali (p. 261). Una teoria generale dei beni appare quindi foriera di difformità interpretative e fraintendimenti e, in definitiva, utile soltanto per scopi conoscitivi o classificatori. L'Autore  propone una ricostruzione ancorata alle forme di tutela, le quali "sono così legate alla nozione di appartenenza che spesso i giuristi pratici sono indotti a costruire un'appartenenza qualsiasi per poter dar corso alla tutela medesima" (p. 263).

La dogmatica più recente ha quindi superato di slancio il limite dell'appropriabilità, che invece rappresentava un ostacolo per la dottrina più antica. Paolo Cendon ha - a suo tempo - segnalato che le res nullius, un tempo completamente libere, sono ora oggetto di una crescente regolamentazione. Roberto Pardolesi ripercorre la storia delle energie (in un brano tolto dal Trattato Rescigno), illustrando le origini dell'art. 814 cod. civ. (norma assente nel Codice Civile del 1865), e ponendolo in raffronto con le esperienze francese, tedesca e svizzera (p. 267). 

Gli orizzonti forse più affascinanti vengono esplorati quando si varcano i confini tradizionali, come testimoniano le riflessioni di Stefano Rodotà: qui si è inserito un brano tratto da un saggio pubblicato all'interno della raccolta Tecnologie e diritti. La sempre più frequente commercializzazione degli organi del corpo umano è al centro di un'estesa indagine e di un’attenta riflessione, che si riferiscono, tra l’altro, alla donazione dei gameti ed alla brevettabilità delle sequenze del genoma umano. Il tema è affrontato anche in prospettiva comparata, con particolare riferimento alla disciplina che questi aspetti hanno ricevuto nell'ambito degli ordinamenti francese ed australiano. Oltre all'idoneità di certi beni a costituire oggetto di scambio, è avvertito anche il connesso problema della riservatezza delle informazioni genetiche, e dei limiti alla loro circolazione. 
Del resto è ormai pressochè pacifica la configurabilità delle informazioni come bene. L'antologia riporta l'opinione di Roberto Pardolesi e Cinzia Motti, nell'ottica dell'analisi economica del diritto: "è assai probabile che la recente e diffusa attenzione al problema dell'informazione come bene stia a segnalare, specie nei nuovi contesti tecnologici, non già la necessità di tenere a battesimo new properties e nuovi property rights, bensì quella di adattare lo strumentario di cui disponiamo. In altre parole, si può pensare a correzioni endogene al sistema, piuttosto che a sue dilatazioni" (p. 271). Seguono due esempi, riferiti ai software ed alle banche dati, i quali vengono ripresi anche da Vincenzo Zeno - Zencovich nella già ricordata voce "Cosa": "gli interessi in gioco sono nettamente individuati: da un lato l'interesse del produttore alla piena titolarità del proprio programma (e quindi alla remuneratività del proprio investimento) (…); dall'altro l'interesse dei concorrenti meno forti a non essere eliminati dal mercato a seguito della concessione di privative quasi monopolistiche sui programmi; infine un duplice interesse pubblico alla circolazione e alla tutela degli utenti / consumatori da abusi di soggetti posti in una situazione di esclusiva" (p. 276).
Lo studio dell'oggetto del diritto di proprietà, peraltro, non sarebbe completo se non si occupasse anche dei temi più tradizionali. Per lungo tempo si è discusso della configurabilità di diritti reali sulla colonna d'aria sovrastante il diritto di proprietà, e la giurisprudenza ha assunto orientamenti non sempre univoci. In alcuni casi si è affermato che lo spazio aereo sovrastante il suolo non costituisce un bene giuridico, in quanto lo spazio è un concetto di relazione e non una cosa (p. 278); in altre occasioni si è ammesso che la colonna d'aria possa essere oggetto di un diritto di servitù; recentemente, in una sentenza del 1994, la Suprema Corte ha concluso che "lo spazio sovrastante una costruzione non costituisce un bene giuridico suscettibile di autonomo diritto di proprietà, ma mera proiezione verso l'alto della costruzione (…); detto diritto, pertanto, non è qualificabile come proprietà, ma come diritto su cosa altrui: precisamente, come diritto di superficie" (p. 283).

Questa complessa materia ha ricevuto in dottrina una risistemazione con la monografia del 1994 di Chiara Tenella Sillani, intitolata I limiti "verticali" della proprietà fondiaria. Nell'antologia ne viene offerta un'accurata sintesi, da cui emerge come l'Autrice si sia data carico di una documentata ricerca storica, ed  abbia osservato anche alcune significative esperienze straniere, non limitandosi ad approfondire gli aspetti relativi alla colonna d'aria, ma analizzando con rigore anche la disciplina del sottosuolo. Viene constatata l'assenza di regole che attribuiscano l'appartenenza del sottosuolo e dello spazio aereo in capo al proprietario del suolo: né questo è mai stato il significato del noto brocardo per cui i poteri del proprietario si estendono usque ad sidera, usque ad inferos .

Il capitolo si conclude con un paragrafo dedicato all'ambiente. Il dibattito in merito alla possibilità di annoverarlo tra i beni riflette il portato di quello intorno alla responsabilità civile per danni cagionati all'ambiente. Secondo Guido Alpa, "è evidente che la natura giuridica del danno ambientale non può prescindere dall'oggetto della lesione, cioè dalla nozione di ambiente, anzi, a quella direttamente si riferisce, e da quella è, almeno in parte, mutuata. E l'ambiente è, dunque, nei suoi profili giuridici e secondo le migliori formulazioni della dottrina, un interesse collettivo privo di materialità” (p. 291). La giurisprudenza si spinge addirittura oltre, e in una sentenza del 1989 lo definisce bene giuridico immateriale, individuando una molteplicità di aspetti in cui esso sarebbe scomponibile (l'ambiente come assetto del territorio, come risorse naturali, come paesaggio, come condizione di vita salubre). Infine, affidata alle cure di Barbara Pozzo, non poteva mancare una finestra su quanto accade in alcuni altri ordinamenti: è proposta una classificazione, a seconda che all'ambiente sia o meno riconosciuto lo status di bene giuridico; la prima categoria viene ulteriormente ripartita a seconda che il legislatore non abbia tipizzato la condotta nociva dell'agente, ovvero l'abbia vincolata a determinati caratteri.

 

4.4 I limiti temporali al diritto di proprietà.

Nel secondo volume si ripropone una contestualizzazione temporale del diritto di proprietà, già presente nella prima edizione, ma in questa incrementata dagli sviluppi del dibattito in tema di multiproprietà, che al tempo in cui vide la luce la precedente edizione era appena agli inizi.

Nel nuovo secolo l’antica concezione del diritto eterno, imprescrittibile salvi gli effetti dell’usucapione, deve cedere il passo di fronte a nuove tipologie circoscritte nel tempo, e argomenti spinosi come la multiproprietà devono essere affrontati con la dovuta adeguatezza.

Già negli Appunti tratti dalle sue lezioni, tenute ormai quarant'anni or sono, Ugo Natoli individuava numerose fattispecie previste dal diritto positivo, in cui il dominio del proprietario non può definirsi assoluto, in quanto compresso da condizioni di riversibilità, patti di riscatto, retroattività della condizione, ma avvertiva che "il limite temporale non deve essere confuso con l'eventuale carattere di instabilità impresso alla situazione dall'esistenza di una condizione risolutiva, o con l'apparente transitorietà o contingenza della situazione stessa, in quanto strumentalmente coordinata al soddisfacimento di uno scopo migliore" (p. 304). Le vere e proprie limitazioni al diritto di proprietà, allora, sono in numero molto esiguo.

L'evoluzione pare tuttavia aver impresso una curvatura differente ai limiti temporali al diritto di proprietà. Il riferimento, quasi scontato, è alla multiproprietà. Si tratta di una fattispecie particolare, a metà del guado tra particolare forma di proprietà (e secondo autorevoli voci di comunione) e diritto reale atipico. Il suo studio, quindi, richiede un approfondimento – o, forse, una rivisitazione - sia della nozione di proprietà, sia del principio del numero chiuso dei diritti reali.

Viene dedicato ampio spazio alla lunga parabola che ha interessato la multiproprietà immobiliare, ancora priva di una definizione, pur a seguito dell’emanazione della legge n. 472/1998, in attuazione della Direttiva 94/47/CE, a tutela degli acquirenti di alloggi in multiproprietà. Sembra  che venga assegnato particolare rilievo alla tesi di Massimo Confortini, il quale già nel 1984 aveva avanzato un inquadramento nell’ambito della proprietà temporanea(p. 307).

Accanto alle ricostruzioni teoriche il lettore più attento agli aspetti pratici può apprezzare l'inserimento di un regolamento condominiale relativo alla proprietà turnaria costituita in un immobile precedentemente destinato ad utilizzazione alberghiera. Nuova linfa per gli operatori giungerà sicuramente dall'attuazione della Direttiva, cui si accennava in precedenza: come ha chiarito Giorgio De Nova, la legge non ha risolto l'annosa questione della natura giuridica della multiproprietà, ma ha apprestato un'incisiva tutela per il consumatore che acquisti un diritto di godimento turnario da un soggetto professionista del settore. Oltre che per i cultori dei diritti reali, quindi, la novella dovrebbe rappresentare un'ulteriore tassello per coloro che studiano lo statuto del consumatore.

 

4.5 Il contenuto dei poteri del proprietario.

La portata della cosiddetta assolutezza del dominio costituisce l'oggetto del quinto capitolo. Il messaggio di fondo è noto, e prende le mosse dalla crescente limitazione ai poteri di disposizione e godimento, specialmente nell'interesse pubblico. Il tema, che si raccorda con quello - già ampiamente trattato - inerente la funzione sociale del diritto di proprietà, non è nuovo, in quanto già nel codice civile e nella legislazione antecedente si ritrovano numerosi vincoli, poi riprodotti in parte anche nella disciplina attuale.

Una testimonianza è tratta da alcune pagine del celebre "Manuale" di Francesco Messineo, in cui vengono individuati limiti al diritto di proprietà di natura eterogenea (pagg. 323 e segg.). Innanzitutto l'espropriazione, che è la forma più avanzata di sacrificio per il privato: già nella legge del 1865 il pubblico interesse e la pubblica utilità che erano alla base del procedimento potevano accordare al privato solo un'indennità, concetto lontano dal giusto prezzo a valori di mercato dei giorni nostri. Particolari vincoli per la proprietà fondiaria, poi, erano rinvenuti nelle numerose disposizioni del terzo libro del codice civile. Si tratta di norme espressione di un'economia ancora fondata sulla proprietà rurale, e che oggi sembrerebbero non più di stretta attualità: vengono passati in rassegna i divieti di frazionamento, gli espropri e i trasferimenti collettivi, e i piani di riordinamento, tutti attuati dalla Pubblica Amministrazione; si prosegue con le esigenze di bonifica, e con quelle idrogeologiche e di difesa fluviale. Particolare rilievo, infine, viene dedicato allo sviluppo razionale della proprietà edilizia, con numerosi riferimenti alla Legge Urbanistica del 1942, ed alla nascita dei piani regolatori.
Ad Andrea Fusaro si deve  una più aggiornata e specifica illustrazione dei vincoli di destinazione d'uso. Alla domanda se sia possibile censire tutti i vincoli di destinazione, l’Autore risponde che “l’impresa, assai ardua, sconterebbe l’eterogeneità delle voci di uno slegato catalogo. Ciò che dissuaderebbe dal ricercare un unico filo di Arianna lungo il quale fissare criteri interpretativi e principi di ordine pubblico di portata generale” (p. 332). Quindi viene posta una premessa metodologica. Sebbene il censimento di tutti i vincoli di destinazione sconti il dazio dell'eterogeneità, è possibile individuare categorie intermedie, specialmente ripercorrendo la letteratura pubblicistica sulla distinzione tra vincoli diretti ed indiretti, a seconda del carattere immediato o mediato dell'imposizione del limite. Con specifico riferimento al vincolo alberghiero, si ripropongono gli interventi legislativi che, succedutisi nel corso del tempo, hanno dato vita ad un catalogo variegato; quindi si affronta il problema della pubblicità, ponendo l'interrogativo sulla legittimità delle numerose leggi regionali che impongono la trascrizione. Il lavoro procede con passo sciolto, fino ad imbattersi nell'annosa questione della tutela del paesaggio. Gli intrecci che si legano con il diritto di proprietà devono essere affrontati - anche qui - dal punto di vista della legislazione vincolistica, che trova il suo punto di partenza nella legge n. 1497/1939, ma che ha visto successivamente una molteplicità di interventi, a livello sia statale sia regionale.

La seconda parte dell'opera affronta il problema della destinazione d'uso nella prospettiva urbanistica. Contrariamente al modello di trattazione tradizionale, il tema viene sviluppato considerando l'art. 25 legge n. 47/1985 quale "esito della ratifica legislativa dell'orientamento indicato dalla legislazione amministrativa, contrapposta a quella penale" (p. 342). Il doveroso spazio viene comunque riservato alle due sentenze del 1982 del Consiglio di Stato e della Cassazione. La prospettiva è più ampia: non ci si limita ad una ricognizione dell'evoluzione giurisprudenziale, ma lo sguardo è allargato fino a considerare anche la progressione storica delle disposizioni rilevanti.

Una sezione è dedicata al vincolo di destinazione alberghiera, che in questa sede riceve una particolare curvatura verso l'ambito dell'edilizia. Si propongono riflessioni sulle leggi regionali, e vengono offerti al lettore più curioso illuminanti esempi di giurisprudenza. I temi sono i più vari, tali da soddisfare anche i palati più avvezzi alle questioni eminentemente pratiche: la definizione concettuale della fisionomia dell'albergo, la sua distinzione rispetto al condominio, si affiancano ad altri temi quali la compatibilità del vincolo alberghiero con il frazionamento della proprietà. Quindi vengono descritti i profili concernenti la ricettività della gestione dei servizi e l'apertura al pubblico, onde poter circoscrivere con margini di sufficiente determinatezza gli insediamenti compatibili con la destinazione alberghiera.
Mai come in questo capitolo l'antologia dimostra la sua attitudine a destreggiarsi all’interno di differenti discipline. Dopo una lunga marcia di avvicinamento, che ha progressivamente allontanato il lettore dai temi tradizionali del diritto civile, ci si inoltra ora nelle fitte maglie della disciplina urbanistica ed edilizia.
La definizione della nozione di urbanistica è demandata alla competenza di Paolo Stella Richter (pagg. 357 e segg.), il quale avverte la necessità di evitare di identificare l'urbanistica con il regime della proprietà immobiliare (p. 358). Ad un oggetto così esteso non possono non seguire una pluralità di funzioni: pianificatoria, che significa di conformazione del territorio; di gestione del territorio, attraverso l'evoluzione dei piani regolatori; di conformazione della proprietà; di controllo dell'uso del suolo e di ripristino dell'equilibrio violato.
Sullo sfondo si staglia il vincolo urbanistico. Al proposito si ripercorre la monografia di Luigi Piscitelli “Poteri di pianificazione e situazioni soggettive. I vincoli urbanistici”. La vicenda dei vincoli urbanistici è percepita come emblematica del modo di intendere il rapporto tra garanzia per il privato e funzione sociale, in contrapposizione alla tesi per cui il vincolo designerebbe semplicemente un regime giuridico limitativo di posizioni giuridiche rilevanti. Al censimento della categoria si accompagna la descrizione della disciplina, quale delineata dalla legge n. 1187/1968: i vincoli sono distinti in sostanziali e strumentali, e solo nei primi viene ravvisata un’identità con la destinazione urbanistica. La questione dei vincoli urbanistici non può dunque essere ricondotta a quella del contenuto minimo del diritto di proprietà, ma si deve ricollegare a quella concernente i limiti al potere pianificatorio della Pubblica Amministrazione.

Un'ampia lettura della nozione di urbanistica è stata accreditata da due recenti sentenze, una della Corte Costituzionale e l'altra del Consiglio di Stato. Nella prima si legge che "alla funzione di governo del territorio si riallaccia anche una competenza in materia di interessi ambientali, da reputarsi costituzionalmente garantita e funzionalmente collegata (...) alle altre spettanti alla regione, tra cui, oltre all'urbanistica, quale funzione ordinatrice dell'uso e delle trasformazioni del suolo, quella dell'assistenza sanitaria, intesa come complesso degli eventi positivi per la tutela e la promozione della salute umana" (p. 377).  Il quadro si completa con il riferimento all'esperienza statunitense, attraverso una sintesi della monografia di E.R. Alexander Approaches to Planning. Introducing Current Planning Theories, Concepts and Issues, del 1992.

Lo studio del diritto di proprietà, e dell'estensione degli effettivi poteri dei privati, deve costantemente volgere l'occhio alla disciplina della responsabilità civile, che ne rappresenta la cifra e la portata. La storica sentenza delle Sezioni Unite n.500/1999  ha rafforzato la posizione del proprietario nei confronti della Pubblica Amministrazione, consentendo la risarcibilità degli interessi legittimi (p. 391).

Una frontale analisi degli intrecci che intercorrono tra la disciplina urbanistica e l’autonomia privata fu avanzata da Antonio Gambaro venticinque anni or sono, a margine di una decisione della Suprema Corte che ammise la validità, con effetti limitati tra le parti, di una convenzione derogativa della disciplina urbanistica (p. 394 e segg.). L’Autore criticò la sentenza e la sua motivazione, in quanto “le norme urbanistiche non costituiscono solo una serie di limiti per le proprietà private, ma creano anche nuovi diritti a favore dei proprietari, primo fra tutti quello al rispetto dell’armonia tra le varie proprietà che il piano urbanistico ha creato. Questo è certamente un diritto proprietario, ma altrettanto certamente è condizionato alla sua origine dal piano stabilito dalla P.A.. Più in generale è condizionato a una diretta e immediata coincidenza tra interesse privato e interesse pubblico” (p. 400).
Successivamente è intervenuta la sentenza della Cassazione n. 3322/1989, che ad esito di un’articolata motivazione ha concluso per la piena validità della clausola, inserita in una convenzione di lottizzazione, con la quale il privato si è obbligato a cedere gratuitamente al Comune un piano di un erigendo edificio, onde destinarlo a scuola materna. In questo modo si è determinata immediatamente e preventivamente la destinazione ad opera pubblica di un bene futuro, escludendosi che la venuta ad esistenza avesse fatto sorgere in capo al privato un obbligo di trasferimento. Nel commentare questa decisione, Mario Costantino ha puntualizzato come in realtà il contenuto della motivazione e del dispositivo non abbia apportato novità per la prassi, che su questo terreno era già piuttosto feconda, ma sia comunque foriera di un tentativo di razionalizzazione di cui si avvertiva la mancanza (pagg. 412 – 413).
Il vincolo di destinazione degli immobili oggetto di pattuizione tra i privati si presenta come un’altra tessera del composito mosaico relativo al contenuto dei diritti del proprietario, e si intreccia con quello – correlato – dei limiti. Il problema di fondo, che emerge anche dalla riportata sentenza della Corte d’Appello di Genova del 1989 (p. 416), può così riassumersi: può l’attuale proprietario di un immobile convenire o accettare una limitazione al godimento del suo diritto in modo da renderla opponibile anche ai successivi titolari? Il nesso con la disciplina della trascrizione è evidente, e la necessità di rispettare il principio di tassatività  di cui all’art. 2643 cod. civ. ha sollevato per gli operatori più di un problema.

Il lettore si trova ora immerso in un altro argomento di significativo spessore: la legislazione vincolistica, ed in particolare quella che si è formata in tema di locazioni. Rispetto alla precedente edizione, che aveva visto la luce all’indomani dell’emanazione della celebre legge sull’"equo canone”, si nota un taglio degli interventi forse più asciutto. Oltre ad alcune questioni pratiche, il commento alla legislazione è affidato alle esperte cure di Massimo Dogliotti ed Alberto Figone (p. 426), i quali considerano anche l’evoluzione della legislazione, che ha quasi capovolto l’impostazione della legge n. 392/1978.

Nell’epilogo si trova affrontato il tema delle immissioni, con il connesso problema della tutela della salute (p. 430). L’art. 844 cod. civ. rientra a pieno titolo nell’ambito del contenuto dei poteri del proprietario, in quanto consente di limitare il suo godimento per particolari esigenze di interesse pubblico. In una vicenda che aveva suscitato vasta eco, anche presso l’opinione pubblica, i proprietari di alcune abitazioni avevano chiesto la cessazione di opere di bonifica idrica, in quanto causavano la degradazione dell’ambiente e, per effetto delle esalazioni e dei rumori, avrebbero potuto recare nocumento alla salute degli abitanti della zona. La Suprema Corte, con una motivazione pienamente consapevole e coscienziosa, ha accolto le richieste dei proprietari, atteso che “l’autorità pubblica ha il potere di incidere sul potere dei privati, in quanto si tratta di misure dirette a preservare o a migliorare la salute di essi e le relative condizioni ambientali (in una con quelle relative alla sanità pubblica), non già a comprimerle o a sacrificarle” (p. 439).

La prospettiva dell’analisi economica è lasciata alle considerazioni di Ugo Mattei, che si chiede quale delle diverse soluzioni rimediali sia la più conveniente (p. 440). Egli muove dal teorema di Coase, la cui ipotesi di partenza consiste nel presupporre l’assenza di costi transattivi, e la cui tesi dimostrata è quella per cui la distribuzione dei property rights è indifferente dal punto di vista della distribuzione efficiente delle risorse. La soluzione all’interrogativo di partenza prescritta dall’analisi economica varia in dipendenza dell’entità dei costi transattivi. Ove questi siano bassi, è opportuno concedere l’inibitoria per il futuro, unitamente al risarcimento dei danni per il passato: in questo modo “si tutela la sfera proprietaria maggiormente valutata dal proprio titolare con beneficio privato e sociale”. In presenza di costi transattivi alti, invece, l’analisi economica consiglia al giudice l’opzione del rimedio risarcitorio: “in un caso come questo, l’immittente continua l’attività soltanto se i benefici sono più alti dei costi. Viceversa, se non è chiamato al risarcimento, i costi sociali superano i benefici sociali in quanto l’attività fa superare agli immessi una parte dei suoi costi” (p. 431).

 

3. Conclusioni.

La domanda che si è formulata in apertura ha così trovato un’appagante risposta.

Il coro a più voci che ha animato i due volumi dell’antologia, e che ha accompagnato il lettore nel lungo viaggio attraverso l’universo della proprietà, ha saputo fornire più di una ragione a giustificazione di quest’opera, tanto che può apparire quasi ozioso il dubbio se si tratti di un prodotto nuovo, ovvero della seconda versione di quello di più di vent’anni or sono, aggiornata in molti aspetti. I due tomi devono essere letti dal giurista proiettato nel terzo millennio, che tuttavia non intende dimenticare il cammino che altri ha fino ad oggi percorso. Di fronte all’alternativa se rinnovarsi o perire, i Curatori hanno dato alla luce una sintesi di tradizione e modernità, che – come insegna Guido Alpa ne “La cultura delle regole” - costituiscono le due colonne portanti del diritto civile nella formazione della cultura giuridica europea.
Poteri dei privati e statuto della proprietà” regala infatti una convincente dimostrazione dell’incessante evoluzione dei problemi che involgono questo diritto, ed illustra il sempre attuale ruolo della proprietà, che è ancora chose vivant, criterio risolutore di un numero accresciuto di istanze, di indole talora costante, altra volta inedita.  La proprietà, lungi dall’essersi cristallizzata entro un desueto abito, si presenta invece come una materia in continuo divenire, che in vent’anni, quasi in punta di piedi, ha assunto un aspetto completamente nuovo. Lo confermano, oltre a quest’antologia, le due opere che si sono ricordate in premessa, le quali testimoniano un rinnovato – e, forse, ritrovato – interesse per la materia, riguardata secondo un’ottica diversa da quella in voga negli anni settanta: non più secondo gli interessi prevalenti, quando non addirittura seguendo le mode culturali, ma con occhio e linguaggio più asciutti, attenti al dato normativo ed alla giurisprudenza.

Quello che Cesare Beccaria amava definire “terribile diritto” è duro a morire, e difficilmente ne vedremo la fine.

 

Giacomo Viotti
Dottorando di ricerca in diritto privato 
nell'Università di Pisa

 

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