La proprietà agraria

 

Norme costituzionali, codice civile, legislazione speciale

 

di Guido Alpa, Mario Bessone e Andrea Fusaro

 

 

 

 

La proprietà agraria e la disciplina del Codice civile

 

Tra i beni a uso controllato notevole rilievo riveste la proprietà agraria, da sempre oggetto di  consistente legislazione, dato il fondamentale ruolo che  l’agricoltura  occupa nel sistema economico. I codici dell’Ottocento erano incentrati  sull’istituto

della proprietà, e gli oggetti del diritto di proprietà che si disciplinavano con minuziosa attenzione erano prevalentemente oggetti di riferiti all’attività

agricola: i fondi, i rapporti di vicinato, le pertinenze, gli animali domestici, la selvaggina, i contratti relativi alla coltivazione della terra.

Nel codice del 1942 convergono sia la tradizionale disciplina della proprietà  fondiaria, per così dire statica, sia la legislazione speciale che da tempo il regime aveva promosso (bonifica dei terreni, coltivazione delle unità rurali, miglioramenti boschivi, ecc.),sia la disciplina dell’attività agricola che viene assunta a oggetto  di impresa: si delinea così, accanto alla proprietà statica, la proprietà «dinamica».

Il codice del 1942 recepisce un importante principio: accanto alla proprietà  fondiaria, nel suo aspetto statico, considera l’attività agricola come attività  commerciale, come organizzazione a fini lucrativi, nei suoi aspetti di organizzazione  dei beni al fine di produzione agricola e di destinazione dei prodotti agricoli  al consumo.

Coerentemente al movimento culturale che ha determinato l’unificazione, in un solo codice, del diritto civile e commerciale, l’agricoltura è considerata sotto il profilo dell’attività e non più (solo) sotto il profilo della proprietà e del godimento del fondo; accanto al comportamento del proprietario, nel suo rapporto col fondo, riceve disciplina l’attività produttiva che il proprietario-imprenditore esercita sul fondo.

 

Occorre rimuovere questa disamina dall’osservazione dell’inadeguatezza dei codici allora vigenti a disciplinare l’attività agricola organizzata a fini lucrativi. Le istanze

da cui questo motivo partiva hanno trovato riconoscimento nel Codice civile del 1942, il quale, dopo aver assegnato una disciplina apposita alla «proprietà fondiaria»,

ha delineato, secondo quelle istanze, la figura dell’«imprenditore agricolo», e ha parlato talora di «azienda agricola».

La considerazione dell’agricoltura sub specie dell’attività, e non più della proprietà e del godimento del fondo, sorta dalla necessità di delimitare materia mercantile da

talune operazioni poste in essere dall’agricoltore al di fuori del godimento del fondo, ha quindi finito per mutare dalla materia mercantile quel movimento per il quale

dalla considerazione dell’attività germogliò il concetto di impresa, ovvero – secondo la confusa terminologia di quel tempo – di «azienda». La legislazione speciale

(assicurativa, creditizia, fiscale) parlò di «azienda agraria», e anche il codice penale del 1930 accolse tale concetto nella previsione del reato di «arbitraria invasione e

occupazione di aziende agricole o industriali» (art. 508).

Il processo diretto a considerare le attività produttive – agricole, industriali o commerciali – sotto il profilo unitario dell’impresa, venne probabilmente affrettato per

l’interferenza dell’ordinamento corporativo, il quale – attraverso le affermazioni programmatiche della Carta del Lavoro – mise in risalto la figura dell’imprenditore, qualsiasi fosse il campo della sua attività.

Il codice del 1942 si pose risolutamente su tale scia, unificando l’attività agricola e quella commerciale sotto il concetto dell’impresa. Ma esso mise anche in essere

una operazione che merita la più attenta considerazione, estendendo l’originario ambito dell’impresa od azienda agricola, attraverso la delimitazione dell’imprenditore agricolo contenuta nell’art. 2135. Tale norma – accogliendo una tesi dottrinale già recepita dal legislatore fiscale nel 1936 (l. 8.6.1936, n. 1231), veniva a includere nell’impresa agricola una serie di attività diverse dal godimento del fondo e dall’allevamento del bestiame.

D’altro canto, il legislatore del 1942 – dopo aver inserito l’attività agricola nel concetto di impresa e dopo aver dilatato i confini tradizionali della attività agraria – la

ha tuttavia esclusa dalla disciplina commercialistica anche allorché l’impresa agraria venga esercitata in forma societaria. Venne in tal modo sottratta al diritto commerciale

la materia connessa con l’agricoltura arrestandosi un chiarissimo processo diretto invece ad astrarre nell’orbita del diritto commerciale l’attività agricola

diversa dalla coltivazione del fondo. Il trapasso dal profilo statico, che appare compatibile colla inerzia del proprietario, a quello dinamico, che reclama l’attività e lavoro, si coglie dunque in modo particolare in rapporto alla terra. La proprietà terriera, la proprietà rustica, la proprietà del suolo produttivo, si associa al lavoro. Il connubio è spontaneo, si direbbe naturale (meglio si dirà umano).

(Così Michele Giorgianni, Il diritto agrario, cit., pp. 23 ss.)

 

A sua volta  incisivamente Salvatore Pugliatti illustra le componenti economiche e giuridiche della proprietà impresa, terra-lavoro, valutando

anche imponenti aspetti del fenomeno:

 

Il problema è sorto quasi inavvertitamente, da quando si è incominciato a parlare (ed ormai comunemente si parla) di proprietà produttrice, e si pone la proprietà a

contatto con l’impresa e in primo piano si colloca la figura dell’imprenditore, che diviene assorbente rispetto alla qualità di proprietario.

Ben s’intende che gli accostamenti verbali non sono vere sintesi concettuali, ma alla soluzione del problema non basta codesto rilievo negativo, poiché non si tratta

di avvicinamenti casuali né arbitrari, e si richiede un’accurata analisi, per la piena comprensione del fenomeno. Intanto il fenomeno produttivo, con l’impresa che lo

organizza e l’imprenditore che lo anima, si impone all’attenzione dello studioso, e non si lascia, solo per il fatto che si presenta prevalentemente come problema «economico», porre ai margini del diritto. Tale problema ha i suoi innegabili riflessi sul piano giuridico e, specie in rapporto alla proprietà terriera, l’esperienza giuridica concreta gravita verso la combinazione del profilo statico (proprietà) con quello dinamico (produzione). Acquista, nel diritto positivo, valore giuridico l’organizzazione e l’attività che la muove, e «il riferimento normativo si opera vero una serie di enti la cui ragion d’essere e finalità è collegata: dall’individuo delle aziende di produzione, alle cooperative ai consorzi, agli ammassi, alle organizzazioni sindacali e così via». L’unità del fenomeno produttivo si profila nettamente e rivela il suo significato giuridico. Al diritto non è indifferente il fenomeno organizzativo, che vincola, se non assorbe, la proprietà e l’attività del proprietario. «Penetrando l’organizzazione giuridica nell’ambito in precedenza riservato all’individuo, avviene che il riferimento normativo si porta anche sugli organi in una guisa che la vecchia dogmatica non può ritenere».

Eppure codesta dogmatica ha posto sulla bilancia tutto il suo peso, impiegando strenuamente lo schema tradizionale della proprietà. Altro è la proprietà – si è detto – altro la produzione, anche se il ciclo produttivo incide la proprietà delle materie prime e degli strumenti. A titolo di proprietà o di altro diritto vengono tutelati «gli interessi di coloro che immettono nel processo produttivo dati beni materiali di cui mantengono la titolarità sia come strumenti della produzione sia come materie prime da trasformare».

La produzione come fenomeno economico e l’impresa coll’organismo produttivo, involgono la proprietà, ma – si dice – questa non perde la sua individualità. Nel contempo si afferma che, durante il processo produttivo, la proprietà sulla cosa in via di trasformazione diviene virtuale. E si passa così dall’uno all’altro eccesso, poiché l’interesse del proprietario della materia in trasformazione è sempre e in atto protetto a titolo di proprietà. Piuttosto bisogna mettere in giusta luce il fenomeno della trasformazione in prodotto finito della materia altrui, nel quale l’attività produttiva, per virtù propria e del suo svolgimento, diviene modo di acquisto della proprietà (art. 940). E qui veramente si può affermare che, da un punto di vista tecnico giuridico, «la posizione dell’imprenditore viene a soppiantare quella del proprietario».

(S. Pugliatti, La proprietà e le proprietà, Atti del III Convegno di diritto agrario, Milano, 1954, pp. 165 ss.).

 

Nel Codice civile del 1942 si realizza, attraverso lo strumento dei contratti agrari, il «connubio proprietà-lavoro».

 

È (invece) sommamente importante e da porre in rilievo il connubio tra la proprietà e il lavoro. Per questo la proprietà diviene produttiva e si realizza la condizione dell’estensione del diritto del proprietario ai frutti che ne derivano. Ma quello stesso contratto che lega alla proprietà il lavoro, limita la capacità di espansione della proprietà medesima. Il lavoro diviene, in virtù del contratto che lo impegna, nella cornice del rapporto che vincola il lavoratore al proprietario, titolo che legittima l’acquisto (di parte) dei frutti in favore del lavoratore, e correlativamente limite all’acquisto (di corrispondente parte) dei frutti a carico del proprietario.

Il rapporto che si pretende associativo, visto nelle sue strutture più intime, si rimodella sullo schema del rapporto di scambio: la proprietà cede in parte la sua virtù espansiva al (soggetto che presta il) lavoro; e il lavoro cede in parte la sua capacità produttiva e il risultato di essa al (soggetto che mette a disposizione) la proprietà. I due titoli – proprietà e lavoro – fanno tutt’uno, e operano in favore di entrambi i soggetti, che acquistano ciascuno una quota (di proprietà) dei prodotti. La reale portata di codesti rapporti risalta in pieno, quando si pensi che essi realizzano risultati presso che uguali a quelli della situazione di condominio tra due soggetti che coltivino insieme direttamente il fondo comune: con la differenza che, in questa ipotesi, il duplice titolo per l’acquisto dei frutti è costituito dalla proprietà e dal lavoro di ciascuno dei soggetti non già dalla proprietà dell’uno e dal lavoro dell’altro.

L’importanza di codesto innesto del lavoro sul tronco della proprietà non è sfuggita agli scrittori, che ne hanno sottolineato gli aspetti salienti. Taluno, anzi, ancorato alle forme e alla formula tradizionali, e mosso da preoccupazioni pratiche, anziché da esigenze scientifiche, ha parlato di menomazioni della signoria dominicale, con riferimento a disposizioni vigenti e a riforme proposte. Quanto alle prime, si è ritenuto di dover dare risalto a quelle concernenti la durata al rapporto: l’affitto a tempo indeterminato soggetto a rotazione di colture, si reputa stipulato per il tempo necessario affinché l’affittuario possa svolgere e portare a compimento il nomale ciclo di avvicendamento delle colture praticare nel fondo (art. 1630); la colonia parziaria è contratta per il tempo necessario affinché il colono possa svolgere e portare a compimento un ciclo normale di rotazione delle colture praticate nel fondo (art. 2165); la mezzadria a tempo indeterminato s’intende convenuta per la durata di un anno agrario (art. 2143).

E si può aggiungere, per dare rilievo alla maggiore saldezza e intimità del vincolo tra taluno di codesti rapporti contrattuali e l’istituto della proprietà, che l’affitto (art. 1630) e la mezzadria (art. 2144) non vengono meno automaticamente per la scadenza del termine, ma richiedono la disdetta, senza la quale il termine non è operativo.

(ancora Pugliatti, La proprietà e le proprietà, cit., pp. 166 ss.)

 

 

La proprietà agraria nella Costituzione

 

A pochi anni di distanza dal codice civile, la carta costituzionale dedica alla proprietà agraria – dato il suo consistente rilievo – una norma apposita, l’art. 44, secondo il quale «al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa i limiti alla sua estensione secondo le regioni e le zone agrarie, promuove

e impone la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostruzione delle unità produttive; aiuta la piccola e la media proprietà. La legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane».

Nelle prime interpretazione dell’art. 44 della Costituzione emerge sopratutto il concetto di destinazione della proprietà agraria a fini sociali, secondo il portato di notevoli precedenti storici, in una mutata visione del diritto stesso di proprietà:

non più diritto sacro e inviolabile, ma diritto mutevole, rispondente ai bisogni sociali.

 

Il diritto di proprietà che ha per oggetto la terra tende a riformarsi nella sua struttura; la questione dei limiti assume importanza e rilievo data la natura stessa della cosa, qualificata bene e strumento di produzione, sede di un’attività specifica. I limiti interessano il diritto e insieme la cosa e sono quindi limiti esterni oltreché interni; provenienti da esigenze dell’ambiente economico e sociale. La norma mira a restringere i poteri del proprietario, determinando lo spazio in cui la sua attività è reputata socialmente utile; e il modo in cui quello spazio dev’essere utilizzato affinché l’uso esclusivo di esso non degeneri in disuguaglianze inique, lesive degli interessi dell’intera comunanza.

Il nuovo diritto fondiario, manifestatamente ostile, alla proprietà individuale, assume le direttiva, il principio della «socializzazione» della terra. Il principio è destinato

ad agire come limite, a trasformare la proprietà individuale in proprietà sociale.

L’impostazione si riallaccia ad antiche dottrine risalenti a Ugo Grozio e ai Fisiocrati; alla sintesi proudhoniana che vuol trovare un equilibrio fra Stato e società economica;

si concreta nei postulati della scuola francese dell'obiettivismo giuridico» che ha per suoi massimi assertori il Duguit, il Saleilles, l’Hauriou, pervenendo a conclusioni

alle quali, checché se ne pensi in contrario, tutte le Assemblee Costituenti si sono ispirate.

Secondo questa scuola, l’occupazione e lo stesso acquisto della terra non sono più titoli sufficienti all’uso esclusivo e perpetuo di un bene che è indispensabile alla vita

del corpo sociale; insostituibile, limitato quantitativamente e qualitativamente, ossia per capacità produttiva. Può ammettersi una proprietà privata del suolo: ma quel diritto non può esser legittimo se non corrisponda alla utilità sociale. Il tempo della «proprietà speculazione», si dice, è finito; a essa succede ora la «proprietà funzione sociale».

La proprietà fondiaria, pertanto, si afferma, riposando unicamente sulla utilità sociale: la proprietà non deve esistere che entro la misura di tale utilità. La proprietà, lungi dall’essere un diritto sacro e inviolabile, assume il carattere di un diritto continuamente cangiante che deve modellarsi sui bisogni sociali. E se giunge un momento in cui la proprietà individuale non apparisce più corrispondente ai bisogni sociali il legislatore ha facoltà, non solo di portare a essa tutte le restrizioni che egli ritenga del caso, ma di scegliere altra forma di appropriazione di queste ricchezze.

(Bolla, L’art. 44 della Costituzione italiana e la sua interpretazione organica, in Riv. dir. agr., 1949, I, pp. 2 ss.).

 

L’esigenza di interpretare l’art. 44 è apparsa in tutta la sua importanza agli studiosi di diritto agrario, che hanno interpretato e rilevato l’elemento di novità, costituito dalla «natura sociale» della proprietà fondiaria, e hanno segnalato, sopratutto che la norma «non definisce un diritto, ma la destinazione di un bene produttivo a uno scopo che esige una sua tipica e specifica organizzazione».

 

Se non si voglia ammettere l’inapplicabilità dell’art. 44, oppure, se applicato, che diventi fonte di pericolosissimi errori, s’impone un’interpretazione logica e dialettica di esso. E ciò non già per tentare di sanare quel contrasto di ideologie delle quali è il prodotto, ma per trarre dall’art. 44 quanto vi è di unitario e di organico, considerato che, esso, dopo tutto, è ispirato e aderisce a una realtà, che è tipica del regime fondiario italiano e sufficiente a giustificare un’interpretazione organica e costruttiva.

Questa indeclinabile «organicità» del problema terriero italiano è stata concordemente affermata dagli economici agrari. Ed è merito loro e tra di essi particolarmente del Serpieri, del Medici, del Rossi-Doria, del Ronchi (uomini nei quali non si sa se più ammirare la dottrina o l’esperienza e la capacità realizzatrice) l’aver denunciata la frammentarietà e l’erroneità del punto di partenza di certe riforme che, se attuate, sarebbero controproducenti e antitecniche.

D’altronde un’interpretazione organica dell’art. 44 non è solo possibile ma evidente se lo s’inquadra nei motivi che ne sono il presupposto; negli scopi cui tende; nei mezzi accolti per conseguire gli scopi.

È insegnamento di Gian Domenico Romagnosi che la «proprietà fondiaria ha una ragione, che deve essere cercata in un ordine particolare di fatti»; che egli indica nella duplice esigenza d’introdurre e conservare l’agricoltura; provvedere alla crescente popolazione.

Questa particolare «ragione» della proprietà fondiaria italiana l’art. 44 deduce da un complesso di fattispecie pratiche, realistiche, proprie della nostra agricoltura.

Le realtà agricole italiane – si legge in una relazione tecnica distribuita ai Costituenti a cura del ministero competente – sono infinite; ma le molteplici situazioni possono  riassumersi in due complessi fondiari: le regioni latifondistiche e montane; le regioni ordinate in aziende (poderali e grandi aziende). Nei rispettivi complessi vengono in considerazione due diversi ordini di fenomeni, definiti dagli economisti «patologici», e che si contrappongono a quelli fisiologici.

In quelli vengono in considerazione i problemi del latifondo; delle terre degradate dal bonificare, delle unità fondiarie frammentate da ricostruire. In questi si presentano

invece problemi di «organizzazione» e di potenziamento delle aziende.

In quelli operano i limiti e l’esproprio, in questi i contratti agrari che si ci propone di riformare. È in relazione a questa «realtà», dominata da un imperativo categorico di solidarietà nazionale, che le direttive costituzionali indicano i fini ultimi e sostanziali da conseguire: ridistribuzione del suolo; trasferimento della proprietà e dell’amministrazione della terra in mano di chi collabora a valorizzarla.

Quali sono i mezzi tecnico-giuridici prescelti dall’art. 44 per conseguire gli scopi? Tali mezzi in corrispondenza dei due complessi fondiari sono di due ordini: là dove l’ordinamento produttivo è degradato o insufficiente, e il suolo non risulta razionalmente utilizzato, i mezzi tecnico-giuridici sono costituiti da obblighi, vincoli, limiti. Là dove invece il regime terriero è ordinato in azienda, varia per struttura, conduzione, ecc. l’art. 44 resulta interpretato da un complesso di leggi positive, date testé per intensificare l’efficienza produttiva delle aziende; fornire a esse il credito e la mano d’opera; accrescerne il numero per fini di colonizzazione, per avviare la riforma dei contratti agrari.

I limiti, risolvendo i vari problemi pratici (latifondo, proprietà frammentate, piccola e media proprietà), tendono da un lato a comporre i conflitti d’interesse nascenti dalla limitatezza quantitativa e qualitativa del suolo agrario, dall’altro a organizzare la proprietà terriera in modo permanente.

Il complesso dei limiti presuppone il rapporto fra Stato e cittadino in relazione al suolo coltivabile secondo la dottrina propria dello Stato moderno. Lo Stato ha il diritto a che il territorio soddisfi alle esigenze del popolo inteso come un tutto, ossia della Nazione, che dall’agricoltura trae la sua fisionomia e la vocazione di lavoro: che in conseguenza la terra sia razionalmente utilizzata. L’«unità produttiva» è elemento che indica la direzione sociale del diritto di proprietà; stabilisce il criterio dell’uso; riassume il modo normale del godimento della terra perché essa adempie alla sua funzione, tanto sociale che economica.

Dal punto di vista giuridico l’unità produttiva è l’aspetto esterno della proprietà; intendendosi per aspetto esterno, secondo lo definizione di Jhering, «lo stato normale  per effetto del quale la cosa adempie la sua funzione economica di servire all’uomo». L’unità produttiva e assunta come l’oggetto della proprietà che ha propri spazi e limiti, che è concepita come unità fisico-economica di rilevanza costituzionale.

Indubbiamente l’unità produttiva può rientrare nella categoria di quei beni «che rappresentano nel diritto come nella storia la categoria della durata, della continuità, del reale e la cui fondazione costituisce il fondamento giuridico della società e dello stato». È insomma la realtà oggettiva, l’aspetto organizzativo del «fondo», condizione della produzione e della sua attualità. In linea dogmatica (pertanto) l’art. 44 non definisce un diritto ma la destinazione di un bene produttivo a uno scopo che esige una sua tipica e specifica organizzazione ritenuta fondamentale alle rinnovate esigenze della vita in comune nel presente momento storico.

(Bolla, L’art. 44 della Costituzione italiana e la sua interpretazione organica, cit. pp. 10 ss.)

 

L’art. 44 potrebbe anche avere voluto dare un’altra indicazione, nell’ambito della sua collocazione nel sistema costituzionale: il perseguimento di «intenti egualitari e solidaristici», indirizzati da un lato alla realizzazione di «un’esistenza libera e dignitosa», per chi lavora la terra e per la sua famiglia, dall’altro alla realizzazione di un’agricoltura economicamente valida, competitiva, in campo internazionale, idonea a raggiungere l’obiettivo di un incremento produttivo.

 

Cogliamo nell’art. 44, ancora una volta, gli intenti egualitari e solidaristici che pervadono – secondo l’ispirazione degli artt. 2, 3 e 4 – tutto il tit. 3° della parte I della

Costituzione, dedicata ai «rapporti economici».

L’art. 44 ha di mira il risultato che chi vive sulla terra goda di «equi rapporti sociali» nei confronti di chi dispone della proprietà, e perciò di condizioni tali, nel rapporto giuridico, che ne risulti assicurata una congrua remunerazione dell’attività lavorativa del coltivatore e – per usare l’espressione dell’art. 36 – «un’esistenza libera e dignitosa» anche per la sua famiglia. In sostanza, l’obiettivo ultimo deve essere quello di consentire a chi lavora sulla terra uno standard di retribuzione e di condizioni di vita non inferiore a quello di chi lavori, a pari livello, in altri settori produttivi. Un’attività lavorativa, dunque, così per il coltivatore dipendente come per quello autonomo, la quale si svolga in condizioni di sicurezza sociale, di libertà dal bisogno, di personale decoro, di appropriato compenso.

A tal fine la Costituzione consente alla legge l’imposizione di «obblighi e vincoli» alla proprietà. Legittime, quindi, le disposizioni legislative che impongono al proprietario la realizzazione e la manutenzione dei «comodi» occorrenti per una decorosa esistenza di chi lavora la terra; come pure che regolino, in virtù dei fini anzidetti, le modalità dei rapporti giuridici, le prestazioni reciproche del coltivatore e del proprietario, la partecipazione del proprietario agli oneri di sicurezza sociale.

Occorre però non perder di vista l’altro, indissociabile, obbiettivo da perseguire, anch’esso inerente alla «funzione sociale» della proprietà terriera: il conseguimento del «razionale sfruttamento del suolo». Obbiettivo al servizio del quale sono posti anche, come si è visto, «la bonifica delle terre, la trasformazione del latifondo e la ricostruzione delle unità produttive». La costruzione cioè si propone la realizzazione di un’agricoltura economicamente valida, risanata, perfezionata, competitiva, organizzata su dimensioni aziendali (le «unità produttive») funzionali. Non un’agricoltura frantumata e sminuzzata in unità antieconomiche. Anche l’agricoltura deve essere strumento di quell’incremento produttivo che è condizione del progresso economico e dell’elevazione sociale di una comunità e dei suoi componenti. È in  questa direzione che, secondo la Costituzione, dovrebbero esser mobilitati gli sforzi concordi della società e della proprietà. Sforzi che la legge dovrebbe «promuovere e imporre». Legittime dunque le leggi volte alla composizione di «unità produttive» ottimali e a evitare lo smembramento di quelle esistenti. A tal fine peraltro non è indispensabile operare a livello proprietario, essendo sufficiente farlo, eventualmente, a livello di gestione aziendale.

(Sandulli, La proprietà nella Costituzione, cit., pp. 485 ss.).

 

Nel ruolo assegnato dalla Costituzione alla proprietà terriera rientra pertanto anche il favore verso la proprietà coltivatrice diretta, che operi «nel quadro di una economia agricola valida e competitiva». Con tutte le conseguenze che questo comporta sul piano di una politica del diritto diretta a prevenire la «fuga della proprietà dalla terra».

 

Al legislatore non è consentito, dunque, dalla Costituzione, di preoccuparsi, nell’affrontare i temi dell’agricoltura, unicamente della condizione contadina. Ancor meno la Costituzione consente di realizzare il giusto obiettivo dell’elevazione di questa a scapito dell’economia agricola, e perciò a scapito dell’economia generale del paese. Essa vuole che lo strumento per l’elevazione della condizione contadina sia il progresso dell’economia agricola, il «razionale sfruttamento del suolo», da realizzare attraverso unità produttive di dimensioni tecnicamente appropriate, le quali si trovino nella situazione ottimale per sfruttare le tecniche culturali e mercantili, per essere competitive in campo internazionale, per essere una forza attiva e non un peso morto nella vita economica e sociale del Paese.

Per conto viene a collocarsi in manifesta antitesi coi precetti costituzionali ogni legislazione, la quale, pensosa unicamente dell’ora presente, delle presenti difficoltà della situazione contadina, ritenga di risolvere quest’ultimo problema, ed esso soltanto, addossandone il carico alla proprietà, e non prenda alcuna cura al problema delle dimensioni ottimali dell’azienda agricola, né a quello di un progresso programmato dell’agricoltura, frutto della mobilitazione di tutte le forze produttive (capitale e lavoro) in essa presenti.

La fuga della proprietà dalla terra – in particolare quella di una proprietà costituzionalmente tenuta a non rimanere inerte – non può non essere fatale per l’agricoltura.

Se a questo errore si aggiunge la mancanza di una ristrutturazione delle aziende secondo dimensioni razionali e inoltre l’affermazione del diritto di restare sulla terra anche per chi (pur se l’abbia migliorata in passato) non sia più capace di migliorare per adeguarla alle esigenze dei tempi o non ne abbia voglia, e addirittura il diritto incondizionato di costui di trasmettere la terra a parenti e affini estranei alla famiglia colonica, la gravità delle conseguenze non potrà non aumentare.

Questa strada – che è quella imboccata dalla l. 11.2.1971, n. 11 sull’affitto dei fondi rustici – non può portare la condizione contadina al livello di quella di chi lavora negli altri settori dell’economia. Soluzioni di questo tipo rivestono carattere meramente «assistenziale»; non sono promotrici di benessere e di elevazione della dignità delle categorie coltivatrici, e non si armonizzano perciò con la Costituzione.

(ancora Sandulli, La proprietà nella Costituzione cit., pp. 486 ss.).

 

Sopratutto l’indicazione dei fini, di cui all’art. 44 Cost., consente di delineare il profilo economico del principio sociale cui la proprietà terriera è finalizzata.

 

La specificazione del qualificativo «sociale» in senso economico e collettivo riceve conferma e chiarimento ulteriore dalla considerazione dell’art. 44 della Costituzione, che, nella specifica ipotesi della proprietà terriera, minutamente indica le modalità di intervento sulle situazioni attribuite ai privati. In particolare, dall’analisi di questo articolo si può ricavare una precisazione del profilo economico del principio sociale, nel senso che la semplice destinazione alla produzione o il solo sfruttamento del bene non possono far ritenere adempiuta la condizione posta dal testo costituzionale: quel che si richiede effettivamente è un coordinamento delle attività del privato tale da permettere la migliore utilizzazione delle risorse a sua disposizione.

In relazione al momento collettivo, inoltre, deve dirsi che non è ritenuto sufficiente un qualsiasi risultato che si possa dimostrare vantaggioso per la collettività (per es., un incremento produttivo), ma soltanto quello a cui si accompagni lo stabilirsi di più equi rapporti sociali.

È evidente che, pur con queste precisazioni, il concetto di «funzione sociale» mantiene un certo margine di indeterminatezza. In sostanza, si è finora osservato che la possibilità di dar vita a una funzionalizzazione della proprietà privata è subordinata alla ricorrenza di alcuni presupposti, e precisamente di una unità di carattere collettivo

ed economico, in cui si concreterebbe quella qualificazione sociale, che, nell’art. 42 della Costituzione, accompagna il concetto di funzione.

Il riferimento a una utilità economica e collettiva, tuttavia, implica una notevole possibilità di variazione si è, in altri termini, in presenza di un parametro elastico, a mezzo del quale possono essere trasferite nell’ambito legislativo talune variazioni che si producono nella realtà sociale, riducendo la tensione che abitualmente si produce tra realtà giuridica e realtà sociale. Appunto per questo, deve ritenersi che l’indeterminabilità assoluta del concetto di funzione sociale sia stata ben valutata dal legislatore, il quale ha voluto così disporre di un mezzo idoneo a realizzare quella misura di benessere economico e collettivo adeguata alla situazione storica.

(S. Rodotà, Proprietà (dir. vig.), in Novissimo Digesto italiano, cit., p. 137 ss.).

 

In questo articolo la qualifica «sociale», che nella Costituzione compare con riferimento a situazioni giuridiche «connesse allo svolgimento di determinate attività», si precisa nel senso di «economico e collettivo», pur conservando un «certo margine di indeterminatezza».

Quali le possibili «letture» di questa norma?

 

Tradizionalmente la proprietà fondiaria è al centro della disciplina giuridica e degli interessi dei giuristi. Ciò è naturale, se si pensa che per un lungo periodo della storia

delle organizzazioni giuspolitiche i modi di controllo del suolo determinarono gli assetti strutturali sia politici sia economici: il suolo, e il suo sfruttamento agricolo, costituiva

gran parte del totale delle risorse economiche e la titolarità di diritti del suolo era elemento (di diritto o di fatto, a seconda dei modi di organizzazione) della distribuzione del potere politico. È inutile ricordare come oggi, nei paesi economicamente più sviluppati, e nel nostro, il settore agricolo non costituisca più il settore economicamente

più rilevante, né sotto il profilo dell’entità del suo concorso al reddito nazionale, né sotto il profilo del numero degli addetti. È anche inutile ricordare come invece, nel tempo in cui la carta costituzionale era in corso di elaborazione, il settore agricolo era economicamente molto rilevante per il suo concorso al reddito nazionale e specialmente per il numero degli addetti; era inoltre – come è ancora – un settore economicamente arretrato rispetto a standard di razionalizzazione economica e di organizzazione tecnica di paesi economicamente più evoluti; era infine al centro di gravi contrasti politici e ideologici sia sotto il profilo dei criteri di distribuzione della ricchezza tra quelli che vengono chiamati fattori della produzione sia sotto il profilo di criteri per promuovere uno sviluppo equilibrato dell’economia nazionale stante la sperequazione tra nord e sud e le diverse organizzazioni giuridiche rispettivamente prevalenti nelle due zone.

Tutto ciò dà una ragione del peso comparativo assegnato dal legislatore costituzionale ai fondi agricoli sotto il profilo del regime della proprietà fondiaria, sia rispetto alla proprietà in generale sia, sotto il profilo oggettivo, rispetto ad altri beni. Ma tutto ciò non ci dà elementi per restringere la gamma delle possibili interpretazioni del dettato costituzionale, e anzi introduce un elemento di perplessità sulla portata dell’art. 44, che si aggiunge a quelli suscitati dal lessico e dalla sintassi dell’espressione, e che accenneremo per primo.

Infatti si può ritenere, da un lato, che l’art. 44 sia indissolubilmente connesso alla sua origine storica talché rappresenta un’«eccezione» rispetto ai principi posti dal legislatore costituzionale, in materia di proprietà privata, nell’espressione dell’art. 42; eccezione volta a conseguire al legislatore ordinario interventi d’urgenza, in un settore allora (ed oggi assai meno) economicamente e politicamente rilevante; eccezione, da intendersi in modo restrittivo, e sempre più restrittivo man mano che ci si discosta dalla situazione reale del momento della formulazione, e dalla rappresentazione concettuale di quella situazione reale. D’altro lato si può ritenere che, proprio perché relativo al settore agli occhi del legislatore costituzionale più rilevante, l’art. 44 incorpori una tendenza generale o addirittura un disegno generale del legislatore costituzionale; e la tendenza espressa dall’art. 44 oltre a reagire sull’interpretazione dell’art. 42, in quanto vada al di là della tendenza di quest’ultimo, debba con interpretazione «evolutiva» ritenersi estesa ai settori che di volta in volta, nella realtà e nelle rappresentazioni culturali di essa, acquistano quel rilievo preminente che l’organizzazione fondiaria aveva nel 1947.

Inutile dire che la scelta tra questi due modi di intendere l’art. 44 non trova elementi nella formula di quest’ultimo, ed è lasciata al legislatore ordinario; e all’interprete per

quanto concerne l’uso dell’analogia rispetto ad altre disposizioni costituzionali.

(Tarello, La disciplina costituzionale della proprietà, cit., pp. 42 ss.)

 

Certamente l’art. 44 Cost. tutela la proprietà terriera privata, alla quale accorda riconoscimento e garanzia.

Un primo interrogativo si pone, se questa norma consideri come fondamento immutevole della nostra economia agraria la proprietà terriera privata e preferenza di quella collettiva pubblica, o consenta invece una opposta interpretazione.

Se, in altri termini, la proprietà privata della terra possa essere socializzata o nazionalizzata.

 

Una prima indicazione che sembra potersi desumere dall’art. 44 riguarda la garanzia da essa assicurata al mantenimento della proprietà privata della terra, che è considerato quale regime ordinario, di fronte al quale il possesso degli enti pubblici riveste carattere eccezionale.

Nessun elemento contrario all’interpretazione sostenuta può trarsi dal fatto che l’articolo stesso, in tutte le sue parti e anche nell’ultima riguardante i due contrapposti fenomeni del latifondo e della frantumazione delle unità poderali, entrambi legati in Italia all’approvazione della terra da parte dei singoli, fa esclusivo riferimento alla proprietà privata. Ciò non può essere assunto come indizio di una considerazione sfavorevole verso tale proprietà, corrispondente invece all’intento di tener conto realisticamente della situazione esistente di fatto da noi, dove la massima parte dei terreni è nel possesso dei privati e dove è in atto da tempo la tendenza a una progressiva riduzione dell’entità dei beni patrimoniali degli enti pubblici. Situazione che non si è intesa mutare, salvo che in ordine alla trasformazione delle culture e a una distribuzione della terra fra i singoli più equa di quella attuale.

Un elemento positivo e poi a riprova della volontà del costituente nel senso che qui si afferma può trarsi dalla prescrizione dell’aiuto alla piccola e media proprietà enunciata nell’articolo stesso.

[…] La trasformazione dell’assetto della proprietà fondiaria nel senso dell’ampliamento del piccolo e medio possesso si presenta come espressione di una concezione

generale che ha ricevuto altre e importanti affermazioni nella Costituzione, come quelle […] degli art. 42 e 47 e l’altra dell’art. 45, relativa alla tutela e sviluppo dell’artigianato, e che vede nella riunione nelle stesse mani del lavoro e del capitale produttivo il presupposto per potere pervenire a un sano equilibrio di forze sociali e al maggiore sviluppo e potenziamento della persona.

Si deve pertanto ritenere che un’espansione della proprietà pubblica della terra, diversa da quella che fosse disposta in via transitoria e strumentale al fine della redistribuzione fra privati, potrebbe, secondo la Costituzione, essere consentita solo quando si dimostri verificata una situazione di monopolio, nel senso specifico tenuto

presente dall’art. 43, con riferimento a quelle culture le quali per i loro caratteri fossero suscettibili di attecchire solo su determinati terreni e quindi diano luogo a monopoli naturali, o a casi (se pensabili nei confronti della produzione agraria) di monopolio artificiali. Ove si andasse in contrario avviso si dovrebbero ritenere consentite al legislatore in materia di nazionalizzazione della terra poteri più larghi e discrezionalità più ampia di quelli a esso attribuiti in ordine al passaggio alla proprietà pubblica delle fonti di produzione o delle imprese industriali: ciò che non sembra in nessun modo giustificato dall’esame delle singole disposizioni e dal loro coordinamento sistematico.

Per concludere l’argomento è da aggiungere che, una volta esclusa la possibilità di estendersi del patrimonio pubblico sulla base dell’art. 44, deve ritenersi che a questo

risultato non si possa pervenire neppure mediante l’impiego del procedimento di espropriazione per pubblica utilità previsto dall’art. 42. Ciò, perché l’avere il costituente predisposto una apposita regolamentazione per gli espropri dei beni di produzione ai fini di una loro distribuzione, ritenuta socialmente più benefica, conduce ad assegnare

all’altro tipo di espropriazione, consentita per i generi motivi di pubblica utilità, un significato più limitato, comprensivo dei casi di abbandono delle colture da parte dei

proprietari, o più genericamente di violazione di obblighi a essi imposti.

(Mortati, La Costituzione e la proprietà terriera, in Atti del III convegno di diritto agrario, cit., pp. 271 ss.)

 

 

La legislazione speciale del primo dopoguerra: la riforma agraria

 

Queste, in estrema sintesi, le fasi della riforma.

 

La finalità di una redistribuzione della terra viene attuata attraverso una successione di tre momenti: la perdita del diritto da parte dei soggetti che subiscono l’applicazione della legge, l’acquisto del diritto medesimo da parte di determinate persone giuridiche pubbliche, che dà luogo a una forma di proprietà strumentale e temporanea, infine l’acquisto  da parte dei soggetti che sono considerati particolarmente idonei, che dà luogo a una forma di proprietà per più versi limitata. Ognuna di queste tre fasi o si svolge senz’altro sul terreno del diritto privato o per lo meno presenta sostanziali addentellati con esso, e merita perciò di essere autonomamente esaminata per isolare gli aspetti che hanno per noi un maggior interesse.

Per l’attuazione della prima e della seconda fase (perdita del diritto da parte del privato e acquisto correlativo da parte degli Enti) le leggi di riforma hanno adottato lo strumento della espropriazione per pubblica utilità, sia pure conferendo a quello che sarebbe l’atto conclusivo del procedimento di espropriazione quella curiosa natura di atto legislativa delegato.

Sui criteri in base ai quali la legge determina i proprietari soggetti a espropriazione e sulle motivazioni nell’adozione di questi criteri, si è osservato nel sistema delle leggi di riforma che il criterio della produttività si combina con quello della estensione e poiché, non vi è dubbio, non esisteva nel nostro ordinamento alcun limite quantitativo alla legittimazione ad acquistare e a conservare la proprietà terriera, non è possibile giustificare la perdita, che viene imposta a una certa categoria di persone, sulla base della violazione di un dovere o del non legittimo esercizio di un diritto.

La giustificazione deve quindi trovarsi su un terreno metagiuridico, nella interpretazione cioè che il legislatore ha fatto di una esigenza sociale ed economica che si considera soddisfatta in modo più adeguato con la redistribuzione delle terre anziché con la conservazione a titolari attuali ed eventualmente con l’impostazione di limiti e obblighi, e da questo punto di vista quindi non interessa direttamente il giurista se non in quanto essa possa servire a illuminare la portata e lo spirito della legge.

Dalla natura del provvedimento con il quale è stata attuata la perdita del diritto da parte dei soggetti proprietari ed è creato rispetto ai beni che risulteranno in concreto oggetto della «espropriazione» un vincolo di indisponibilità, discendono rilevanti conseguenze; sarebbe stato perfettamente legittimo un sistema dal quale scaturisse che, sin dal momento dell’entrata in vigore della legge, sorgerebbe per il proprietario, rispetto al quale si operi successivamente l’accertamento e le specificazioni attraverso le fasi del procedimento di espropriazione, un vincolo di indisponibilità rispetto ai beni che risulteranno in concreto oggetto della espropriazione.

Questo vincolo di indisponibilità, per i suoi effetti analogo a quello che deriva da un pignoramento o da un sequestro conservativo, non risulta chiaramente posto dal resto

delle leggi, ma si desume facilmente da una serie di disposizioni. In primo luogo la limitazione del potere di disporre risulta sia dalla circostanza che la legge considera

inefficaci nei confronti dell’Ente espropriante gli atti di disposizione, a qualunque titolo, compiuti dal proprietario dopo l’entrata in vigore della legge (delle attenuazioni che si riscontrano nella l.r. siciliana si accennerà tra poco) sia dalla circostanza che la legge considera irrivlevanti persino le vicende soggettive che non dipendono dalla volontà del proprietario (come la successione a causa di morte), e in secondo luogo risulta dal fatto che la legge pone a carico del proprietario un obbligo di conservazione (artt. 5 e 6 l. 18.3.1951, n. 333) che rende spontanea l’assimilazione del proprietario alla figura del custode di beni (potenzialmente) altrui.

Che pertanto con l’entrata in vigore della legge venga ad annullarsi il potere di disposizione del proprietario rispetto a quei beni che saranno oggetto del provvedimento

di espropriazione sia per gli atti negoziali di disposizione, sia per le vicende soggettive non dipendenti dalla volontà del proprietario, sia per l’esercizio delle normali facoltà di godimento, si giustifica perfettamente con la natura sopra rilevata del provvedimento di espropriazione.

(R.Nicolò, Aspetti privatistici della riforma agraria, cit., pp. 731 ss.).

 

Del resto, sotto altro profilo, l’attività produttiva è rilevante, ed esempio ne è la legislazione speciale sulle terre incolte.

 

L’attività produttiva (e qui si tratta unicamente delle proprietà rustica) è rilevante anche sotto altro profilo, e preferita alla semplice titolarità formale, in relazione alla legislazione speciale sulle terre incolte. L’art. 1 del d.l.p.C.S. 6.9.1946, n. 89 (che sostituisce l’art. 1 del d.lgs.luog. 19.10.1944, n. 279) è del tenore seguente: «Le associazioni di contadini, costituite in cooperative o in altri enti, possono ottenere la concessione di terreni di proprietà privata o di enti pubblici, che risultino incolti o insufficientemente coltivati, cioè tali da potervi praticare colture o metodi colturali più attivi e intensivi, in relazione anche alle necessità della produzione agricola nazionale».

Indubbiamente il rapporto sorge in virtù di un atto coattivo: i concessionari, infatti, procedono per via di istanza (art. 3 d.lgs.luog. 19.10.1944, n. 279; art. 2 d.lgs.luog. 26.4.1946, n. 597; art. 1 d.l.p.C.S. 27.12.1947, n. 1710; art. 1.l. 18.4.1950, n. 199) e ciò significa che essi sono titolari almeno di un interesse legittimo, se non di un diritto subbiettivo. È prevista la possibilità di accordo (art. 5 d.lgs. luog. 26.4.1946, n. 597; art. 10 l. 18.4.1950, n. 199), ma esso è sollecitato dalla speciale Commissione istituita dalla legge, e (eventualmente) concluso davanti a essa. Inoltre, il mancato raggiungimento dell’accordo, non preclude la via della concessione per decreto prefettizio (art. 5 d.lgs.luog. 19.10.1944, n. 279; art. 7 d.lgs.luog. 26.4.1946, n. 579; art. 3 d.l.p.C.S. 6.9.1946, n. 89; d.l.p.C.S. 27.12.1947, n. 1710; art. 4 l. 18.4.1950, n. 199) […].

Basta pensare che la concessione contiene particolari norme sulla conduzione (art. 4 d.lgs.luog. 19.10.1944, n. 279) e che l’inadempimento o la violazione degli obblighi

stabiliti, da parte dei concessionari, produce la decadenza da essa (art. 6 d.lgs.luog. 19.10.1944, n. 279; art. 9 d.lgs.luog. 26.4.1946, n. 579; art. 7 d.l.p.C.S. 6.9.1946, n. 89; art. 7 l. 18.4.1950, n. 199).

La rilevanza dell’aspetto produttivo, dell’uso produttivo del bene, emerge, in riferimento alla legislazione sulle terre incolte, in ipotesi, cioè nelle quali esiste un vincolo che limita l’attività e la facoltà di godere e di disporre del proprietario, in una legislazione ispirata sostanzialmente a finalità di interesse pubblico. Al proprietario inerte si sostituisce il coltivatore (non proprietario), del quale si tende a garantire la fruttuosa attività con l’imposizione di determinati obblighi e la predisposizione di una energica sanzione, per il caso di inadempienza. Certo, a filo di logica giuridico-formale il proprietario non perde il suo diritto di proprietà, e si può dire che riceve un vantaggio economico, attraverso la corresponsione dell’indennità, la quale costituisce un reddito certo, rispetto al mancato reddito o al reddito problematico delle sue terre incolte o insufficientemente coltivate. Ma non si può dire che il suo diritto di proprietà sia rimasto inalterato nel suo contenuto o nella sua struttura. Il proprietario, infatti, non ha più la libertà incondizionata di coltivare o no, di fare o non fare coltivare la terra, e neppure quella di coltivare bene o male. Anche se in questa sfera già incondizionatamente libera si innesta un onere e non un vero e proprio obbligo, ciò è sufficiente a incrinare la compagine del nucleo che garantiva la tradizionale struttura del diritto di proprietà. E non si può dire che la concessione crei una situazione come quella nascente da un contratto di locazione, proprio per il fatto decisivo che essa non nasce dalla libera determinazione del proprietario, cioè non si muove in quella sfera di libertà di iniziativa e di azione che la proprietà assicurava al proprietario; nasce, invece, dall’attività dell’amministrazione pubblica, che non solo si sostituisce, ma addirittura si sovrappone a quella del proprietario. Dunque, la sfera di libertà del proprietario risulta compressa e nella struttura della proprietà, che prima si modellava sull’attività libera del proprietario, si è innestata l’attività della P.A. Si ha, cioè, la coesistenza tra la libertà del privato (proprietario) e l’autorità (dell’amministrazione), in seno a un diritto privato, a cui si ricollega il conseguimento di specifiche finalità di interesse pubblico. E la realizzazione di tali finalità è affidata all’attività del non proprietario che ripara all’inerzia o all’attività insufficiente del proprietario.

La proprietà formalmente non è disconosciuta: ma sostanzialmente il proprietario deve contentarsi dell’indennità stabilita, e deve subire il rapporto che lo priva del godimento diretto della terra, senza averlo voluto. Viceversa il concessionario, sia pure sopportando l’onere dell’indennizzo, si è assicurato il godimento della cosa, pur contro la volontà del proprietario. Si riproduce, con diversa sfumatura, il dualismo tra proprietà (formale) e diritto di godimento, anche questa volta provocato da un atto di concessione dell’autorità. È dato qui notare l’allentamento di quella sintesi tra forma e contenuto, che costituisce la nozione formale e piena della proprietà; e si avverte il sintomo della evoluzione dell’istituto verso il riconoscimento  sempre più deciso del diritto di godimento come vera proprietà, col progressivo svuotamento della proprietà formale, fino a quando, divenuta una semplice larva, non venga disconosciuta del tutto.

La proprietà viene riscattata dall’inerzia e la terra dall’improduttiva stasi mediante il lavoro. La sanzione dell’espropriazione e la concessione delle terre incolte o mal coltivate mira a riparare il danno dell’inefficiente iniziativa del proprietario, che non ha voluto o saputo lavorare (o far lavorare) le sue terre. La legge non impone al proprietario di lavorare la terra, ma almeno di farla lavorare. Egli dispone di vari strumenti giuridici, che fanno parte della categoria dei contratti agrari: l’enfiteusi, la mezzadria, l’affitto, la colonia parziaria, la compartecipazione. Se il proprietario terriero, che non ha voglia o attitudini di condurre direttamente la sua impresa, conclude uno dei codesti contratti, egli assolve normalmente ai voti della legge; e cioè – quello che più conta – soddisfa alle esigenze sociali che hanno ispirato la legge. Il rilievo che acquista il lavoro, innestandosi sulla proprietà, è evidentissimo sotto il generico profilo che qui si viene delineando: si vuole che la proprietà sia, cioè si renda attiva, e ciò può accadere o col lavoro del proprietario (che perciò diviene proprietario-lavoratore) o col lavoro altrui. In ogni caso proprietà attiva o attualmente produttiva, significa proprietà associata a lavoro, significa elemento statico (proprietà) tramutato in fonte di produzione per l’impulso di una forza specifica, che è (e non può essere altro che) il lavoro. Proprietà-lavoro così diventa un binomio, una sintesi indissolubile.

Dal punto di vista giuridico, la rilevanza di codesta sintesi, il valore del binomio, acquista aspetti peculiari, ma non si dissolve. Già, si ripete, anche il lavoro del proprietario,

come mezzo al fine, ha rilevanza giuridica nel risultato, cioè in quella coltivazione del fondo che evita la sanzione dell’espropriazione o la concessione delle terre ad altri. Il lavoro alieno ha rilevanza specifica, non soltanto sotto il profilo del particolare rapporto contrattuale che ne nasce, ma, ai nostri fini, per le incidenze che codesto rapporto ha sulla proprietà.

(S.Pugliatti, La proprietà e le proprietà, cit., pp. 170 ss.).

 

 

L’accesso alla proprietà contadina e il diritto di prelazione a favore dei coltivatori diretti

 

Della l. 26.5.1965, n. 590, devono essere segnalati alcuni articoli, tra i più importanti, per una migliore comprensione degli orientamenti in materia:

 

Art. 1. Ai mezzadri, ai coloni parziari, ai compartecipanti, agli affittuari ed enfiteuti coltivatori diretti, nonché agli altri lavoratori manuali della terra, singoli o associati

in cooperativa, possono essere concessi mutui della durata di 40 anni al tasso annuo di interesse dell’1%, per l’acquisto – effettuato in epoca posteriore all’entrata in vigore della presente legge – di fondi rustici che, a giudizio dell’Ispettorato provinciale dell’agricoltura, avuto riguardo alla concreta situazione ambientale e alla composizione del nucleo familiare del coltivatore acquirente, la cui forza lavorativa non sia inferiore a un terzo di quella occorrente per le normali necessità di coltivazione del fondo, siano riconosciuti idonei alla costituzione di aziende che abbiano caratteristiche o suscettività per realizzare imprese familiari efficienti, sotto il profilo tecnico ed economico.

I mutui di cui al co. 1° possono essere altresì concessi ai proprietari coltivatori diretti, singoli od associati in cooperative, il cui nucleo familiare abbia una capacità lavorativa superiore a un terzo di quella occorrente per la normale coltivazione del loro fondo.

Art. 2. Agli acquirenti di fondi rustici con i benefici di cui al precedente articolo, possono essere pure concessi prestiti a tasso agevolato per l’acquisito di macchine,

attrezzi e bestiame, anche di pertinenza del venditore, per la normale dotazione delle aziende di nuova costituzione od ampliate, purché gli interessati ne facciano richiesta

entro un biennio dall’avvenuto acquisto dei fondi stessi.

Tali prestiti possono essere concessi anche a cooperative costituite da coltivatori che abbiano acquistato terreni ai sensi del precedente articolo.

I prestiti di cui ai precedenti commi avranno la durata di cinque anni e saranno gravati di un tasso annuo d’interesse del 2%.

Detti prestiti saranno concessi dagli istituti di cui al successivo art. 16, ancorché abilitati a esercitare esclusivamente il credito agrario di miglioramento ai sensi della l. 5.7.1928, n. 1760 e successive modificazioni e integrazioni.

 

Per il conseguimento dei suoi fini, la legge attribuisce al coltivatore diretto il diritto di prelazione, nel caso di vendita del fondo.

 

Art. 8. In caso di trasferimento a titolo oneroso o di concessione in enfiteusi di fondo concesso in affitto a coltivatori diretti, a mezzadria, a colonia parziaria, o a compartecipazione, esclusa quella stagionale, l’affittuario, il mezzadro, il colono o il compartecipante, a parità di condizioni, ha diritto di prelazione purché coltivi il fondo stesso da almeno quattro anni, non abbia venduto, nel biennio precedente, altri fondi rustici di imponibile fondiario superiore a lire mille, salvo il caso di cessione a scopo di ricomposizione fondiaria, e il fondo per il quale intende esercitare la prelazione in aggiunta ad altri eventualmente posseduti in proprietà od enfiteusi non superi il triplo della superficie corrispondente alla capacità lavorativa della sua famiglia.

La prelazione non è consentita nei casi di permuta, vendita forzata, liquidazione coatta, fallimento, espropriazione per pubblica utilità e quando i terreni in base a piani regolatori, anche se non ancora approvati, siano destinati a utilizzazione edilizia, industriale o turistica.

Qualora il trasferimento a titolo oneroso sia proposto, per quota di fondo, da un componente la famiglia coltivatrice, sia in costanza di comunione ereditaria che in ogni altro caso di comunione familiare, gli altri componenti hanno diritto alla prelazione sempreché siano coltivatori manuali o continuino l’esercizio dell’impresa familiare in comune.

Il proprietario deve notificare al coltivatore la proposta di alienazione indicandone il prezzo; il coltivatore deve esercitare il suo diritto entro il termine di trenta giorni.

Qualora il proprietario non provveda a tale notificazione o il prezzo indicato sia superiore a quello risultante dal contratto di compravendita, l’avente titolo al diritto di prelazione può entro un anno dalla trascrizione del contratto di compravendita, riscattare il fondo dall’acquirente e da ogni altro successivo avente causa.

Ove il diritto di prelazione sia stato esercitato, il versamento del prezzo di acquisto deve essere effettuato entro il termine di tre mesi, decorrenti dal trentesimo giorno

dall’avventura notifica da parte del proprietario, salvo che non sia diversamente pattuito tra le parti.

Se il coltivatore che esercita il diritto di prelazione dimostra, con certificato dell’Ispettorato provinciale dell’agricoltura competente, di aver presentato domanda

ammessa all’istruttoria per la concessione del mutuo ai sensi dell’art. 1, il termine di cui al precedente comma è sospeso fino a che non sia stata disposta la concessione

del mutuo ovvero fino a che l’Ispettorato non abbia espresso diniego a conclusione della istruttoria compiuta e, comunque, per non più di un anno. In tal caso

l’Ispettorato provinciale dell’agricoltura deve provvedere entro quattro mesi dalla domanda agli adempimenti di cui all’art. 3, secondo le norme che saranno stabilite dal regolamento di esecuzione della presente legge.

In tutti i casi nei quali il pagamento del prezzo è differito, il trasferimento della proprietà è sottoposto alla condizione sospensiva del pagamento stesso entro il termine

stabilito.

Nel caso di vendita di un fondo coltivato da una pluralità di affittuari, mezzadri o coloni, la prelazione non può essere esercitata che da tutti congiuntamente. Qualora

alcuno abbia rinunciato, la prelazione può essere esercitata congiuntamente dagli altri affittuari, mezzadri e coloni purché la superficie del fondo non ecceda il triplo

della complessiva capacità lavorativa delle loro famiglie. Si considera rinunciatario l’avente titolo che entro quindici giorni dalla notificazione di cui al co. 4° non abbia comunicato agli aventi diritto la sua intenzione di avvalersi della prelazione.

Se il componente di famiglia coltivatrice, il quale abbia cessato di far parte della condizione colonica in comune, non vende la quota del fondo di sua spettanza entro

cinque anni dal giorno in cui ha lasciato l’azienda, gli altri componenti hanno diritto a riscattare la predetta quota al prezzo ritenuto congruo dall’Ispettorato provinciale dell’agricoltura, con le agevolazioni previste dalla presente legge, sempreché l’acquisto sia fatto allo scopo di assicurare il consolidamento di impresa coltivatrice

familiare di dimensioni economicamente efficienti. Il diritto di riscatto viene esercitato, se il proprietario della quota non consente alla vendita, mediante la procedura giudiziaria prevista dalle vigenti leggi per l’affrancazione dei canoni enfiteutici.

L’accertamento delle condizioni o requisiti indicati dal precedente comma è demandato dall’Ispettorato agrario provinciale competente per territorio.

Ai soggetti di cui al co. 1° sono preferiti, se coltivatori diretti, i coeredi del venditore.

Le finalità della prelazione appaiono di tutta evidenza:

Considerate le finalità politiche della legge, la giustificazione della prelazione non tarda ad affiorare. La priorità nell’acquisto, a parità di condizioni, è attribuita agli

affittuari coltivatori diretti e ai mezzadri, ai coloni parziari e ai compartecipanti, singoli o riuniti in cooperative, per i trasferimenti a titolo oneroso o per le concessioni

in enfiteusi dei fondi da loro coltivati. L’istituto, che si presenta come una species del genus della prelazione legale assistito da retratto, è destinato ad agire come strumento per indirizzare la circolazione delle terre verso la meta della proprietà coltivatrice, che la legge assume degna di particolare favore. Anzi, sotto questo profilo direi che la prelazione opera nella circolazione dei fondi, imprimendo una direzione ulteriormente qualificata; l’avvia verso colui che già esercita l’impresa sulla terra oggetto di trasferimento. 

(Bassanelli, La prelazione legale per lo sviluppo della proprietà coltivatrice, in Riv. dir. agr., 1972, I, pp. 84).

 

La l. 17/1971, senza eliminare il presupposto soggettivo fondamentale per l’attribuzione del diritto di prelazione (la qualifica di coltivatore diretto dell’avente diritto) innova quanto al diritto di prelazione, sia rispetto ai casi in cui esso è consentito, sia estendendolo ad altri soggetti.

 

Art. 4. Nella concessione dei mutui per l’acquisto di fondi rustici a scopo di formazione o di ampliamento della proprietà coltivatrice di cui al precedente art. 2, deve essere data preferenza:

1) alle operazioni proposte nell’esercito del diritto di prelazione o di riscatto previsto dall’art. 8 della l. 26.5.1965, n. 590, con le modifiche previste nella presente legge, e comunque agli acquisti effettuati dai coltivatori insediati sui fondi;

2) alle operazioni che, realizzando un accorpamento di fondi rustici, rivestono finalità di ricomposizione fondiaria, indipendentemente dalla estensione dei terreni acquisibili, purché destinate ad ampliare le aziende e a fermare valide proprietà diretto-coltivatrici sotto il profilo sia tecnico sia economico;

3) alle operazioni di acquisto effettuate dai coltivatori profughi dalla Libia. A decorrenza dal 1.6.1972 le regioni nella propria competenza legislativa potranno stabilire anche propri criteri preferenziali nei limiti dei princìpi fondamentali di cui all’art. 117 della Costituzione.

Art. 7. Il termine di quattro anni previsto dal co. 1° dell’art. 8 della l. 26.5.1965, n. 590, per l’esercizio del diritto di prelazione è ridotto a due anni.

Detto diritto di prelazione, con le modifiche previste nella presente legge, spetta anche:

1) al mezzadro o al colono il cui contratto sia stato stipulato dopo l’entrata in vigore della l. 15.9.1964, n. 756;

2) al coltivatore diretto proprietario di terreni confinanti con fondi offerti in vendita, purché sugli stessi non siano insediati mezzadri, coloni, affittuari, compartecipanti od enfiteuti coltivatori diretti.

Nel caso di vendita di più fondi ogni affittuario, mezzadro o colono può esercitare singolarmente o congiuntamente il diritto di prelazione rispettivamente del fondo coltivato o dell’intero complesso di fondi.

 

Particolare rilievo ha l’art. 7 della legge:

 

L’art. 7 sembra dettato nel senso più favorevole per i conduttori e nel contempo per ampliare i poteri di questi; onde il diritto di prelazione deve intendersi concesso: a) per il caso di vendita di un unico appezzamento di terreno congiuntamente condotto, in forza di un unico rapporto, da più coloni parziari o più affittuari coltivatori diretti (inipotizzabile essendo un unico rapporto fra concedente e più mezzadri, ché notoriamente, solo al capo della famiglia colonica spetta la denominazione di mezzadro): il diritto dovrà essere esercitato da tutti congiuntamente e per l’intero fondo, od anche, ove alcuno rinunci, da parte degli altri, ma sempre per l’intero; b) per il caso di vendita congiunta da più appezzamenti di terreno anche se contigui, formanti un tutto unico e condotti ciascuno da un unico soggetto (o più soggetti): i coltivatori avranno diritto a esercitare la prelazione ciascuno per il terreno da esso condotto (ed il prezzo da corrispondere sarà quindi pari a una quota di quello globale richiesto dal concedente o locatore, proporzionale al valore dell’appezzamento acquistato dal singolo), o tutti congiuntamente; c) come conseguenza di quanto sub b), anche per il caso di alienazione congiunta del fondo condotto dal coltivatore e di altro bene, (sia questo o meno costituito da un altro appezzamento di terreno), nella qual ipotesi l’acquisto sarà operato ovviamente solo per il primo e il prezzo sarà proporzionale come alla lettera b). A detti casi, per completezza aggiungeremo i seguenti: d) l’ipotesi di vendita di quota determinata del fondo (cfr. Cass. 20.9.1971, n. 2616; e) il caso di vendita di quota ideale del fondo (cfr. Trib. Lucca, 14.4.1972): «la vendita proquota non soltanto non è prevista tra le cause di esclusione del diritto di prelazione (art. 8, co. 2°), ma è addirittura contemplata nell’ultimo comma del citato art. 8. Invero, là dove la legge parla di coeredi del venditore che sono preferiti al mezzadro, altro non può significare che alcuni comproprietari facenti parte di una comunione ereditaria, decidono di vendere la loro quota mentre gli altri coeredi intendono far valere il loro diritto di prelazione.

(Recchi, in Riv. giur. agr., 1973, p. 63).

 

Il diritto di prelazione è esteso anche alle cooperative agricole dalla l. 817/1971.

 

Art. 16. La formazione della proprietà diretto-coltivatrice da parte di cooperative agricole di braccianti, compartecipanti, coloni, mezzadri, fittavoli e altri coltivatori della terra, è agevolata laddove sussistano condizioni sociali, economiche, produttivistiche che, a parere delle amministrazioni pubbliche preposte, consentano una efficiente conduzione associata dei terreni, sia che venga attuata con proprietà cooperativa a conduzione unita dei poderi sia con la divisione dei terreni tra i soci. A tale fine è autorizzato il limite di impegno di lire 150 milioni per gli anni 1971 e 1972 e di lire 130 milioni per ciascuno degli anni dal 1973 al 1976 per la concessione del concorso dello Stato nel pagamento degli interessi sui mutui di cui al decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 24.2.1948, n. 114, e successive modificazioni e integrazioni.

Le annualità relative saranno iscritte nello stato di previsione della spesa del Ministero dell’Agricoltura e delle foreste.

Il tasso di interesse dei mutui di cui al presente articolo, da porsi a carico delle cooperative beneficiarie, è stabilito, nei limiti delle disponibilità esistenti sulle predette autorizzazioni di spesa, nella misura dell’1%. Il concorso dello Stato per dette operazioni è calcolato in conformità a quanto previsto dall’art. 34 della l. 2.6.1961, n. 454 con riferimento a una durata del mutuo di 30 anni qualunque sia l’effettiva durata dell’operazione. Il diritto di prelazione di cui all’art. 8 della l. 26.5.1965, n. 590 con le modifiche previste dalla presente legge, si applica anche alle cooperative agricole.

È data facoltà al singolo coltivatore diretto che ha acquistato il terreno con le agevolazioni della l. 26.5.1965, n. 590, di aderire a socio di una cooperativa agricola per la conduzione dei terreni trasferendo a essa la proprietà, previo nulla osta dell’autorità che ha concesso le predette agevolazioni e dell’istituto di credito mutuante e sempreché si tratti di fondo finitimo con l’azienda cooperativa.

In tal caso la cooperativa può accollarsi i mutui esistenti sui terreni mantenendo tutte le agevolazioni in atto.

Secondo i primi commenti, il diritto di prelazione delle cooperative agricole ha da essere riconosciuto non solo alle cooperative che conducono fondi altrui (in forza di contratti di affitto o di colonia parziaria – ovvero di contratti associativi a questa riconducibili per identità sostanziale degli elementi costitutivi, ove si ritenga che alla loro qualificazione come contratti di colonia parziaria osti la natura di persona giuridica della cooperativa: non certo di mezzadria, che notoriamente presuppone la esistenza di una famiglia mezzadrile non associata in cooperativa); bensì anche a quelle che siano proprietarie di fondi, relativamente, si intende, alla vendita di terreni che con questi confinino.

Non appare infatti lecito all’interprete limitare il diritto di prelazione solo alle prime, proprio relativamente a una legge (cfr. art. 16, co. dal 1° al 4°) che ha riconosciuto la necessità di agevolare «la formazione della proprietà diretto-coltivatrice da parte delle cooperative agricole», le quali, dalla l. 590/1965 (art. 1) erano già state equiparate, ai fini della concessione di mutui per l’acquisto dei fondi, ai coltivatori diretti, per l’evidente considerazione che – anche se non possano qualificarsi (secondo una parte della dottrina e della giurisprudenza) come diretto-coltivatrici – esse purtuttavia conducono fondi avvalendosi dell’epoca personale dei propri soci e delle loro famiglie.

(Recchi, in Riv. giur. agr., p. 66).

 

Se il diritto di prelazione legale potrebbe essere definito come diritto potestativo di acquistare l’immobile su cui si esercita l’attività di coltivatore diretto, di affittuario, di agricoltore, residuano alcuni problemi.

 

Davvero si potrebbe vedere nella prelazione legale a favore di chi gestisce l’impresa familiare su terra altrui, una delle manifestazioni più pregnanti della dinamica evolutiva del lavoro verso l’acquisto della proprietà. Il rapporto che deriva dal contratto agrario, protraendosi nel tempo, spesso determina una condizione di perfetto equilibrio tra le energie lavorative del gruppo familiare, i capitali di anticipazione e gli ordinamenti colturali dai quali dipendono e il fabbisogno di lavoro e la entità della produzione; un equilibrio, che, una volta raggiunto, rende efficiente l’impresa, assicurando l’adesione totale tra la famiglia e il fondo, la l. 590/1965 dell’art. 3, co. 1°, pone tra i requisiti del soggetto beneficiario della prelazione, la permanenza della famiglia sul fondo da almeno quattro anni: un periodo troppo breve per dare i risultati di cui ora si parlava; poi improvvisamente la l. 14.8.1971, n. 817, art. 7 co. 1° ha ridotto il periodo minimo a due anni, rinunciando alle garanzie che nel lungo decorso del rapporto nascono dal reciproco adattamento della terra e del lavoro nello sforzo d’integrarsi nell’«impresa efficiente».

La innovazione lascia trasparire la deliberata volontà del legislatore di non tenere in conto alcuno i dati soggettivi personali dei futuri proprietari (ed alla quale la

citata circolazione ministeriale tendeva porre rimedio […] e ripropone i dubbi sulla sincerità del proposito di dare vita a «imprese efficienti.

(Bassanelli, La prelazione legale per lo sviluppo della proprietà coltivatrice, cit, p. 84).

 

La legge indica chiaramente il suo favore verso il coltivatore diretto, verso l’affittuario, verso l’impresa familiare (e quindi la proprietà familiare coltivatrice), secondo un orientamento confermato dalla interpretazione della Corte Costituzionale (sent. 107/1974):

 

Inoltre, la norma in esame, come è precisato nella relazione parlamentare di maggioranza al disegno di legge divenuto l. 26.5.1965, n. 590, persegue il particolare fine

di ordine sociale di assicurare il consolidamento dell’impresa coltivatrice familiare.

E la dottrina ha individuato la ratio della norma negli intenti di evitare il frazionamento del fondo, su cui si esercita l’impresa agricola, e, ogni caso, di evitare l’intromissione, in tale impresa, di persone estranee alla famiglia coltivatrice, che potrebbero pregiudicare la regolare amministrazione della cosa comune e sopratutto lo sviluppo tecnico ed economico dell’impresa.

 

E la legge intende tutelare il diritto all’accesso alla proprietà coltivatrice anche nei confronti di tentativi di servirsi di meccanismi societari per eludere questo diritto (anche se poi, gli strumenti che la legge appresta non sembrano adeguati a perseguire le finalità che essa si propone). 

 

Il disegno di legge, che si presenta per l’approvazione, trova la sua giustificazione sociale e giuridica in un fenomeno davvero inquietante che si sta verificando da quando le l. 26.5.1965, n. 590, e 14.8.1971, n. 817, hanno attribuito ai coltivatori di fondi, trasferiti a titolo oneroso, il diritto di prelazione e di riscatto. Infatti, sempre più frequentemente vengono costituite società di capitale talvolta anche di modesta entità, per la gestione di aziende agricole al fine di evitare attraverso il trasferimento delle azioni e delle quote la soggezione al diritto di prelazione e di riscatto.

In altri termini, si è venuto a creare, dietro il comodo paravento dei meccanismi societari, un mezzo di evasione del pur riconosciuto diritto costituzionale dei lavoratori alla formazione di una piccola proprietà, alla ricostituzione delle unità produttive e all’accesso alla proprietà coltivatrice secondo quanto disposto dagli artt. 42, 44 e 47 della Costituzione. Inoltre, attraverso lo schermo di società di capitali già esistenti o espressamente costituite, si è venuto anche a creare un caso di palese ed evidente discriminazione sia in danno dei coltivatori diretti insediati in terreni di proprietà di società di capitali o con essi confinanti, sia in danno delle stesse persone fisiche proprietarie di terreni agricoli assoggettate al regime della prelazione agraria. Nel primo caso, vi è disparità di diritti con i coltivatori dipendenti da aziende di proprietà di persone fisiche; vi è disparità di trattamento tra il proprietario soggetto alla legge e chi, protetto dell’usbergo della società di capitale, può evadere le norme sulla prelazione. Occorre, quindi, per ragioni di carattere sociale e costituzionale concedere al coltivatore, sia esso insediato o confinante, l’opportunità di divenire egli stesso titolare dell’azione o della quota della società di capitale, nel caso in cui il titolo venga trasferito. 

(Rel. sen. Fabbri e altri al disegno di legge sulla proprietà contadina).

 

A questo proposito si è osservato:

 

La normativa proposta si rivela del tutto inidonea allo scopo, e per contro capace di suscitare infondate aspettative, nonché delusioni e situazioni di conflitto non lievi: e perciò, va lasciata cadere. E del resto, è da dire anche che per risolvere la problematica cui ha riguardo il disegno in esame, non occorrerebbe creare nuovi strumenti legislativi, ma basterebbe applicare correttamente – alla luce dell’esperienza di altri ordinamenti, più che del nostro – i principi in tema di «superamento», o «trasparenza» o, comunque, «disconoscimento» della personalità giuridica sociale, e cioè di disapplicazione della normativa in materia: nei casi qui considerati, l’impiego dello schema o strumento

della società di capitali per eludere norme di legge dovrebbe logicamente portare al risultato della non riconoscibilità dei tipici effetti della personalità giuridica limitatamente,

appunto, a quelle situazioni in cui il riconoscimento porterebbe invece proprio a dover ammettere conseguenze contrastanti con le finalità perseguite dal legislatore.

(Verrucoli, In tema di prelazione, cit., p. 443).

 

 

La tipizzazione dei contratti agrari

 

A chi si è occupato più a fondo della materia, non è difficile intravedere in

questo cammino dei contratti agrari verso forme tipizzate un eloquente disegno

di politica legislativa.

 

La sostituzione di schemi rigidi ad altri più duttili (e flessibili dinanzi alla varietà delle situazioni economiche e alla singolarità degli interessi in gioco) non risponde soltanto alla logica dei codici moderni, i quali per loro indole sono tratti ad affermare il primato della legge scritta e così a comprimere l’area dell’autonomia privata e delle  norme di produzione spontanea. Certo questa logica opera anche nel campo dei contratti agrari e qui, come altrove, impone una rigorosa tipicità di figure e di moduli negoziali. Ma, accanto a essa, e confluendo con essa in una singolare concordanza dei risultati, opera un disegno di politica legislativa, volto a semplificare l’infinita varietà dei contratti agrari e a ridurli all’antitesi di proprietà e impresa, o, se si vuole, di proprietà e lavoro. Non spetta al giurista di valutare l’opportunità di questa linea politica, né la convenienza delle scelte economiche compiute dal legislatore; ma egli non può sottrarsi al dovere, da un lato, di chiarire le connessioni tra le proposte innovatrici e l’intero sistema del diritto privato; e, dall’altro, di segnalarne i limiti di compatibilità con i principi e le garanzie costituzionali. 

(N. Irti, Vicenda storica e autonomia giuridica del contratto di mezzadria,  in Riv. dir. agr., 1976, I, pp. 141 ss.).

 

La parola storica dei contratti agrari è distintamente disegnata da Natalino Irti:

 

Se volessimo fissare in una immagine grafica la storia dei contratti agrari associativi (e, segnatamente, di quel modello, o tipo esemplare, che è il contratto di mezzadria),

dovremmo tracciare una parabola che si apre e si chiude nel segno dell’affitto di fondo rustico. Singolare storia, in cui il contratto agrario associativo, dopo essersi liberato a fatica dallo schema della locazione e avere a poco a poco guadagnato i caratteri propri della società, comincia di nuovo a declinare, o piuttosto viene imperativamente risospinto, verso la figura dell’affitto.

È nota la posizione dei contratti agrari associativi nel c.c. del 1865, che disciplinava la mezzadria o colonia in un capo del tit. 9° del Lib. III: titolo dedicato al contratto

di locazione. La mezzadria è configurata come specie o forma interna della locazione di cose, sicché l’art. 1647, che apre appunto il capo destinato alla disciplina del contratto, stabilisce: «Colui che coltiva un fondo col patto di dividere i frutti col locatore, si chiama  mezzaiuolo, mezzadro, massaro o colono, e il contratto che ne risulta, si chiama mezzadria, masseria o colonia. Sono comuni a tale contratto le regole stabilite in generale per le locazioni di cose, e in particolare per le locazioni di fondi rustici colle modificazioni seguenti». Il codice del 1865 mostrava così di scegliere, in un dibattito dottrinario fervido già da secoli, la tesi della mezzadria come

sottotipo della locazione di cose: ossia la linea del Code Napoléon, e non l’altra, rimasta isolata, del c.c. austriaco del 1811 (par. 1103) e di taluni codici preunitari (art.

1763 del c.c. parmense del 1820), che avevano invece francamente ricondotto la mezzadria nello schema del rapporto sociale. La definizione dell’art. 1647 serviva

bensì a raccogliere in una figura generale l’innumerevole varietà di contratti muniti di clausola parziaria, ma, insieme, disconosceva i caratteri specifici della mezzadria:

quei caratteri, che pure affioravano tra le norme del capo 4 e che apparivano poco o male compatibili con la locazione di cose. Così, nell’art. 1648, che riservava

ad ambedue le parti il rischio della perdita dei frutti per caso fortuito; nell’art. 1656, per cui le sementi dovevano essere fornite in comune dal locatore o dal mezzaiuolo;

o, infine, nell’art. 1659, che accennava alla presenza di una casa colonica.

La disciplina dettata dal codice del 1865 esprimeva i termini e le linee dell’evoluzione futura. L’intrinseca ambiguità della categoria dell’art. 1647 – nella quale si riconoscevano sia l’affitto e il contratto di lavoro con clausola parziaria, che la vera società nell’esercizio dell’attività agricola – era destinata a sciogliersi nel dibattito dottrinario e nella realtà concreta, restituendo a ciascun contratto i caratteri tipici e individualizzanti. L’art. 1647 apriva così – sotto lo stimolo delle norme consuetudinarie degli accordi privati e collettivi (che, nell’ordine delle fonti, l’art. 1654 faceva prevalere sulla disciplina legislativa) – un processo di specificazione, che mirava ad adeguare le forme giuridiche alla sostanza economica dei rapporti; e dunque a separare l’ipotesi in cui il proprietario, sottotraendosi all’impegno di dirigere l’azienda agricola e accordando piena libertà di iniziativa all’altra parte, si limita a esigere un canone variabile in natura, dall’ipotesi in cui egli si associa con il coltivatore e gestisce un’attività comune. Lo schema generale dell’art. 1647 entrava così in crisi, e lasciava emergere, accanto alla locazione di fondo rustico con canone parziario, gli elementi specifici del contratto agrario associativo.

Non si nega che il fascismo abbia riconosciuto nella mezzadria uno strumento utile alla propria politica rurale, una forma di collaborazione tra la classe dei proprietari e la classe dei lavoratori della terra, ma si nega che la storia e il destino della mezzadria (come della colonia parziaria) possano farsi coincidere con la storia e il destino di quel regime.

Dalla legislazione del 1865, nella quale sembra avere prevalenza il contratto di mezzadria (non intimamente connesso con le vicende del «regime»), contratto associativo

al quale si ricollegano importanti effetti sotto il profilo strutturale ed economico.

Il contratto agrario associativo riscopriva così l’antica autonomia; e riaffermava la singolarità della propria struttura nei confronti e della locazione di cose, in cui il proprietario si disinteressa dell’esercizio dell’azienda, e del contratto di lavoro subordinato, che fa discendere l’altra parte al ruolo di mero lavoratore. Il criterio sistematico adottato sta proprio nella categoria dell’impresa, ossia dell’attività economica esercitata professionalmente al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (art. 2082 e 2135). Così la mezzadria e gli altri contratti agrari associativi, strappati oramai al tronco dell’affitto, sono concepiti come forme di esercizio dell’impresa agricola: collocati, cioè, in un regime giuridico, che non gravita più sulla proprietà dei beni (il vecchio art. 1647 apparteneva al Lib. III «Dei modi di acquistare e di trasmettere la proprietà e gli altri diritti sulle cose»), ma sulla nozione dinamica di attività.

L’antitesi fra proprietà e impresa, fra posizione statica di una parte e posizione dinamica dell’altra, è superata nella struttura sociale del rapporto, nell’assunzione di un comune rischio economico. Imprenditore non è soltanto il coltivatore, né soltanto il proprietario della terra: la qualifica di imprenditore spetta a entrambi i soggetti. Il co. 1° dell’art. 6 (applicabile, per il rinvio dell’art. 12, anche alla colonia parziaria), stabilisce, infatti che «il mezzadro collabora con il concedente alla direzione dell’impresa», e che «a tal fine le parti concordano tutte le decisioni di rilevante interesse secondo le esigenze della buona tecnica agraria». Il carattere associativo della mezzadria e della colonìa parziaria trova così la forma giuridica più adeguata e compiuta: se comune è il rischio dell’attività economica, se tutte le parti assumono la qualifica di imprenditori, allora anche i poteri di gestione spettano a entrambe e vanno esercitati con concorde volontà. La l. 756/1964 costituisce perciò il punto di arrivo, il risultato storicamente necessario, del processo di separazione dei contratti agrari associativi dallo schema dell’affitto. Un risultato conseguito, non solo per una più accorta e vigile elaborazione di categorie giuridiche, quanto per l’emersione del concetto di impresa, cioè di un’attività economica che – superando l’antitesi fra proprietà della terra e prestazione di energie lavorative – è esercitata insieme dalle parti, con comune assunzione di iniziative e di rischio.

(Irti, Vicenda storica e autonomia giuridica del contratto di mezzadria, cit., pp. 145 ss.).

 

La l. 3.5.1982, n. 203 ha disposto la nota conversione in affitto dei contratti associativi agrari.

 

 

Leggi sui contratti agrari e contenzioso giudiziario

 

Nel maggio scorso è stata finalmente approvata la legge sui contratti agrari: una delle leggi più travagliate – forse la più travagliata in assoluto – della recente storia legislativa del nostro paese.

 

Preceduta da molte polemiche, diluite e in parte stemperate nel corso di un lunghissimo iter parlamentare, la l. 3.5.1982, n. 203 (Norme sui contratti agrari) fin dalla sua entrata in vigore ha fatto esplodere un contenzioso giudiziario che ha investito un numero sempre maggiore di rapporti mezzadrili e nello stesso tempo ha colpito, sia pure non in misura così violenta, anche gli altri rapporti agrari.

Si ripete così un fenomeno che in questo dopoguerra si è puntualmente verificato ogni qualvolta è stata modificata la disciplina codicistica dei contratti agrari, quando

concedenti si sono rivolti agli organi giudiziari per la difesa dei propri interessi  compromessi dalle conquiste del movimento contadino, confidando, da un lato, nella omogeneità con la classe giudiziaria – per tanta parte, come è noto, di estrazione proprietaria – e, dall’altra, nelle lungaggini e nei costi del processo e sopratutto nella tradizionale diffidenza contadina nei confronti della «giustizia»; una diffidenza però – è necessario rilevare – che è venuta progressivamente attenuandosi man mano che i coltivatori hanno preso coscienza dei propri diritti.

Sarebbe interessante analizzare i risultati di questo alto tasso di litigiosità provocato dalla legislazione agraria: va detto comunque – e basterebbe sfogliare le raccolte di giurisprudenza per rendersene conto – che, almeno fino a un recente passato, quando più forte era quella omogeneità sociale, la fiducia dei concedenti è stata ben riposta: lo dimostrano la pretestuosità di alcune motivazioni, il formalismo di molte argomentazioni, addirittura il livore anticontadino che traspare con stupefacente candore in qualche sentenza. Se si aggiunge che la prospettiva di un lungo  e defatigante processo costringeva molte volte il concessionario ad abbandonare, e di fatto a soccombere, si può comprendere il peso avuto dall’apparato giudiziario nel processo di espulsione dalle campagne dei coltivatori a contratto.

D’altra parte l’arma ricattatoria del ricorso alla Corte Costituzionale, che per molto tempo si era rivelata quasi completamente spuntata, ha finito nell’ultimo decennio

– dopo il noto revirement dei giudici costituzionali in materia di proprietà e proprio quando si facevano spazio, almeno tra i giudici di merito, nuovi indirizzi interpretativi – per risultare vincente: il giudizio della Corte Costituzionale è diventato pertanto l’estremo baluardo a difesa degli interessi proprietari che hanno così spinto al livello più alto il conflitto tra il potere giudiziario e il potere legislativo.

Per comprendere allora fino in fondo la nuova legge è necessario non solo analizzarne il contenuto e il significato all’interno del contesto normativo generale, ma anche valutarne l’impatto con una realtà che rischia di vanificare ancora una volta la portata riformatrice dell’intervento legislativo.

Il contenuto della riforma

La legge, pur se non è intitolata testualmente alla riforma, si presenta, per la sua storia e per i suoi contenuti, come legge di riforma dei contratti agrari.

Certo, il legislatore non ha avuto la pretesa di sostituire l’intero corpo normativo previgente (significativo in proposito è l’art. 60 che prevede la delega al governo per l’emanazione di un testo unico); pur tuttavia la legge contiene principi che in parte modificano profondamente il regime dei contratti, rappresenta il punto di arrivo

di una vicenda, oltre che lunga assai complessa – iniziata in sede parlamentare nel 1948 allorché dapprima la sinistra (Bosi e altri) al Senato e poi il ministro dell’Agricoltura

(Segni) alla Camera presentarono le prime proposte di riforma dei contratti agrari – e infine attua una promessa fatta dal legislatore fin dal 1952, quando

prorogava i contratti «fino al termine dell’annata agraria in corso al momento dell’entrata in vigore di una nuova legge contenente norme di riforma dei contratti

agrari» (art. 1, l. 11.7.1952, n. 765).

Legge di riforma, ma non la legge di riforma, poiché alcuni principi riformatori erano stati già introdotti nell’ordinamento. Per questi principi la nuova legge si limita

a una conferma o a un perfezionamento. In particolare, per quanto riguarda l’equo canone – l’istituto più bersagliato dallo schieramento antiriformatore e, entro

certi limiti, minato dalla stessa Corte Costituzionale – il legislatore introduce una serie di norme che dovrebbero superare l’ostacolo della costituzionalità e conferma

in maniera evidentissima il sistema dell’equo canone come scelta discrezionale del legislatore per raggiungere obiettivi di equità; tale conferma appare, tra l’altro, in una delle ultime norme, dettata quasi di sfuggita e per questo più significativa, e cioè nell’art. 62 dove si sottolinea la non identificabilità dell’equo canone con il reddito dominicale (e pertanto in insanabile contraddizione con l’art. 8).

Per quanto riguarda l’indennizzo in favore dei concessionari escomiati il principio, introdotto dalla nota sentenza della Corte Costituzionale. n. 107/1974 (che, come

la dottrina non ha mancato di rilevare, si è così surrettizialmente sostituita al legislatore) limitatamente alla ipotesi di escomio del coltivatore per trasformazione, è

stato reso generale e applicabile in tutti i casi di risoluzione incolpevole del contratto (art. 43).

I nuovi elementi contenuti in questa legge devono invece essere visti, da un lato, nel superamento del regime di proroga a tempo indeterminato e nella trasformazione in affitto dei contratti di mezzadria, colonìa, compartecipazione, soccida con conferimento di pascolo e, dall’altro, nella possibilità di nuove tipologie contrattuali.

Oltre agli aspetti sostanziali vi sono novità processuali di rilievo, tra le quali in particolare si deve menzionare l’obbligo del tentativo di conciliazione (art. 46).

Questi elementi riformatori riescono, almeno in parte, a offrire una chiave di lettura della sistematica della legge, che per altro appare notevolmente disorganica.

Innanzi tutto la legge, intesa come riforma, è fondamentalmente una legge che riguarda i contratti stipulati da coltivatori. Questo non significa che l’affitto a conduttore non coltivatore sia assente: ma a esso – già riformato da una normativa specifica (vd. sopratutto la l. 22.7.1966, n. 606) – oltre a qualche riferimento sparso (per es. art. 43) viene dedicato un capo (il 4) del tit. 1° composto di soli tre articoli che o contiene previsioni più o meno necessitate (artt. 22 e 24) o si limita a rinviare ad altre norme che riguardano l’affitto a coltivatore diretto (art. 23).

Inoltre le riforme cui si è accennato segnano in gran parte la sequenza dei primi due titoli della legge. Il primo contiene «disposizioni integrative e modificative dell’affitto

di fondi rustici» e trova nel capo 1 il momento centrale perché esso, fissando nell’art. 1 la durata quindicinale dei contratti di affitto a coltivatore diretto, sanziona, sia pure non con decorrenza immediata (a causa dell’ulteriore proroga, a tempo determinato, dei «contratti in corso alla data di entrata in vigore della presente legge e per quelli in regime di proroga» di cui all’art. 2), la fine di un regime quasi quarantennale di proroga; le norme sulla durata di cui al capo 1 sono pertanto da leggere unitamente all'art.40, sulla cessazione di tale regime, e all’art. 42, sul diritto di ripresa per i contratti prorogati e per quelli in corso. Invece il capo 2, sulle «modifiche della disciplina sulla determinazione dell’equo canone», e il capo 3, che, dettando «altre disposizioni per l’affitto a coltivatore diretto», contempla sopratutto i miglioramenti, pur riguardando problemi di grande importanza, si limitano a perfezionare il sistema vigente.

Il tit. 2° riguarda la «conversione in affitto dei contratti in corso di mezzadria, di colonìa parziaria, di compartecipazione agraria e di soccida»; tale «conversione» presuppone

ovviamente un giudizio di sfavore nei confronti di questi contratti: il giudizio era già stato espresso per la mezzadria dall’art. 1, l. 15.9.1964, n. 756, ed è espresso altresì, relativamente anche agli altri contratti, in questa stessa legge, sia pure in una sede singolare quale è il co. 2° dell’art. 45, che pertanto deve essere, sotto

questo aspetto, legato al tit. 2°. L’automatica riconduzione all’affitto di questi contratti stipulati dopo l’entrata in vigore della legge sancisce d’altra parte il destino della categoria tradizionale dei c.d. contratti associativi, anche se, a causa delle eccezioni alla «conversione», una parte di quelli in corso continuerà a sopravvivere, comunque non oltre da durata prevista dagli artt. 30 e 34.

Per quanto riguarda le nuove tipologie contrattuali, esse non devono tanto essere viste nelle «forme associative» di cui all’art. 36, perché queste, a parte l’indeterminatezza

della normativa, difficilmente possono essere ricondotte alla nozione di contratto agrario, quanto nelle forme che potranno essere poste in essere sulla base dei co. 1° e 3° dell’art. 45 e con i limiti di cui al co. 2° dello stesso articolo. Tale articolo, che, sotto certi aspetti, è il più importante di tutta la legge, ha una duplice

valenza, evolutiva e involutiva: evolutiva, perché l’autonomia individuale controllata (co. 1°) e l’autonomia collettiva (co. 3°) possono porre le condizioni per un’evoluzione

contrattuale – dei contenuti e dei tipi – sulla quale, avendo oramai il legislatore fatto questa scelta, non ha senso un giudizio aprioristico, potendo contenere sia elementi positivi che negativi, a seconda degli interessi che riusciranno a prevalere; involutiva, perché contiene i presupposti per mettere nel nulla, sempre con i limiti di cui al co. 2°, tutta la legge e pertanto rappresenta il massimo segno di contraddizione della legge (a meno di non ampliare, come alcuni hanno tentato anche al fine di evitare la censura di irrazionalità legislativa, i limiti agli accordi in deroga, facendo rientrare nella materia comunque sottratta all’autonomia privata i principi fondamentali ricavabili dall’intera legge. 

(C.A. Graziani, I patti agrari, in Riv. crit. dir. priv., 1983, n. 1)

 

A tutto questo naturalmente occorre oggi molto aggiungere per una esauriente ricognizione di  materia (segue).

 

 

 

(*) Queste pagine e le altre che seguiranno si devono ad Andrea Fusaro e trascrivono  una parte di capitolo del primo tomo di Poteri dei privati e statuto della proprietà, S.e.a.m editore, Roma, volume comprensivo dei contenuti che risultano dal suo circostanziato indice.

 

 

INDICE  DEL  PRIMO TOMO

 

Nozione e rilevanza costituzionale

PREMESSA 7

CAPITOLO PRIMO

Per una definizione della proprietà 9

1.1 La proprietà nel vocabolario giuridico 9

1.2 La prospettiva costituzionale 20

1.3 Nel quadro dei diritti dell’uomo 22

1.4 Le new properties 29

CAPITOLO SECONDO

La proprietà nei modelli stranieri e attraverso la comparazione 45

2.1 La proprietà nei modelli stranieri notevoli 45

2.1.A) Property 45

2.1.B) Proprieté 66

2.1.C) Eigentum 74

2.2 Lo ius aedificandi 79

2.3 L’espropriazione 92

2.4 Le immissioni 100

2.5 Diritti e rimedi in prospettiva comparatistica 107

2.6 Il trust 119

2.7 Trasferimento della proprietà e sistemi di pubblicità 125

2.8 Il numero chiuso dei diritti reali 140

471

CAPITOLO TERZO

La prospettiva dell’analisi economica 149

3.1 Un metodo di studio della proprietà. L’analisi economica del diritto 149

3.1.A) Introduzione 149

3.1.B) Le premesse dell’analisi economica del diritto:

il teorema di Coase 151

3.1.C) Diritto di proprietà e teoria economica 161

3.1.D) Costi transattivi e disciplina della proprietà:

la tesi di Posner 165

3.1.E) Costi transattivi e disciplina della proprietà:

la tesi di Calabresi e Melamed 170

3.1.F) La letteratura successiva 178

3.1.G) Alcuni ripensamenti 180

3.2 I property rights nell’analisi economica 207

3.2.A) La prospettiva rimediale 207

3.2.B) Il matrimonio tra comparazione e analisi economica 210

3.2.C) In tema di property rights 228

3.3 Il numero chiuso dei diritti reali tra teoria economica e property law 235

3.4 Le new properties nell’analisi economica 252

CAPITOLO QUARTO

La funzione sociale della proprietà 257

4.1 La proprietà nella Costituzione repubblicana del 1948.

I lavori dell’Assemblea Costituente 257

4.2 Le diverse letture dell’art. 42 Cost. 262

4.3 Le garanzie costituzionali della proprietà privata 279

4.4 La funzione sociale della proprietà. Profili storici e ideologici 291

4.5 Proprietà privata ed espropriazione 297

4.6 L’occupazione acquisitiva 304

4.7 La funzione sociale e la «socialità» nella Costituzione 318

4.8 La funzione sociale e la Costituzione materiale 320

4.9 Gli statuti della proprietà e la disciplina dei beni 331

4.10 La funzione sociale alla vigilia del nuovo millennio 340

CAPITOLO QUINTO

La proprietà e le proprietà 357

5.1 La proprietà tra diritto soggettivo e interesse legittimo 357

5.2 La proprietà e le proprietà 365

5.3 La proprietà conformata e la proprietà vincolata 369

5.4 Titolarità individuale e fruizione collettiva (beni culturali

e ambientali) 381

5.5 La proprietà edilizia 386

5.5.A) Le peculiarità della proprietà edilizia 386

5.5.B) Il bene «casa» e il diritto all’abitazione 389

5.5.C) La disciplina urbanistica ed edilizia 400

5.5.D) La proprietà dei suoli urbani 409

5.6 La proprietà agraria 412

5.6.A) La proprietà agraria e la disciplina del Codice civile 412

5.6.B) La proprietà agraria nella Costituzione 415

5.6.C) La legislazione speciale del primo dopoguerra:

la riforma agraria 423

5.6.D) L’accesso alla proprietà contadina e il diritto di prelazione

a favore dei coltivatori diretti 426

5.6.E) La tipizzazione dei contratti agrari 432

5.7 La proprietà dei gruppi 437

5.8 La proprietà fiduciaria 456

5.9 La proprietà-garanzia 465

Tavola delle abbreviazioni dei periodici italiani citati 470

 

INDICE  DEL  SECONDO TOMO

 

CAPITOLO PRIMO

 

Dal Codice napoleonico al modello contemporaneo 7

1.1 I poteri del proprietario nella definizione di «proprietà»

del codice napoleonico 7

1.2 Le definizioni di «proprietà» nei codici italiani preunitari 21

1.3 La proprietà nello statuto albertino 25

1.4 La disciplina della proprietà nel Codice civile italiano del 1865 29

1.5 Proprietà e impresa. La vicenda del conflitto tra proprietari

terrieri e imprenditori di trasporti ferroviari 45

1.6 Proprietà e intervento dello Stato. Le opere pubbliche

e i lavori pubblici 55

1.7 Le trasformazioni del diritto di proprietà: (a) La proprietà

come potere relativo, limitato dal diritto pubblico 60

1.8 (b) L’idea di «funzione sociale» della proprietà nelle elaborazioni

del socialismo giuridico 73

1.9 (c) La legislazione di guerra 83

1.10 (d) La funzione sociale nei testi costituzionali. La Costituzione

di Weimar 87

1.11 Verso una nuova definizione di proprietà. L’interventismo

corporativo e la codificazione del 1942 95

1.12 La legislazione speciale. Proprietà agraria e proprietà edilizia 115

1.13 L’evoluzione successiva 128

 

CAPITOLO SECONDO

 

Una vicenda da concettuale: il numero chiuso dei diritti reali 149

2.1 Introduzione 149

2.2 La definizione di un dogma: la tesi di Venezian 152

2.3 Il diritto di cacciare sul fondo altrui. Uso e servitù irregolari 156

2.4 La trascrizione degli obblighi personali 171

2.5 Il principio del numero chiuso dei diritti reali sullo sfondo

della crisi del modello tradizionale di proprietà 183

2.6 Convenzioni di lottizzazione, asservimenti, cessioni di cubatura 207

2.7 La vicenda dei diritti reali nella dottrina recente 239

 

CAPITOLO TERZO

 

L’oggetto del diritto di proprietà 251

3.1 La nozione di oggetto del diritto di proprietà 251

3.2 I limiti all’appropriazione 263

3.2.A) Res nullius, caccia e pesca, le energie 263

3.2.B) Lo statuto del corpo umano 268

3.2.C) L’informazione, i programmi per elaboratori 271

3.2.D) Suolo e sottosuolo 277

3.3 L’ambiente come bene 290

 

CAPITOLO QUARTO

 

I limiti temporali al diritto di proprietà 301

4.1 La proprietà temporanea 301

4.2 La multiproprietà 308

 

CAPITOLO QUINTO

 

Il contenuto dei poteri del proprietario 323

5.1 Le limitazioni nell’interesse pubblico 323

5.2 La disciplina urbanistica ed edilizia 357

5.2.A) Nozione e ambito dell’urbanistica 357

5.2.B) La facoltà edificatoria 384

5.2.C) Autonomia privata e disciplina urbanistica 394

5.3 Il potere dei privati di vincolare la destinazione d’uso dei beni 414

5.4 La legislazione vincolistica 423

5.5 Immissioni e tutela della salute 430

 

Tavola delle abbreviazioni dei periodici italiani citati 446 - 448

 

 

 

 

 

 


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