LA SEPARAZIONE DELLA CARRIERE
GIUDIZIARIE :
UNA VISIONE
SCIENTIFICA
di Gianfranco Notaro
1. Una volta si diceva :“Dividi e comanda”, e la
citazione può essere utile ad interpretare la paura di alcune importanti riforme
da tempo sollecitate; invero tale paura può esprimersi in un errato
atteggiamento mentale di alcuni degli operatori nel discutere un tema importante
del diritto processuale penale;quest’ultimo, come esattamente è stato rilevato,
è ottimo indicatore del grado di civiltà di un popolo.
Dividi e comanda, nel
senso che il tema della separazione delle carriere potrebbe essere in astratto
interpretato come una sorta di sottile golpe, messo in atto dall’avvocatura
penale, grazie anche a supposti suoi terminali parlamentari, al fine di
monopolizzare e dominare il processo penale, quasi servirsene a proprio
piacimento, come un giocattolo.
Lo scopo di queste modeste righe è quello di
dare un contributo all’allontanamento di questo infondato quanto pericoloso
equivoco: “dividi e comanda” è infatti un binomio che limpidamente spiega gli
interventi legislativi del diritto penale premiale, dalla legislazione
dell’emergenza terroristica sino alla gestione del pentitismo.
Invocato a
sproposito, non pare, ad avviso di chi scrive, idoneo a spiegare la necessità di
una riforma la cui impellenza poggia su altre basi.
E si tratta di basi
diverse anche dalle sempre possibili strumentalizzazioni politiche e personali
di garanzie e meccanismi giudiziari: può essere salutare mantenere il dubbio
metodico che talune riforme entusiasticamente salutate siano il frutto di
una congiunzione casuale tra esigenze private e necessità obiettive della
collettività.
Il concetto amministrativistico dell’“interesse
occasionalmente protetto” è penetrato anche nella stanza del
legislatore?
2. Lasciando all’intelligenza, all’onestà
intellettuale ed alla sensibilità di chi legge la propria personale risposta a
questa domanda, rimaniamo nel solco del tema tracciato inizialmente facendo un
salto nel passato, precisamente nel 1988.
Siamo in un momento in cui viene
attuata una importante riforma giudiziaria: abbiamo un nuovo codice di procedura
penale, che nel suo nucleo più profondo intende proporsi come un luminoso codice
di comportamento indirizzato alla mente degli operatori giudiziari e, per
tramite di essi (senza alcun bisogno di particolare esegesi mediatica), ai
cittadini.
E’ un momento di progresso umano prima ancora che giuridico: il
legislatore si limita a dare veste istituzionale ad un diverso modo di concepire
la ricerca del vero.
La confrontazione delle tesi opposte, già in ambito
epistemologico riconosciuta e provata per la sua superiore efficienza rispetto
ad una solitaria ricerca individuale, viene di peso introdotta nelle aule di
giustizia; non è un “ codice degli avvocati”, come qualcuno sprezzantemente e,
forse non disinteressatamente, ha affermato (magari per mascherare la propria
impreparazione e pigrizia verso una realtà oggettivamente nuova e copmplessa),
ma è uno sforzo per l’interesse comune alla ricostruzione dei fatti, affinché
quei fatti, seppur drammatici, valutati con serena obiettività, possano aiutare
la società tutta a purificarsi dalle sue disarmonie: è casomai “il codice della
ragione “, non il codice della paura e del sospetto del 1930, oggi, forse un po’
superficialmente e lassisticamente, rimpianto.
In fin dei conti (gli
insegnamenti di Vico sul corso della storia non saranno mai abbastanza
encomiati), si tratta di un ritorno all’antico al processo romano repubblicano,
alla laicizzazione delle ordalìe, al duello delle intelligenze che può far
storcere il naso solo a chi ne ha paura perché non lo conosce, e quindi lo
demonizza per liberarsene; i meccanismi del rito accusatorio, se diligentemente
conosciuti e padroneggiati dagli operatori non sono affatto strumentalizzabili
per far vincere le menzogne: casomai sono il migliore antidoto contro le
stesse.
La stessa Bibbia(libro di Daniele, cap. 13) offre una limpida
rappresentazione della vera sostanza del contraddittorio e del rito accusatorio:
attraverso una illuminata cross - examination, Daniele scardina le false accuse
lanciate dagli esaminati (ieri come oggi…) e salva l’innocente Susanna da un
martirio. Al laico intransigente sia sufficiente ricordare l’attenzione anche
multidisciplinare che il Consiglio Superiore della Magistratura sta
meritoriamente ponendo rispetto a queste tematiche.
3. La
separazione delle carriere dei magistrati deve partire allora da qui, dalla
conoscenza dei meccanismi cognitivi implicati dal rito accusatorio, e si
giustifica per essere una soluzione fondamentale all’esigenza metodologica di
ricostruire al meglio la verità; il tutto nella consapevolezza di come una
migliore specializzazione delle figure professionali non possa che giovare a
tutto il sistema giudiziario: cosa che in verità si afferma, non sappiamo con
quanto esito e con quanti lodevoli sviluppi pure innegabili, già per gli
avvocati, che, stando ad un’opinione collettiva tutt’altro che lucida, pacata e
razionale, avrebbero dovuto essere quei diabolici dissimulatori capaci di
irretire i giudici…
Per la parte pubblica, rimane oggettivamente il problema
dell’organizzazione amministrativa spesso alquanto deficitaria, nell’esiguità
delle risorse umane: il problema rinvia alla (ri)sistemazione dell’apparato
giudiziario, rispetto alla quale sembra optarsi per soluzioni tampone,
preferibili anche perché meno dispendiose; ma allora quale posizione occupa
nella contabilità nazionale la spesa per la giustizia?
Ma per questa via gli
interrogativi si moltiplicherebbero, onde occorre attenersi strettamente al tema
delineato.
Intendiamoci bene, il problema non è che il P.M. vada a prendere
il caffè con il G.I.P.: ché, anzi, un momento di umanità è sacrosanto, salutare
ed opportuno per la tenuta psicologica del professionista altrimenti sommerso da
faldoni e fascicoli, od assediato da giornalisti, più o meno spinti dalla brama
di informare, certo difficile ad immaginarsi nei loro antenati, gli
araldi…
In sostanza occorre muovere da altre premesse, al riparo da faziosità
volgari nell’uno e nell’altro senso.
Il processo accusatorio richiede la
conoscenza di meccanismi della comunicazione, sui quali si basano i suoi
equilibri e dai quali dipende il suo buon funzionamento.
E la comunicazione è
ragione, è natura umana, non paura di menzogne o
altro.
4. Le scienze psicologiche, bene hanno messo in
luce implicazioni rilevanti ai fini del tema in discorso.
Pure è opportuno
evitare una loro frettolosa sopravvalutazione, in quanto le sperimentazioni di
cui si avvalgono potrebbero risentire di soggettivismo ed astrattezza e quindi
vanno sempre calate nella concreta realtà del processo; ma. lungi da ogni facile
enfasi, spesso è proprio nel contesto processuale, inteso come frammento della
vita quotidiana, che esse hanno rivelato la propria validità.
Se
consideriamo, come pare esatto, la comunicazione dialogica come la vera sostanza
vitale del processo accusatorio, possiamo agevolmente riscontrare, innanzitutto,
che uno dei grossi ostacoli alla comunicazione, e quindi alla ricerca del vero
(il processo accusatorio è, come detto, essenzialmente comunicazione) è
l’incompatibilità degli schemi mentali.
Non pare qui ravvisabile una mera
astrazione teorica od un pregiudizio ammantato di scientificità: la comune
esperienza delle relazioni interpersonali è da sola idonea ad attestare il
dato.
E se dunque non ci meravigliamo e non ci sdegniamo più di tanto nel
vedere che invano un conservatore intenderebbe convincere un proletario delle
sue idee sulla proprietà privata, perché mai dovremmo poi negare l’esistenza di
questo meccanismo, ad esempio, in relazione all’attività di chi sta appena
svolgendo funzioni di G.I.P. dopo aver ricoperto, magari per lungo tempo,
l’incarico di P.M.?
Intendiamoci bene: da un punto di vista generale, non è
che questo nuovo G.I.P. agisca in mala fede, e quindi, magari, per un autentico
dolo valuti in maniera ultrasommaria i gravi indizi di colpevolezza ex artt.273
e 274 lett. a) c.p.p.; egli agisce perché il suo schema mentale,
sedimentatosi e formatosi silenziosamente nel tempo, è naturalmente
incompatibile con quello del difensore. Tutto in perfetta buona fede!
L’incomaptibilità degli schemi, come tutte le cose dell’inconscio, non ha né
peccato ne virtù …
Anche i pregiudizi, la cui presenza nella vita sociale è
innegabile, incidono allo stesso modo: non è che il giudice abbia l’intenzione
dolosamente malevola di essere un “colpevolista” ( ché un giudice di tal fatta,
al di là delle apparenze e delle conseguenze giuridiche del suo agire,
rischierebbe di fare una vita interiore disastrosa…), ma è solo che, avendo per
tanto tempo esercitato le funzione di P.M., ha una mente che ormai è abituata a
vedere le cose in modo tendenzialmente unilaterale, e questo perché quella mente
è da tempo educata a svolgere questo tipo di procedimenti intellettivi; penso si
possa essere d’accordo sul fatto che uno schema mentale sedimentato nel tempo
non possa cambiare in un attimo: occorre tempo e soprattutto la coscienza di
determinati meccanismi e la disponibilità interiore a
superarli.
5. Chi scrive, si badi bene ove non fosse già
chiaro, non intende fare un discorso fazioso, ma tenta (con quale esito, lo dica
il lettore) di raggiungere una visione del problema equilibrata e rispettosa
dell’interesse generale; nel fare questo, è confortato ed aiutato dalla
pressoché quotidiana percezione di sostanziale moderatezza ed equilibrio dei
giudicanti, così come il ruolo esige. Per le stesse ragioni dianzi esposte appare meritevole di
ferma censura anche la recente iniziativa legislativa, consistente
nell’ammettere all’incarico di magistrato anche gli avvocati (uno degli
interventi tampone di cui sopra): mutatis mutandis, ricorrono le stesse
problematiche di cui sopra; e se il cittadino imputato potrebbe di ciò
rallegrarsi sperando di ottenere maggiori garanzie, bisogna pur ricordare che il
garantismo non è un concetto unilaterale, che cittadino è anche la persona
offesa, che potrebbe subire le conseguenze di una giurisdizione onoraria troppo
sbilanciata a favore dell’imputato, al di là della sussistenza di un ragionevole
dubbio; perché in ogni caso il giudice dovrà ricordarsi di essere un
uomo, di avere una mente comunque limitata e quindi bisognosa di “ intendere
l’altra parte “ , frigido pacatoque animo, per poter adottare la soluzione del
caso più equilibrata.
6. La separazione della carriere
trova anche un ulteriore argomento nelle risultanze della psicologia sociale, in
relazione al comportamento all’interno dei gruppi.
Pare ormai un dato
acquisito che l’appartenenza di un individuo ad un gruppo condiziona in modo
rilevante il suo comportamento, e, quindi la sua attività decisionale:
efficacemente questo fenomeno di definisce mentalità di gruppo.
In
particolare, poiché il gruppo è una proiezione del proprio Io, il singolo
componente è psicologicamente impegnato a difendere il gruppo ed il suo operato
(è come se difendesse se stesso), tanto che in tal caso può aumentare
addirittura la sua capacità di sopportazione del dolore e della frustrazione.
Tutto ciò comporta una pressione che il gruppo esercita sull’individuo in
direzione dell’uniformità decisionale, anche perché l’individuo dissenziente,
specie se particolarmente emotivo, può sviluppare ansia, un’ansia viceversa
neutralizzabile con il conformismo; inoltre, il senso di solidarietà può
facilmente deresponsabilizzare i componenti (ancora una volta, specialmente le
personalità ansiose) in vista di decisioni rischiose, riducendo il timore del
fallimento, anche se a tali decisioni spinge sovente anche la familiarità con la
problematica da affrontare e l’esser persuasi dalle opinioni degli altri
componenti, nonché la maggiore estroversione caratteriale ed autostima
individuale.
La pressione del gruppo verso una decisione uniforme si
definisce tecnicamente groupthink , e si fonda sul fatto che ogni membro
vuole evitare critiche capaci di minare l’unità del gruppo. Da qui un’
illusione di unanimità dei convincimenti (Janis – Mann) o, talvolta, di
invulnerabilità del gruppo o di successo garantito della decisione; altri
sintomi tipici di tale pressione sono la fiducia nella propria indiscutibile
rettitudine morale, la creazione di stereotipi, la razionalizzazione del proprio
agire. Tutti fattori, è utile ricordarlo, dei quali non resta
traccia nella motivazione del provvedimento giurisdizionale.
Il
groupthink, quindi, impedisce una valutazione realistica delle
situazioni, perché occorre salvare il senso di coesione; quando, poi, in ragione
dell’importanza del compito, si è diffusa nel gruppo una situazione marcatamente
ansiosa, si aderisce alla soluzione avanzata dal leader pur di uscire
dall’impasse emotivo.
In linea di principio, nulla esclude che siffatte
conclusioni (utili nell’analisi dell’attività degli organi giudiziari
collegiali) siano utilizzabili all’analisi dei rapporti tra la magistratura
inquirente e giudicante, che in fondo sono membri di un unico corpo verso il
quale non di rado si indirizzano polemiche, strumentali o meno; di fronte a ciò,
la necessità (qui munita anche di una motivazione istituzionale) di difendere il
gruppo "magistratura" potrebbe portare all’attivazione del meccanismo sopra
descritto (che naturalmente è estensibile anche al contesto di gruppo degli
avvocati).
Tra l’altro si tenga conto del fatto che la ricerca ha
evidenziato un antidoto ad una così pericolosa situazione: è necessario
l’ingresso sulla scena della tesi di un soggetto esterno, occorre cioè la
presenza di un soggetto che svolga il ruolo di sistematico contraddittore.
La essenzialità della funzione dell’avvocato, ben lungi dall’essere un
fastidio inutile, non poteva ricevere una conferma
migliore!
7. Alla luce di tutto ciò, è agevole comprendere
come la separazione della carriere non sia affatto uno spauracchio da temere,
bensì un momento di progresso rispondente alle esigenze di tutti gli operatori
del diritto e degli stessi cittadini: e non è superfluo rimarcare che,
nell’unità degli esseri ragionevoli, il contraddittorio, che ha l’unico scopo di
far riflettere adeguatamente tali esseri, rivela la sua natura di strumento di
ragione e con la ragione riduce in modo confortante il divario eterno tra
l’Ordine Superiore e la realtà terrena, come l’episodio biblico citato, in cui è
Dio ad illuminare la mente del controesaminatore, ha in fondo indicato già molti
secoli fa.
Dott.
Gianfranco Notaro
Patrocinatore legale - Ordine Forense di Vallo della
Lucania
AA.VV.
(a cura di G. Gulotta), Trattato di psicologia giudiziaria nel sistema
penale, ed. Giuffrè, Milano
1987
CAROFIGLIO, Il controesame. Dalle prassi operative al modello teorico, ed. Giuffrè, Milano 1997
CARPONI SCHITTAR, La persuasione del giudice attraverso gli esami e i controesami, ed. Giuffrè, Milano 1998 (si veda anche la presentazione di L. DE CATALDO NEUBURGER).
GEMMA,
Diritti costituzionali e diritto penale: un rapporto da ridefinire, in
Diritto e società, 1986, p. 459
GULOTTA, Le decisioni collegiali penali come decisioni a rischio, in Manuale di psicologia giuridica (a cura di A. Quadrio e G. De Leo), ed. Ambrosiana, Milano 1995
KRECH,
CRUTCHFIELD, BALLACHEY, Individuo e società. Manuale di psicologia
sociale, ed. Giunti, Firenze, 1971
NAPPI, Guida al nuovo codice di procedura penale, ed. Giuffrè, Milano 1997
STONE, La cross - examination. Strategie e tecniche, (trad. di E. Amodio), ed. Giuffrè, Milano 1990
ZACCAGNINI, La crossing examination, ed. Ianua, Roma 1990