La responsabilità per le attività dei monori e degli allievi. 

del prof. Pier Giuseppe Monateri*

 

Le pagine che seguono sono parte di un capitolo del secondo tomo di "Illecito e responsabilità civile", volume destinato al Trattato di Diritto privato dell'editore Giappichelli. 

Sommario: 1. I danni di sorveglianza sugli incapaci. – 2. L’infermità di mente. – 3. La prova liberatoria. – 4. L’equo indennizzo. – 5. La sorveglianza sui minori. – 6. Il requisito della coabitazione. – 7. Le figure parentali. – 8. Maestri e precettori. – 9. Responsabilità solidale e azioni di rivalsa. – 10. La prova liberatoria.

1.             I danni di sorveglianza sugli incapaci

L’incapace è irresponsabile. L’art. 2047, 1° co., c.c. proclama quindi che è tenuta al risarcimento la persona tenuta alla sua sorveglianza [1].

Lo scopo della norma sembra evidentemente indennitario. Se non si individuasse un vicario della responsabilità insussistente dell’incapace il danno resterebbe in capo della vittima. Questa lettura è favorita dal 2° co., che prevede che nel caso in cui il danneggiato [2] non abbia potuto ottenere il risarcimento da chi è tenuto alla sorveglianza, allora, il giudice, in considerazione delle condizioni economiche delle parti, può condannare l’incapace stesso ad un’equa indennità. Tali criteri e il riferimento alle condizioni economiche delle parti [3], sono il palese indice della «ansia di risarcimento» che domina l’istituto [4].

Anche la dottrina più concisa [5] non ha avuto difficoltà a scorgere due momenti distinti nella fattispecie: l’atto lesivo compiuto da un soggetto incapace; ed il comportamento del sorvegliante che non ha agito in modo da scongiurare il verificarsi del danno [6].

Da tutto quanto si è detto discende, allora, automaticamente che se il minore è incapace di intendere e di volere al momento della commissione dell’illecito (bambino piccolissimo, minore ubriaco, ecc.) troverà applicazione l’art. 2047. Se invece il minore era in grado di intendere e di volere troverà applicazione l’art. 2048 c.c. [7]. Questa enunciazione è perfetta e simmetrica. Solo talvolta la giurisprudenza se ne dimentica applicando l’art. 2048 a bambini che frequentavano la prima elementare [8]. D’altronde la formula dei due articoli in ordine alla prova liberatoria è esattamente la stessa. Si potrebbe dire che l’identità di formula nasconde però una differenza in ordine al contenuto della prova liberatoria. In realtà i giudici hanno sostituito alla prova liberatoria prevista dal codice un’altra, di origine interpretativa, secondo cui i genitori e gli insegnanti si liberano dall’obbligo risarcitorio dimostrando di aver impartito al minore un’educazione, che apparisse idonea a prevenire la condotta lesiva. Per quanto attiene alle modalità della sorveglianza è naturale che la dottrina e le Corti [9] si limitino a dire che il suo contenuto e la sua intensità devono adeguarsi all’età, all’indole ed alla personalità del minore.

Si sostiene in modo compatto che nell’atto dannoso dell’incapace debbano trovarsi riuniti tutti gli elementi di un illecito aquiliano ex art. 2043 c.c. Si richiede che la colpevolezza vi sia presente a livello astratto. Ciò significa che la vittima non può essere compensata per quei danni che, essendo il risultato di un’azione incolpevole, sarebbero destinati a rimanere a suo carico, qualora a cagionarli fosse stato un individuo pienamente capace [10]. Il giudice deve quindi, con un certo strabismo, considerare l’atto dell’incapace come se egli fosse un soggetto capace, applicarvi il parametro della diligenza in astratto riferibile all’adulto normale medio, al fine di stabilire il diritto della vittima al risarcimento, e quindi valutare, poi in concreto, la condotta dell’incapace al fine di escluderne la responsabilità diretta. Questa doctrine mostra in modo limpido come il giudizio di colpevolezza sia l’imposizione di un modello ideale di comportamento. La giustificazione della doctrine mi pare comunque evidente: la vittima non deve, tendenzialmente, essere né più né meno tutelata che se l’illecito fosse stato commesso da un soggetto capace; l’incapacità del danneggiante rileva quanto alla traslazione dell’obbligo risarcitorio in capo ad un vicario; l’eventuale incapienza o indisponibilità del patrimonio del vicario autorizza il giudice ad un contemperamento di equità degli interessi in gioco.

Varie discussioni si sono prodotte in merito al fondamento della responsabilità del sorvegliante.

Alcune autorità propendono per una qualificazione della sua responsabilità come diretta [11]. Le formule della giurisprudenza perpetuano anche lo schema della culpa in vigilando [12]. Una dottrina più accorta [13] propende per lo schema della responsabilità oggettiva. Questo risultato ermeneutico mi pare meriti accoglimento. Se, infatti, si descrive lo schema della responsabilità oggettiva come un’area al cui interno un soggetto risponde per le conseguenze causalmente riconducibili ad un proprio o altrui fatto, salvo che offra una determinata prova liberatoria, mi sembra evidente come l’impostazione dell’art. 2047 c.c. rispecchi ampiamente un tale schema [14].

I corollari di tali impostazioni sono, innanzitutto, che l’azione andrà intentata direttamente contro il vicario sorvegliante [15]; l’autore materiale del danno potrà venire chiamato in giudizio solo per l’eventuale corresponsione dell’equa indennità di cui al 2° co. della norma considerata. La dimostrazione della natura oggettiva della responsabilità del vicario la si ha nelle massime giurisprudenziali che negano che spetti alla vittima l’onere di provare una colpa del sorvegliante [16]. Una volta che risulti dimostrato che sul convenuto incombeva un dovere di sorveglianza [17], costui potrà andare indenne dalla responsabilità solo dimostrando di non aver potuto evitare il fatto.

Queste regole valgono quando l’incapace abbia cagionato una lesione ad un terzo. Non valgono, invece, nell’ipotesi in cui l’incapace si sia autolesionato. Non valgono neppure quando l’incapace sia rimasto vittima dell’azione illecita di un terzo, ed il sorvegliante non abbia sufficientemente vigilato affinché ciò non avvenisse [18]. In questo caso se il sorvegliante promuove azione contro il terzo, in veste di rappresentante legale dell’incapace, non assume nessuna rilevanza, a titolo di concorso di colpa, un eventuale difetto di sua sorveglianza [19]. La soluzione mi pare ineccepibile: la norma impone infatti sul vicario un dovere nell’interesse dei terzi, non dell’incapace. La norma è dettata dal­ l’esigenza sentita dal legislatore di offrire un patrimonio all’azione della vittima del danno di un soggetto non imputabile. Essa non fonda, quindi, un dovere del sorvegliante di vigilare sull’integrità dell’incapace, per cui una sua eventuale carenza in tal senso non può in alcun modo diventare una colpa rilevante al fine di affievolire l’obbligo risarcitorio del terzo a tutto scapito, peraltro, dell’incapace danneggiato.

Ci si potrebbe chiedere se il terzo danneggiante possa utilmente eccepire il concorso colposo del vicario, nella produzione dell’evento dannoso, quando costui agisce in nome proprio per ottenere il risarcimento del danno proprio risentito a seguito della lesione giuridica patita dall’incapace. Mi sembra che si debba essere chiari: in quest’ultima ipotesi il vicario deve far valere un proprio danno di rimbalzo, egli non agisce quindi in nessun senso per la lesione subita dal­ l’incapace. Ne segue che non viene in considerazione un suo dovere di tutela, rispetto ai terzi, dell’integrità dell’incapace, ma una sua mancanza di autotutela nella produzione di un danno che lo riguarda, anche se scaturisce da una lesione dell’incapace. Mi pare perciò evidente come il terzo gli possa eccepire il suo concorso di colpa rispetto a quel danno che egli stesso ha subito.

L’obbligo del vicario di protezione dei terzi si estende a quelle ipotesi in cui l’incapace abbia loro cagionato danno in concorso con altri soggetti. L’ipotesi di concorso nella produzione del danno non altera infatti in nulla l’ipotesi dannosa contemplata dalla norma in esame.

In Campora c. Grondona [20] si manifestò una rara ipotesi di danno provocato dal sorvegliante che aveva agito in nome e nell’interesse dell’incapace [21]. Le Sezioni Unite si sentirono abbandonate dal legislatore per la mancanza di specifiche disposizioni, ed allora, sulla base delle norme generali in tema di rappresentanza legale, per non sapere meglio cosa fare, ritennero responsabile l’interdetto addossandogli le conseguenze del fatto illecito posto in essere dal suo tutore. La soluzione mi sembra peregrina. Nel nostro ordinamento occorre una norma che giustifichi l’attribuzione delle conseguenze dannose in capo ad un soggetto diverso dall’autore materiale del danno. Questa norma esiste in riferimento al datore di lavoro, ai genitori, ai precettori e maestri d’arte, al proprietario dell’autoveicolo, al sorvegliante dell’incapace. Ma non sussiste nessuna norma che ponga nella sfera giuridica dell’incapace le conseguenze extracontrattuali dell’atto del tutore. In assenza di una tale norma mi sembra impossibile che la giurisprudenza possa creare un simile principio di responsabilità vicaria. L’invocazione dei principi sulla rappresentanza legale mi pare una incomprensione della loro natura dogmatica. Tali principi si riferiscono, infatti, ad attività negoziali differenti dai fatti illeciti. I fatti illeciti sono una categoria a sé stante, cui non si applicano i principi relativi ai negozi, per cui in nessun modo i principi sulla rappresentanza legale possono venire invocati in tema di responsabilità vicaria. In particolare comunque, come dicevamo, la norma dell’art. 2047 stabilisce un dovere di protezione del sorvegliante a favore dei terzi, per cui essa non può essere usata né per fondare un dovere del sorvegliante a favore dell’integrità dell’incapace [22], né, tanto meno, una riferibilità dell’attività del sorvegliante in capo all’incapace stesso.

Resta da vedere quali soggetti siano qualificabili come sorveglianti ai fini della norma dell’art. 2047.

Sono tali coloro ai quali l’incapace sia stato affidato in base alla legge o ad un altro titolo [23].

Non vi è, quindi, difficoltà a riconoscere in tale categoria i genitori del figlio incapace convivente [24].

La seconda grande categoria riguarda gli insegnanti [25], sui quali incombe un dovere di vigilanza sul minore [26], che nasce nel momento in cui il bambino viene affidato all’istituto scolastico [27]. Tale obbligo, come è noto, non riguarda solo il periodo di dovuta permanenza in aula, ma anche quello delle così dette gite scolastiche [28], e del trasporto a mezzo di autobus [29]. In questi casi l’amministrazione statale deve sostituirsi al personale scolastico convenuto in giudizio [30], salva la possibilità, in caso di dolo o colpa grave, dell’azione di rivalsa contro l’insegnante [31]. Per cui si può dire che il dovere di protezione nei confronti del terzo sorge immediatamente in capo all’amministrazione statale, la quale lo esercita attraverso il proprio personale.

Convivenza e affidamento del minore sono, quindi, elementi rilevanti per rendere attuale l’obbligo di protezione del terzo, che è l’unico aspetto della sorveglianza che qui ci interessa.

La giurisprudenza ammette, infatti, che tale obbligo di protezione possa nascere anche solo in conseguenza di un’assunzione meramente fattuale di sorveglianza sul minore.

Questo criterio viene applicato a chi, senza effettuare alcun riconoscimento di paternità, abbia sposato una donna madre, e conviva stabilmente con la moglie e il piccolo, costituendo con loro un unico nucleo famigliare [32]. Talvolta la formula imperniata sulla stabilità e sulla convivenza viene accantonata, ed infatti la stessa giurisprudenza ritiene sufficiente l’accettazione dell’incarico, sia pure temporaneo e occasionale, di vigilare l’incapace [33]. Nonostante la formula usata, mi sembra però chiaro che l’accettazione non basti, ma debba essere seguita da un effettivo inizio di sorveglianza sull’incapace. Peraltro il semplice esercizio di fatto della vigilanza non è sufficiente a svestire dei propri obblighi il titolare de jure della stessa. Così nessun obbligo di protezione del terzo viene assunto dall’accompagnatore del grande invalido infermo di mente, allorquando la custodia e la vigilanza dello stesso risultino esplicitamente affidate alla famiglia [34].

Se si ragiona in termini di dovere di protezione dei terzi risulta chiaro come tali obblighi non possano incombere sul locatore di automobiline a pedali, rispetto al minore accompagnato da una persona adulta, che con l’automobilina stessa aveva investito un terzo [35].

Insomma la famiglia, de facto e de jure, e la scuola sono in genere le due grandi istituzioni cui l’ordinamento demanda la protezione dei terzi, rispetto ai danni cagionati dall’incapace, su cui abbiano incominciato ad esercitare una sorveglianza effettiva, anche se l’incapace è poi sfuggito al loro effettivo controllo.

2.             L’infermità di mente

La l. 180/1978 ha mutato radicalmente le relazioni di sorveglianza del medico curante, e del personale sanitario, in riferimento al malato di mente loro affidato.

La l. 36/1904 assegnava allo psichiatra funzioni di custodia molto pregnanti [36]. La semplice dimostrazione da parte del terzo della mancata o insufficiente predisposizione delle misure di sorveglianza era, dunque, sufficiente a determinare, in difetto di prova liberatoria, una condanna risarcitoria del medico curante o del direttore dell’ospedale. Come è noto, il legislatore della riforma ha ripudiato quella che viene chiamata «l’ottica della ospedalizzazione», che si asseriva fondata sulla presunzione di pericolosità sociale del malato di mente. La retorica si è impadronita di questo argomento, mostrando la società che si chiudeva a riccio, e voleva venire difesa dai «diversi» malati mentali in genere addossando pesanti oneri di custodia agli psichiatri. Vari psichiatri hanno, infatti, combattuto contro l’imposizione di tali obblighi di protezione, liberando se stessi oltre che i loro pazienti. Come è altrettanto noto, le nuove disposizioni sostituiscono il ricovero manicomiale con il trattamento presso servizi psichiatrici territoriali, e programmano la riabilitazione del malato attraverso il suo reinserimento nell’ambiente di provenienza [37]. Prevale così il principio per cui il trattamento della malattia mentale è rimesso proprio alla libera scelta dell’infermo di mente, ed il trattamento coattivo in ospedale è ammesso solo in casi eccezionali: episodi di accessi o crisi, presenza di determinati presupposti, o accettazione volontaria da parte del paziente delle limitazioni di libertà, che gli vengono proposte come utili ed opportune. Insomma, la legge ha essenzialmente sottratto il malato di mente alla libera disponibilità della famiglia. È poi naturale che la legge prescriva che il trattamento sanitario obbligatorio vada effettuato senza violazioni del rispetto dovuto alla persona umana [38].

La conseguenza ovvia di questo sistema, in termini di obblighi di protezione nei confronti dei terzi, è stata ricavata dalla giurisprudenza [39]: onde provare l’inevitabilità del danno, lo psichiatra non può dover dimostrare di aver usato mezzi di contenimento ripudiati dalla scienza, e messi al bando dalla legge.

La riforma del 1978 ha espressamente abrogato le norme che punivano il medico per mancata custodia, e per omessa denuncia dell’avvenuto ricovero o della dimissione del malato (art. 11). Perciò si sostiene che sono venute meno le norme che garantivano l’esistenza in capo al personale medico di un preciso obbligo di sorveglianza sugli infermi di mente sottoposti a terapia.

L’argomento non è così decisivo come sembra, visto che norme analoghe non sono poste a carico degli insegnanti i quali pure rispondono vicariamente per i minori loro affidati. Cioè l’affidamento al medico può essere diventato più blando senza per questo scomparire. Infatti secondo parte della dottrina [40] sono comunque ipotizzabili doveri di sorveglianza in capo a coloro che stringono rapporti terapeutici, particolarmente qualificati, con l’infermo di mente. Accanto agli obblighi dei familiari residuerebbe, quindi, spazio per doveri di protezione dei terzi anche in capo alle strutture sanitarie destinate alla prevenzione, alla cura ed alla riabilitazione delle malattie di mente. Una simile tesi merita pienamente accoglimento. Essa è, infatti, in linea con i criteri elaborati per gli altri soggetti, e non si vede francamente in che senso, se correttamente interpretata, la l. 180/1978 dettata a tutela degli infermi di mente, possa tradursi in una immunity della classe medica. Anzi, nella misura in cui tale legge sgravasse i medici in misura difforme dai criteri adottati negli altri casi di responsabilità vicaria, per danni commessi dall’incapace, le sue disposizioni si porrebbero probabilmente in contrasto con la Costituzione, per violazione del principio di eguaglianza.

I presidi psichiatrici sarebbero, allora, responsabili nei confronti dei terzi danneggiati dall’infermo riconosciuto incapace, posto in condizione di recare danno per negligenze commesse nell’esecuzione di una determinata terapia, ma anche per l’interruzione ingiustificata delle cure [41]. La responsabilità dovrebbe sussistere anche in caso di carente e inadeguata organizzazione dei servizi di cura [42].

In quest’ottica potrebbero venire recuperati vari precedenti resi dalle corti prima dell’adozione della nuova normativa, se non altro in tema di obblighi di protezione della vittima per i danni autocagionati dall’incapace.

In Sogos c. Villa von Siebenthal [43] si era condannata una casa di cura a risarcire i danni autocagionati da uno schizofrenico. Si trattava di un grossolano errore di diagnosi e di colposa violazione degli obblighi di vigilanza e di assistenza. Infatti non era stato fatto alcunché per prevenire un comportamento irrazionale e tuttavia ampiamente prevedibile del ricoverato.

Allo stesso modo in B.A. c. Di Tullio [44] era stato ritenuto responsabile il direttore sanitario di una casa di cura per il suicidio di uno schizofrenico, il quale aveva autorizzato il ricovero di un simile malato in una struttura inadatta a riceverlo. Si sa che la strada che mena all’inferno è lastricata di buone intenzioni.

Più meditatamente la Corte Suprema in Soc. assic. Gen. c. Prov. Messina [45] ritenne responsabile l’amministrazione provinciale perché, nell’organizzare i servizi di assistenza di una casa di cura, non aveva osservato le prescrizioni suggerite dalla tecnica psichiatrica moderna, relativamente al numero degli infermieri necessari a seguire ciascun malato.

L’opinione degli interpreti della legge del 1978 è comunque palesemente indirizzata a gravare la famiglia di obblighi di protezione nei confronti dei terzi. La famiglia, persa la facoltà di disposizione del malato di mente di cui prima godeva, deve farsi carico di proteggere i terzi da eventuali suoi atti dannosi. Con tutta naturalezza questi obblighi vengono fatti derivare dal dovere di soccorso che, nel quadro degli obblighi di solidarietà, grava su ogni congiunto nei confronti del familiare infermo. In un certo senso i costi umani del malato sono internalizzati, più che socializzati. È giocoforza, allora, che sui famigliari sia ascrivibile a titolo di colpa la mancata richiesta di opportuni interventi terapeutici [46], allo stesso modo della sopraffazione dei diritti di libera scelta del trattamento sanitario garantita dalla legge al malato.

Poiché, rispetto all’art. 2047, ci si deve interessare di un progetto risarcitorio e indennitario, rivolto dal legislatore a protezione della vittima del danno cagionato da un soggetto incapace di intendere e di volere, al momento della commissione dell’illecito, mi sembra che il criterio guida debba essere quello della più efficiente prevenzione ex ante dei suoi comportamenti dannosi. Ricordando che fra tali comportamenti rientrano anche quelli che il soggetto può rivolgere verso sé stesso. Ci si deve allora chiedere chi poteva più efficacemente impedire il fatto. Da questo punto di vista le posizioni dei familiari e dei sanitari non sono sostanzialmente cambiate rispetto alla normativa previgente. Solo che sono mutati i loro rispettivi poteri rispetto all’isolamento del malato. Si tratterà quindi di determinare chi fra congiunti de jure e de facto e sanitari era nella posizione migliore per impedire l’evento dannoso, dati i poteri di costringimento e prevenzione ammessi oggi dalla legge. Perciò se il soggetto potenzialmente vicario dimostra che non poteva intervenire ad impedire il fatto, a termini di legge, egli assolverà al proprio obbligo di prova liberatoria. In sostanza, se il paziente è stato affidato ad una struttura di cura, la famiglia andrà esente da responsabilità risarcitoria per via dell’intervenuto affidamento, ma anche la struttura sanitaria (per ipotesi adeguata) non dovrà rispondere del danno se, in ossequio alla necessità di risocializzare il malato, non lo ha troppo costretto o sorvegliato. In questo modo si palesa come la legge del 1978 abbia costituito un alleggerimento del fardello della prova liberatoria che incombe sul vicario. Ciò significa che sia la famiglia che i sanitari possono non essere responsabili per il danno arrecato dall’incapace. D’altronde non è detto che vi debba necessariamente essere un responsabile per ogni danno. Il danno resterà a carico della vittima, terzo o malato che sia, in omaggio ai dettami della legge del 1978, che costituisce così un contraltare dell’art. 2047: un suo contemperamento. Rimarrà semmai nei poteri equitativi del giudice di allocare una indennità alla vittima, purché ne ricorrano i presupposti.

3.             La prova liberatoria

Il testo letterale della norma codicistica è interpretato in giurisprudenza nel senso per cui il vicario, al fine di essere sollevato per il fatto dell’incapace, deve provare di aver adottato tutte le misure che in concreto apparissero idonee a scongiurare il danno [47].

Questa posizione interpretativa si raffina nella giurisprudenza di legittimità, con l’adozione della teorica del pericolo o del rischio creato o tollerato. In questo modo la Corte Suprema ha delineato una massima giurisprudenziale, secondo cui il vicario deve dimostrare di non aver creato o lasciato permanere situazioni di pericolo, tali da permettere o da agevolare il compimento di atti lesivi [48]. Il vicario deve, quindi, tenere conto, a tal fine, della natura e del grado di incapacità del soggetto vigilato, nonché del «contorno esteriore» in cui avvengono i suoi atti. La valutazione di queste circostanze è formalmente rimessa all’insindacabile apprezzamento del giudice di merito [49].

Tali soluzioni giurisprudenziali mi sembrano da condividere. La formula legislativa è infatti insoddisfacente. Il riferimento al «non aver potuto impedire il fatto» necessitava di un chiarimento generale. Da un lato, infatti, essa poteva risultare troppo stretta, da un altro troppo largheggiante. Basti pensare al vicario che si volta verso la lavagna e, quindi, non può in quel momento impedire che il minore, caduto in stato temporaneo di incapacità, conficchi il proprio pennino nell’occhio del compagno. La formula della legge è così insoddisfacente che non riesce a far comprendere se l’insegnante in quel caso debba essere responsabile (perché non doveva voltarsi) o non responsabile (perché in quel momento [50] non poteva umanamente impedire il fatto accorrendo sul luogo dell’illecito). La formula legislativa necessitava pertanto essenzialmente di una riscrittura giurisprudenziale. Non sfugge che in questo modo la giurisprudenza venga proprio ad edificare una serie di situazioni idealtipiche di «buona sorveglianza», rispetto alle quali il vicario è tenuto a discolparsi.

La casistica aiuta a ricostruire in dettaglio la formula della giurisprudenza.

Il sorvegliante deve essere scagionato quando riesca a dimostrare di non essere stato nella condizione di impedire l’evento, malgrado il diligente esercizio della vigilanza materiale [51]. Ovvero quando risulti che l’omessa vigilanza è stata dovuta ad una causa non imputabile al sorvegliante stesso [52]. Ovvero ancora quando, proprio sulla base dei principi della Kausal Haftung, si possa dimostrare che il danno si sarebbe ugualmente verificato nonostante l’esercizio della sorveglianza [53].

Da questi principi discende appunto la soluzione al caso prima prospettato. Infatti non vi sarà responsabilità del sorvegliante quando l’incapace abbia realizzato il fatto repentinamente, cioè in modo tale da non attivare in alcun modo l’attenzione del vicario. In questo modo [54] la S.C. assolse un insegnante nel caso in cui un bambino aveva chiesto all’altro di estrarre un pennino dalla penna, e per imperizia del secondo il pennino era saltato volando nell’occhio dell’altro. La limitazione posta dal caso di specie è rilevante quanto all’attivazione da parte dell’incapace dell’attenzione del vicario. Infatti, se anche il fatto si realizza repentinamente (fuga attraverso una finestra), il vicario sarà responsabile ogniqualvolta l’evento sia stato preceduto da evidenti segnali di irrequietezza (ad es. altri tentativi di fuga [55].

La clausola dell’evento repentino può scomparire, ove si affermi che nel caso dei minori è esperienza quotidiana, quella per cui nella condotta dei fanciulli non è affatto imprevedibile che avvengano movimenti inconsulti ed improvvisi [56].

Naturalmente il vicario dove essere scagionato quando l’omissione di vigilanza dipende da un impedimento legittimo [57]. In questi casi, tuttavia i vicari devono provvedere ad un’adeguata sostituzione della vigilanza: così è stato ritenuto responsabile l’insegnante che, allontanatosi dalla scolaresca per un motivo giustificato, non aveva predisposto una adeguata sostituzione, vedendosi perciò attribuire le conseguenze dannose realizzatesi durante la sua assenza [58].

Il tema della traditio del minore ad un altro soggetto ha spesso affaticato la giurisprudenza [59]. Essa ha stabilito che non solleva la responsabilità del vicario l’affidamento del minore incapace ad un coetaneo, pur in mancanza di altre persone adulte responsabili cui affidarne la custodia [60]. Al vicario gioverà comunque la già esposta applicazione dei principi della causalità alternativa ipotetica, per cui la sua responsabilità non sussisterà tutte le volte in cui riesca a dimostrare (azione improvvisa e subitanea) che il danno non avrebbe potuto essere evitato neppure se il vicario stesso fosse stato presente e vigilante [61].

4.             L’equo indennizzo

Il 2° co. dell’art. 2047 costituisce un’evidente limitazione al principio della irresponsabilità dell’incapace di cui all’art. 2046 c.c., e, come tale, costituisce una indubbia novità [62], rispetto alle norme previgenti. Come abbiamo visto, tale limite è sancito per fini indennitari di protezione del terzo.

La dottrina costruisce questa ipotesi come ipotesi di responsabilità oggettiva [63] in cui devono essere tuttavia presenti tutti gli elementi esteriori del fatto illecito ex art. 2043 c.c. [64]. La precisazione mi sembra ultronea, e mi sembra che faccia inutilmente ricorso ad una formula ingegnosa. Dire che devono essere presenti gli elementi esteriori dell’art. 2043 significa appunto dire che devono essere presenti il danno, l’ingiustizia ed il nesso causale. Elementi che comunque sussistono anche nelle ipotesi di responsabilità oggettive. La natura dell’istituto si coglie meglio in termini di protezione del terzo che di responsabilità dell’incapace. La norma, cioè, fonda un suo diritto che altrimenti non esisterebbe in base ai principi della responsabilità civile, in analogia con quanto avviene per il caso di danno cagionato in stato di necessità. In questo caso non valgono però agevolmente le giustificazioni che possono valere per lo stato necessitato.

In pratica la vittima può richiedere l’indennità solo nel caso in cui sia già stata infruttuosamente esperita l’azione contro la persona tenuta alla sorveglianza, o perché nessuna persona era tenuta ad essa [65], ovvero quando il vicario si sia rivelato insolvibile, ma anche quando costui sia riuscito a fornire la prova liberatoria [66].

Si palesa allora come siano possibili due atteggiamenti.

1) Da un lato si può dire che il principio dell’art. 2046 è in realtà completamente distrutto dall’art. 2047, 2° co. Infatti l’incapace risponde sempre se il vicario è insolvibile o non sussiste. Ciò significherebbe che la responsabilità è da imputare all’icapace, il cui stato ne allevia semplicemente l’obbligo risarcitorio, trasformandolo in indennitario, salvo che esista un vicario responsabile, il quale risponde per l’intero danno cagionato. Il fatto che l’incapace sia tenuto all’indennità, se il vicario vince nel giudizio sulla prova liberatoria, dimostrerebbe compiutamente che il nostro ordinamento, lungi dal considerarlo irresponsabile, addossa comunque alcune conseguenze negative dell’illecito all’incapace. Vi sarebbero allora nella specie due responsabilità concorrenti: quella dell’incapace e quella del vicario, con un beneficio di escussione a favore del terzo e dell’incapace e in danno del vicario. Se il vicario c’è ed è responsabile è lui a pagare il danno, se non c’è o non è responsabile sarà l’incapace a far fronte all’indennità.

2) Per non cadere in questa serie di trappole l’interprete deve, secondo me, espungere il 2° co. della norma in esame dal novero delle norme che descrivono la responsabilità civile. Tale norma cioè è estranea ai principi della responsabilità. Essa esiste ma è stata infilata in questo punto del codice per pure ragioni pratiche. In sostanza la norma costituisce un principio di social security a favore del terzo, in danno del patrimonio dell’incapace, che non trova altra giustificazione se non nella stessa previsione normativa che la istituisce e che, quindi, deve essere costruita come del tutto eccezionale.

In questo senso è giusta l’affermazione per cui l’indennità prevista dalla norma ha essenzialmente la funzione di soddisfare i «bisogni» della persona lesa [67].

In sostanza sembra, allora, corretto affermare che il terzo non vanta nei confronti dell’incapace un diritto soggettivo alla riparazione, affievolito sotto il profilo del quantum in ragione dell’incapacità del soggetto danneggiante. Piuttosto il terzo ha un mero potere di azione diretto a sollecitare la pronuncia del giudice, con riguardo all’opportunità o meno dell’ammissione di un’indennità in capo all’incapace [68]. Si tratta allora di un vero e proprio giudizio ad hoc di oportere da parte del giudice, con uno squisito esercizio dei suoi poteri di equità, che, come tali si pongono al di là e al di fuori dell’applicazione dello jus civile. Si ha qui l’instaurarsi di un giudizio equitativo diverso da quello civilistico sulla responsabilità.

Questa costruzione dovrebbe portarci a risolvere anche il caso in cui il danneggiato dall’atto dell’incapace sia lo stesso soggetto incaricato della vigilanza. Si può sostenere che in quest’ipotesi il vicario non può fare azione contro sé stesso e, quindi, non potendo ottenere da sé medesimo il proprio risarcimento, può chiedere all’incapace l’indennità prevista dalla legge? Mi sembra che la risposta debba essere negativa. Infatti il vicario non si pone tecnicamente come terzo rispetto al rapporto di sorveglianza, e non può quindi essere protetto da una norma ad hoc, che invece vuole fondare una pretesa indennitaria sui generis dei terzi che vengono occasionalmente in contatto con un incapace, su cui non hanno poteri di controllo.

L’impostazione prima accolta può guidarci anche nella determinazione dell’indennità.

Quando si afferma che il calcolo dell’indennizzo trova comunque la sua base nella menomazione subita dalla vittima [69], tale asserzione vale nel senso che l’indennità trova fondamento nella lesione della vittima e un limite quantitativo nel danno che ne è scaturito. Ossia il danno rappresenta qui il limite entro cui si instaura il giudizio equitativo sull’indennità, sembrando sicuramente estraneo agli scopi della norma che si giunga ad una determinazione dell’indennità superiore al risarcimento.

L’unico criterio indicato dal legislatore è costituito dall’indicazione di riferimento alle condizioni economiche delle parti [70]. Perciò il giudizio equitativo de quo può instaurarsi solo in presenza di una manifesta sproporzione tra la misera situazione patrimoniale della vittima, e la florida posizione patrimoniale dell’incapace. È facile allora constatare che la norma in esame di social security riguarda soltanto tale situazione. Essa fonda, cioè, un potere di attivazione dell’equità del giudice solo a favore di vittime indigenti di incapaci benestanti, in assenza di una responsabilità del vicario. Una situazione eccezionale e, appunto, squisitamente equitativa.

In questi casi la misura dell’indennità potrà innalzarsi fino alla soglia del risarcimento senza mai, comunque, superarla.

5.             La sorveglianza sui minori

In base all’art. 2048, 1° e 2° co. [71]c.c. i genitori, i tutori e i precettori sono responsabili per i fatti illeciti [72] posti in essere dai minori capaci di intendere e di volere [73] posti sotto la loro sorveglianza.

Nel caso dei genitori occorre ed è sufficiente che vi sia l’estremo della coabitazione [74].

A proposito di questa norma si ripropone il tema del fondamento della responsabilità vicaria dei soggetti menzionati.

Anche in questo caso un consolidato insegnamento vuole che la norma introduca una responsabilità fondata sulla colpa, e più precisamente una presunzione di colpa, che determina una inversione dell’onere probatorio a favore del danneggiato, onde spetta al vicario liberarsi dalla responsabilità dimostrando di «non aver potuto impedire il fatto». In omaggio ed in ossequio alle formule tradizionali si parla allora di culpa in vigilando, e di culpa in educando [75].

Il tema della culpa in educando è, a proposito dei genitori, della massima rilevanza, poiché in tale teorica la dottrina ha trovato il fondamento per edificare il vero contenuto operativo della loro prova liberatoria. Il richiamo alla culpa in educando serve, infatti, a non escludere la responsabilità dei genitori, in caso di loro legittima assenza, onde erano gli stessi impossibilitati ad effettuare un intervento impeditivo, diretto e immediato, qualora non venga altresì dimostrato che al figlio era stata impartita una sufficiente educazione [76].

In realtà valgono qui le considerazioni generali già svolte a proposito del fondamento della responsabilità vicaria [77]. Lo schema più idoneo a cui riferire oggi la responsabilità vicaria dei genitori appare quello della responsabilità oggettiva. Questa opinione è oltremodo confortata da una analisi della giurisprudenza, in cui la responsabilità dei genitori viene affermata a prescindere dal­ l’effettivo accertamento di una loro condotta colposa. Infatti, che la responsabilità dei genitori sia una responsabilità per il risultato è dimostrato da quelle decisioni in cui la commissione dell’illecito si pone come dimostrazione dell’insufficiente educazione impartita dal padre e dalla madre [78]. Il lancio di una pietra con la fionda dimostrerebbe di per sé l’impropria educazione del bambino [79]. Il lancio di un pugno di calce viva nell’occhio di un coetaneo sarebbe una modalità di attuazione del fatto illecito che comporta di per sé l’inadeguatezza dell’educazione ricevuta [80].

Nell’edificare tale responsabilità la giurisprudenza adotta, dunque, posizioni di un estremo rigore in cui, pur facendosi riferimento ad una figura astratta di bonus pater familias [81], il principio di colpevolezza cede il posto ad un vero e proprio schema di imputabilità obiettiva delle lesioni cagionate dal minore in capo ai genitori con lui conviventi [82]. Per cui, in base alle ragioni di carattere obbiettivo di imputabilità degli eventi, si è rintracciato il fondamento di tale responsabilità proprio nella relazione qualificata che intercorre tra figli minori e genitori, in virtù della loro coabitazione [83]. Questa imputazione del risultato dannoso a persone diverse dall’autore materiale del danno, in virtù della loro stessa qualifica ha fatto parlare diversi Autori dell’esistenza di una forma di garanzia offerta dal patrimonio dei genitori nei confronti dei terzi danneggiati [84].

La realtà è che i genitori devono rispondere dei rischi tipici connessi alla minore età dei loro figli. Lo schema della loro responsabilità per ciò non è diverso da quello della responsabilità del datore di lavoro, o degli insegnanti [85]. In questo senso, anche, la loro responsabilità non può che essere una responsabilità oggettiva per rischio tipico [86], giacché i genitori sono nella situazione più idonea a prevenire l’atto illecito dei figli conviventi [87].

Dopo l’emanazione della riforma del diritto di famiglia il rigoroso schema di responsabilità, delineato a partire dall’art. 2048 c.c., si scontra con una nuova realtà normativa. Tale riforma ha, infatti, soppresso gli aspetti più spiccatamente autoritari dell’esercizio della potestà, ed il minore, massimamente quello prossimo alla maggiore età, trova oggi possibilità di libertà e autodeterminazione sempre più ampie, per cui sarà più difficile muovere un rimprovero di colpevolezza al comportamento dei genitori, che si trovano in una posizione meno idonea ad imporre controlli atti ad impedire al minore il compimento di atti pregiudizievoli dei terzi [88]. Ci si chiede, pertanto, se non sarebbe più utile escludere l’applicazione dell’art. 2048 quando il danno viene realizzato da un soggetto ormai prossimo alla maggiore età [89]. Rectius ci si chiede se non sia più saggio escludere l’applicazione della disciplina in esame quando l’illecito viene cagionato nell’ambito della sfera di autonomia normalmente lasciata al minore [90].

Nonostante la sua saggezza questa tesi non mi convince. Non si tratta infatti di spazi di autonomia del minore, e poteri di controllo dei genitori. Si tratta piuttosto di efficienza nella prevenzione dei danni, e di garanzia dei terzi che vengono in contatto col minore. L’argomento che trae origine dal mutato quadro normativo non convince, se si reputa che il fondamento della responsabilità dei genitori sia analogo a quello della responsabilità dei padroni e dei committenti. Per certo i padroni, pur in condizioni di lavoro subordinato, non godono di una potestà correzionale simile a quella di cui (si ritiene) godeva il pater prima della riforma del diritto di famiglia (ceffoni, segregazione in camera, salto della cena, trasferimento coatto in collegio, divieto di vacanze spassose, diniego del dolce domenicale). Ciò nondimeno i padroni rispondevano e rispondono vicariamente del danno recato. Allo stesso modo nessuno dubita che i lavoratori siano soggetti capaci, eppure rispondono vicariamente i datori di lavoro. Insomma a farla breve non è secondo me né questione di capacità, né questione di spazi di autonomia. Anzi ammettere che il terzo non possa fare azione contro il genitore, quando il danno è recato nell’ambito della sfera d’autonomia normalmente concessa al minore, sarebbe soltanto un incentivo a lasciare subito, e il più presto possibile, amplissimi spazi di autonomia ai minori, onde andare indenni da qualsiasi responsabilità. Ciò che l’art. 2048 vuole creare sono, invece, incentivi alla prevenzione degli incidenti tramite l’operato dei genitori.

Non vale qui dire che la prevenzione dell’incidente si attuerebbe meglio addossando la responsabilità solo in capo al minore, giacché la responsabilità civile agisce per via di redistribuzioni patrimoniali (dal danneggiante al danneggiato), e la situazione tipica prevista dal legislatore è quella del minore che dipende economicamente dai genitori. Piazzare il fardello della responsabilità sulle spalle del minore significherebbe comunque piazzarlo su quelle dei genitori, per via di trasferimenti di ricchezza da loro al minore dannoso. Sarebbe quindi poco efficiente non piazzare tale responsabilità sulle spalle di chi deve effettivamente prendere le decisioni economiche connesse. Il minore comunque non paga di tasca sua, e può quindi essere indotto a sottostimare i rischi dei terzi, mentre i genitori (che pagano) sono quelli che si trovano nella posizione migliore per indurre il minore (soprattutto quello vicino alla maggiore età) a prendere adeguatamente in considerazione i rischi dei terzi, e quindi ad avvicinare il proprio comportamento a quello di una condotta preventiva efficiente.

Mi si obbietterà che tutto ciò vale allora anche nel caso del maggiore d’età che convive a carico dei genitori (studente universitario, rampollo di famiglia nobiliare, disoccupato, portatore di handicapp fisici, ecc.). Sennonché lo scopo della legge può ben essere quello di incentivare, a partire da una certa età in poi, proprio quegli spazi di autonomia per cui i genitori incominciano a premere per una indipendenza finanziaria del figlio. Stabilire quale deve essere una tale soglia di età mi sembra che debba appartenere alla discrezionalità del legislatore [91] piuttosto che a quella delle Corti.

Lo schema che abbiamo delineato è, quindi, compatibile con l’opinione generale che ravvisa, nell’ipotesi dell’art. 2048, una figura di responsabilità diretta dei genitori nei confronti del terzo [92].

Ritengo perciò che ormai parlare in proposito di una responsabilità di natura indiretta per fatto altrui [93], o di una ipotesi di responsabilità indiretta per fatto proprio [94], sia magari dogmaticamente corretto, ma inutilmente complicato.

È pacifico che nell’ipotesi in esame l’azione del minore debba integrare gli estremi di un fatto illecito ex art. 2043 [95]. Naturalmente il minore deve essere capace di intendere e di volere, altrimenti si applicherà l’art. 2047 c.c. [96].

Ci si chiede piuttosto se l’ipotesi dell’art. 2048 possa applicarsi anche alle altre figure di illecito [97]: minore proprietario di un veicolo, minore custode della cosa o dell’animale [98].

Sicuramente il minore può essere conducente di un veicolo per cui si pone un problema di coordinamento tra l’art. 2048 e l’art. 2054, 1° co.

Come si può ben immaginare, la giurisprudenza ha dovuto giocoforza realizzare un simile coordinamento. Nel periodo anteriore alla l. 39/1975 che abbassò il limite della maggiore età ai diciotto anni, era costante l’affermazione per cui il conseguimento della patente non comportava per il minore l’acquisto di una condizione assimilabile a quella dell’emancipato [99], non facendo quindi venire meno la responsabilità vicaria del genitore [100]. La stessa regola vale oggi rispetto agli ultrasedicenni che conseguono la patente per guida di motoveicoli, e per gli ultraquattordicenni cui è consentita la guida di ciclomotori.

In questi casi la responsabilità dei genitori è palesemente oggettiva, giacché si declama che essi sono responsabili in base al principio della culpa in vigilando e in educando, ma si individua la loro negligenza nel semplice fatto di aver consentito al minore l’uso della motoretta [101]. Tali puerili giochetti di parole sono, oggi, abbandonati dalle Corti, le quali peraltro declamano che i genitori rispondono dei danni cagionati dai figli conducenti di moto, a meno che non riescano a dimostrare di aver loro impartito un’educazione, morale e civile, sufficiente a renderli consci di dover guidare nel pieno rispetto delle norme della circolazione e del principio del neminem laedere [102]. Tali soluzioni sono evidentemente corrette. Infatti col permettere la guida di moto da parte del minore i vicari aumentano il rischio di incidenti a danno dei terzi: affinché la loro decisione non sottovaluti questi rischi, è ovvio che essi debbano rispondere a titolo oggettivo delle conseguenze dannose dell’uso della moto da parte del minore. Per quanto attiene alla prova liberatoria varranno le considerazioni affrontate in seguito [103]. Qui si può solo dire, per ora, che mi sembra che i genitori debbano venire esonerati solo per quegli incidenti che non sono tipicamente connessi con l’utilizzo della moto nella circolazione stradale, talché questi incidenti non potevano venire internalizzati nelle decisioni dei genitori in ordine all’uso della moto stessa da parte del minore [104].

Il minore può, inoltre, essere titolare di diritti reali su un veicolo (ricevuti ad esempio per legato), e quindi responsabile in solido col conducente, ex art. 2054, 2° co.

Mi sembra chiaro, in base alla ratio dell’art. 2048 prima delineata, che anche nel caso del minore conducente, o del minore proprietario del veicolo, debba intervenire la responsabilità dei genitori. Infatti l’uso che il minore faccia del veicolo ricade tipicamente tra i rischi di danno che il minore può cagionare ai terzi, sia relativamente alla conduzione vera e propria del veicolo, sia a proposito del suo affidamento ad altri. Mi sembra quindi che valgano le considerazioni prima esposte per cui i genitori sono coloro che si trovano nella posizione migliore per indurre un comportamento preventivo efficiente a favore dei terzi. In questi casi essi risponderanno, naturalmente [105], a meno che non si dimostri o che la guida del veicolo è avvenuta contro la volontà del minore titolare, o a meno che non si dimostri che il minore conducente aveva fatto di tutto per impedire il danno.

Nel caso della custodia di cose o animali ci si può innanzitutto chiedere se il minore possa essere ritenuto custode in senso tecnico.

Per le ragioni che saranno esposte [106] la nozione di custodia può essere identificata con quella di detenzione non per ragioni di servizio o di ospitalità. Il minore che sia detentore per ragioni diverse da queste potrebbe quindi essere chiamato a rispondere per la custodia. In quest’ottica si pone il difficile problema del possesso ancillare dei famigliari [107]. Il minore ha sicuramente un rapporto con certe cose [108], giocattoli – magari pericolosi [109] – o altro, e con certi animali, in grado di integrare la figura della custodia di cui all’art. 2051 c.c., ma che si svolgono principalmente all’interno del gruppo familiare. In queste ipotesi mi sembra che, indipendentemente dall’ammissibilità della figura di un possesso o di una detenzione ancillare, entri in gioco la responsabilità dei genitori, per il ruolo che essi comunque svolgono all’interno di tale gruppo. Saranno quindi i genitori a rispondere, ad esempio, dell’autocombustione dannosa di un modello di aeroplano giocattolo dotato di motore a scoppio, anche se non fossero tecnicamente qualificabili come custodi in prima persona, per il combinato disposto degli artt. 2051 e 2048 c.c. Si pensi anche però all’ipotesi del minore che assume la custodia, ad esempio, di un animale abbandonato, in assenza dei genitori. Non mi sembra che in tale ipotesi vengano meno le ragioni esposte che fanno propendere per una responsabilità dei genitori medesimi.

Ultima ipotesi da esaminare è quella del minore che si autodanneggia. Parte della dottrina ed alcune decisioni [110] delle corti escludono in tale ipotesi l’applicabilità dell’art. 2048 in quanto la norma sarebbe volta esclusivamente a protezione dei terzi. La S.C. [111]ha però ritenuto il precetto dell’art. 2048 congruente con gli obblighi di sorveglianza che incombono sugli insegnanti, sostenendo che gli istituti scolastici sono soggetti al dovere di evitare al minore loro affidato situazioni di pericolo per la sua incolumità [112].

6.             Il requisito della coabitazione

È opinione dominante, fondata sul tenore letterale della norma, che solo se il minore convive con i genitori, o col tutore, costoro possano esercitare i doveri di sorveglianza e di educazione, dalla cui violazione discende la loro responsabilità ex art. 2048 c.c. [113]. Occorre però chiarire in che senso il concetto di coabitazione vada qui inteso. La dottrina più tradizionalista [114], e quella più moderna [115], coincidono nell’indicare come criterio per stabilire la coabitazione quello della consuetudine di vita comune. Anche la Corte Suprema ha convenuto che l’assenza temporanea del minore dalla residenza familiare non è causa interruttiva della coabitazione ai fini della responsabilità [116]. Tale coabitazione non viene quindi meno in caso di week-end trascorso in compagnia di amici, di soggiorno in montagna organizzato dall’istituto scolastico, di permanenza del minore in un campeggio estivo di scouts [117], ma neanche nell’ipotesi in cui il figlio lasci la famiglia per seguire un corso di studi all’estero [118]. Il fondamento della regola viene rintracciato nella relazione tra l’atto illecito del minore distante e la cattiva educazione impartita contrariamente agli obblighi che incombono sui genitori. In tali ipotesi i genitori potranno però invocare, al fine di sottrarsi alla responsabilità, l’affidamento del minore a persone in grado di sorvegliarlo adeguatamente. In questo modo potranno sfuggire a qualsiasi conseguenza risarcitoria.

La consuetudine di vita in comune non può essere spezzata dal genitore. Può però accadere che la convivenza risulti interrotta per via di un fatto a loro non imputabile. In tale ipotesi sarebbe giocoforza ammettere la loro irresponsabilità nei confronti degli atti dannosi posti in essere dal minore. Tale è stata infatti la posizione assunta dalla Corte Suprema in Toso c. Sicuranza [119]. Tuttavia la giurisprudenza richiede che l’allontanamento non autorizzato da parte del minore non deve essere avvenuto in conseguenza del disinteresse che i genitori avevano mostrato nei suoi confronti [120]. A fortiori i genitori non perdono la loro responsabilità se essi stessi hanno provocato, o concorso a provocare, l’allontanamento pur autonomamente messo in pratica dal minore [121]. Mi sembra che invece il presupposto della coabitazione possa venir meno se il minore si allontana in conseguenza di un atto lecito, anche se traumatico, dei genitori [122]. Anche in questo caso però, secondo la giurisprudenza, l’allontanamento del minore non è interruttivo della responsabilità dei genitori, se costoro non hanno posto in essere alcun richiamo, o non siano ricorsi al giudice tutelare per sollecitare l’adozione di opportuni provvedimenti [123]. Mi sembra che questa regola si giustifichi rispetto alle tematiche della responsabilità in esame. Si tratta qui di imporre degli incentivi ai genitori, affinché costoro si attivino per ristabilire la consuetudine di comunanza di vita, intesa evidentemente come valore positivo dall’ordinamento.

Si sostiene, sotto il profilo processuale, che l’onere di dimostrare l’elemento della coabitazione, o del difetto colposo di essa, spetti al terzo danneggiato [124]. Mi pare che questa soluzione non meriti alcun accoglimento. Il legislatore, infatti, come abbiamo appena visto, assume la consuetudine di comunanza di vita del minore con i genitori, come un parametro di normalità di riferimento a proposito della famiglia. Questo dato è naturalmente corroborato dalla struttura e dalle abitudini della famiglia italiana, per cui può anche essere assunto come dato di comune esperienza. Insomma, il fatto della non coabitazione, nel senso tecnico prima delineato, di un minore coi propri genitori si pone come evento eccezionale rispetto alla normalità dei casi. È giocoforza ammettere, anche per semplici ragioni di economia dei giudizi, che spetti quindi al genitore convenuto di eccepire e dimostrare l’intervenuta cessazione della comunanza di vita col minore per un fatto a lui non imputabile.

7.             Le figure parentali

Con estremo rigore si enuncia che l’elencazione dei soggetti contenuta nel 1° co. dell’art. 2048 c.c. deve essere considerata tassativa. La particolare gravità ed eccezionalità di tale figura di responsabilità non può estendersi a carico di persone non espressamente indicate nella norma [125].

Con inventiva si enuncia anche però che nulla impedisce che la responsabilità per fatto altrui possa venire attribuita ad altri soggetti verso cui sia configurabile un dovere di sorveglianza, dolosamente o colposamente trasgredito, in virtù dell’art. 2043 c.c. [126]. Sennonché mi sembra che l’art. 2043 non possa fondare ipotesi di responsabilità per fatto altrui, e che in realtà la norma del­ l’art. 2048 sia in grado di coprire l’intero ventaglio dei soggetti che debbono essere tenuti ad una sorveglianza sul minore.

Infatti, in primo luogo, è evidente che rispondono del danno cagionato dal minore non emancipato e coabitante il padre e la madre [127], siano essi legittimi o naturali [128], o anche adottivi [129]. Non solo, ma la giurisprudenza ha chiarito che l’art. 2048 c.c. si applica anche al genitore di fatto, cioè a colui che esercita di fatto le funzioni del genitore [130]. In tal modo risponde ex art. 2048 c.c. il marito della madre, ma, secondo me, anche chiunque assuma il ruolo di genitore in virtù dell’instaurarsi di una consuetudine di comunione di vita col minore. Risponderà così lo zio presso cui il minore si rifugia dopo la morte dei genitori, ovvero il padrino che accolga il minore nella propria casa in ossequio agli obblighi di padrinato, ma anche il terzo presso cui stabilmente si rifugia il minore fuggiasco che ha interrotto la comunanza di vita con i genitori, nonché il fratello maggiorenne che dopo la fuga del padre e la morte della madre assume la figura ed il ruolo di «capofamiglia», ecc.

Naturalmente, secondo il tenore letterale della legge, se il minore è soggetto a tutela, allora il terzo dovrà indirizzare la propria azione nei confronti del tutore. È pacifico che ad esso debba equipararsi il protutore, quando svolge le medesime funzioni di cura della persona che normalmente sono attribuite al primo ex art. 350 c.c. Così come è pacifico che identici doveri incombono in capo all’affiliante [131].

Esiste quindi una funzione di monitoraggio sul minore che si estende a tutti i soggetti fin qui considerati.

La dizione letterale dell’art. 2048 impone [132] di adottare uno schema di responsabilità solidale per i due genitori [133]. Prima della riforma del 1975 esisteva una discrasia evidente tra le norme che attribuivano la potestas sui figli al solo padre, e la regola dell’art. 2048 che imponeva la responsabilità anche in capo alla madre. L’attribuzione della responsabilità a questo soggetto veniva fatta discendere dall’art. 147 c.c. che imponeva ad entrambi l’obbligo di educare la prole, mediante un’equazione giudiziale in cui l’obbligo di educare veniva a ricomprendere anche l’obbligo di vigilanza [134]. Naturalmente dopo la riforma del 1975 gli autori e la giurisprudenza hanno sottolineato la simmetria che è venuta a crearsi tra l’art. 2048 e l’art. 316 c.c., che attribuisce la potestà sui figli ad entrambi i genitori [135].

Si pone, peraltro, il problema dell’attribuzione della responsabilità in caso di separazione o divorzio dei genitori.

La regola giurisprudenziale [136] che è venuta affermandosi fin da un precedente del 1958, Nuvoli c. Nulchis [137], ritiene che la separazione personale dei genitori integri un difetto legittimo di coabitazione nei confronti del genitore non affidatario, con la conseguenza di una «concentrazione» della responsabilità in capo al genitore cui viene affidato il minore.

Ancora una volta, la regola giurisprudenziale formatasi prima della l. 151/1975 è maggiormente in armonia con il regime riformato della famiglia creatosi successivamente. Oggi, infatti, ma non prima, l’art. 155, 3° co., c.c. attribuisce al genitore affidatario l’esercizio esclusivo della potestà. Onde è necessario concludere che se prima della riforma il regime della responsabilità era, in realtà, insensibile rispetto a quello della potestà, oggi i due regimi appaiono armonicamente legati [138]. Sennonché la legge riserva ancora una serie di prerogative al genitore non affidatario. In tal modo le decisioni di maggiore interesse per i figli devono essere prese congiuntamente da entrambi i genitori. Non solo, ma sempre a norma dell’art. 155, 3° co., c.c. «il coniuge cui i figli non sono affidati ha il diritto e il dovere di vigilare sulla loro istruzione ed educazione e può ricorrere al giudice quando ritenga che siano state assunte decisioni pregiudizievoli al loro interesse». Sorge pertanto il problema di una residua responsabilità ex art. 2048 del genitore non affidatario in almeno una duplice serie di casi: quando l’illecito del minore sia ascrivibile ad un’attività che gli è stata consentita sulla base di una decisione assunta congiuntamente dai coniugi separati; quando l’illecito derivi dallo svolgimento di un’attività contraria agli interessi del minore, ma contro il quale il genitore pretermesso non si è opposto [139].

Una tale soluzione è tecnicamente ineccepibile. Infatti se il genitore pretermesso partecipa al processo decisionale deve ovviamente essere incentivato a prendere decisioni che non sottovalutino i rischi di commissione di illeciti da parte del minore nei confronti di terzi, che andrebbero poi a gravare sul patrimonio dell’altro coniuge. Sarebbe, infatti, evidente che altrimenti egli prenderebbe costantemente decisioni che sottovalutano questi aspetti, e si pongono quindi in contrasto con gli incentivi e disincentivi che invece condizionano la scelta dell’altro coniuge. Quindi non ammettere la responsabilità del coniuge pretermesso avrebbe il duplice effetto negativo di produrre decisioni inefficienti, e di far comunque lievitare i costi transattivi nella conduzione della famiglia come gruppo ancora sussistente. Allo stesso modo la legge vuole che in qualche misura il coniuge pretermesso continui ad occuparsi del minore come contrappeso e controllo alle scelte del coniuge affidatario. La regola che impone una sua responsabilità in caso di non opposizione è un incentivo evidente ad interessarsi di tali scelte a favore della sicurezza delle attività permesse al minore.

Problematica è pure l’ipotesi di temporanea convivenza del coniuge pretermesso col figlio. Infatti è evidente che la convivenza con il genitore, anche se temporanea, non può porsi negli stessi termini della convivenza con un terzo estraneo al gruppo famigliare. Mi sembra chiaro come la temporanea assenza del minore dalla residenza del coniuge affidatario non spezzi affatto l’elemento della coabitazione, tecnicamente inteso, e quindi non sia idonea ad escludere la sua responsabilità. Allo stesso modo però il vincolo di sorveglianza con il coniuge pretermesso non si è spezzato in virtù della separazione, giacché la giurisprudenza ricordata interpreta la fattispecie come un semplice difetto legittimo di coabitazione [140], che quindi scusa il genitore pretermesso per il suo non esercizio degli obblighi di vigilanza che stanno a fondamento della sua responsabilità vicaria. Nella situazione in cui il minore si trova, anche solo temporaneamente, a convivere col genitore pretermesso cessa, quindi, il legittimo impedimento alla coabitazione, e perciò possono tranquillamente rivivere gli obblighi di cui alla norma in esame, con la conclusione per cui in tali ipotesi rivive la responsabilità solidale di entrambi i genitori.

Quid juris in caso di interruzione di fatto della convivenza tra i genitori?

Nel caso di separazione di fatto concordata, la dottrina [141] vuole che non cessi l’esercizio comune della potestà, permanendo in vita i poteri doveri di cura, di educazione e di vigilanza in capo ad entrambi i genitori nei confronti della persona del minore. Nondimeno, la giurisprudenza ritiene che nei confronti del genitore non convivente venga meno la coabitazione tecnica col minore, e quindi la sua responsabilità vada esclusa [142]. La regola sembrerebbe convincente, sennonché viene fatto notare come il coniuge pretermesso non abbia il potere di auto-esonerarsi, con un semplice accordo interno, dalla responsabilità rispetto ai terzi [143]. Un tale rilievo mi sembra ininfluente. Infatti l’esonero dalla responsabilità non deriva come effetto dell’accordo interno, ma dalla cessazione della coabitazione, giusta le regole generali adottate dalla giurisprudenza nel ricostruire la fattispecie. Piuttosto c’è da chiedersi se comunque il genitore possa escludersi dalla coabitazione col minore, e se il coniuge separato di fatto possa essere trattato più favorevolmente del coniuge separato jure. In linea generale, mi sembra ovvio constatare come il genitore non possa autoescludersi dalla coabitazione col minore, e come sia quindi giocoforza affrontare la questione in stretta analogia con quanto avviene nelle ipotesi di separazione jure. Cioè la cessazione della coabitazione si pone qui come conseguenza di una situazione di impossibile convivenza tra i due coniugi, onde la mancanza di convivenza del coniuge che (in accordo con l’altro) lascia la casa si pone nuovamente come un legittimo impedimento alla coabitazione, onde egli non può di fatto esercitare le proprie prerogative, e la sua responsabilità non può entrare in gioco per tutte le vicende, diciamo, «quotidiane», ma sicuramente, invece, la sua responsabilità entra in gioco in tutte le ipotesi che possano ricondursi analogicamente all’ambito dell’art. 155, 3° co., c.c. prima ricordato.

Una tale impostazione spiega anche cosa debba accadere in caso di allontanamento di uno dei coniugi dalla residenza familiare.

Poiché il coniuge non può autoescludersi dalla coabitazione col minore è giocoforza ritenere che il suo allontanamento illegittimo non possa determinare un venir meno della coabitazione, in senso tecnico, e quindi della sua responsabilità [144].

L’allontanamento del genitore può però essere sorretto da una giustificazione. In questi casi il coniuge costretto a vivere lontano dal minore verrà a trovarsi in una situazione di legittimo impedimento nell’esplicazione dei suoi doveri di vigilanza, e non potrà quindi vedere coinvolta la propria responsabilità per i suoi atti illeciti, dal momento che l’interruzione della convivenza non è a lui imputabile [145].

Al di fuori dell’ipotesi di affidamento del minore ad uno dei coniugi, o di suo affidamento da parte dei genitori ad uno dei soggetti indicati nel 2° co. dell’art. 2048, può accadere che il minore si trovi sotto il controllo di altre persone o di altre istituzioni. Come si è detto per alcuni autori il carattere eccezionale della norma impedirebbe di attribuire la responsabilità vicaria a tali soggetti. Viceversa in aderenza a quanto prima è stato spiegato la giurisprudenza ha già da tempo stabilito che nel caso in cui un istituto di pubblica assistenza affidi un minore ricoverato ad una persona di fiducia [146], la responsabilità ex art. 2048 c.c. si trasferisce dall’istituto, che rimane comunque titolare della tutela, alla persona con cui il minore assume la consuetudine di convivenza, cioè la coabitazione [147], ricevendo il plauso della dottrina più attenta [148]. Tale soluzione appare oggi conforme all’art. 3, l. 184/1983. Se il minore abita presso l’istituto di assistenza questo sarà responsabile ex art. 2048 c.c., nella sua duplice qualità di affidatario e di tutore. Se l’istituto delega le funzioni tutelari ad uno dei propri membri (ex art. 354 c.c.) sarà quest’ultimo a dover rispondere ai sensi della norma in esame [149].

Il legislatore del 1983 ha poi inserito (art. 2, l. 184/1983) nuove forme di affidamento familiare a proposito delle quali è giocoforza procedere in analogia con le funzioni attribuite ai genitori per quanto attiene agli aspetti della cura, dell’educazione, e del controllo del minore, sulla base della sussistenza (e suo eventuale venir meno) della coabitazione del minore con l’affidatario.

Pertanto può ritenersi che risponda ex art. 2048 l’affidatario nell’ipotesi di affidamento preadottivo [150]; la persona presso cui in caso di separazione il genitore può ordinare che il minore sia collocato [151]; colui al quale il minore è affidato a seguito di affidamento predisposto dagli stessi genitori [152]; la persona diversa dal tutore cui il minore sottoposto a tutela viene affidato per essere allevato [153]; il soggetto affidatario del minore in caso di affidamento conseguente alla pronuncia di decadenza della potestà pronunciata ex art. 330 c.c., o nel caso di adozione dei provvedimenti atipici previsti dall’art. 333 c.c. [154].

8.             Maestri e precettori

Il 2° co. dell’art. 2048 impone la responsabilità vicaria ai precettori, ed a coloro che insegnano un mestiere o un’arte, in caso di danno cagionato illecitamente dagli allievi posti sotto la loro vigilanza.

La disposizione risale al Code Napoléon, donde era discesa nel Codice del 1865. Il precettore è il continuatore dell’autorità paterna [155]. Più tecnicamente, il precettore svolge le medesime funzioni di educazione e sorveglianza del minore che l’ordinamento attribuisce ai genitori. Poiché l’ordinamento vuole incentivare tali obblighi di educazione e sorveglianza, a tutela dei terzi, è corretto che i precettori siano soggetti ai medesimi vincoli istituzionali disegnati per condizionare le scelte dei genitori. Anche se è ovvio sottolineare i tratti peculiari della fattispecie del 2° co. [156]: i precettori rispondono degli illeciti dei minori solo per il tempo in cui costoro sono sottoposti alla loro vigilanza, e solo per quegli atti illeciti che ricadono sotto il loro potere di controllo [157].

Il 2° co. dell’art. 2048 non menziona la minore età degli allievi. Qualche spirito balzano ha quindi fatto azione per far dichiarare la responsabilità dei precettori per danni cagionati da allievi maggiorenni. La giurisprudenza lo ha ricondotto alla realtà [158].

Qualche autore ha, invero, ipotizzato una diversa interpretazione, spingendo la sua capacità interpretativa fino a distinguere tra gli atti illeciti, che fanno diretto riferimento all’attività educativa svolta dal precettore, per cui la responsabilità di questi non sarebbe esclusa dalla maggiore età dell’allievo [159], e gli illeciti che paiono legati all’attività didattica da un mero legame di occasionalità necessaria, per cui il precettore va indenne da ogni responsabilità per il danno prodotto da un allievo maggiorenne [160]. Non mi sembra che queste posizioni meritino accoglimento. Non si può infatti equiparare un allievo ad un lavoratore. Il precettore non dirige l’opera dell’allievo come il datore di lavoro dirige quella del dipendente. Con il fissare una maggiore età il legislatore vuole incentivare l’assunzione di comportamenti responsabili da parte dei soggetti così insigniti. Permettere che il precettore risponda dei danni cagionati dall’allievo maggiorenne, pur tipicamente connessi con l’attività educativa impartita, significa andare nella direzione opposta. È chiaro che la decisione collettiva legislativa sulla maggiore età ha necessariamente caratteri di artificialità, ma appunto per questa sua discrezionalità è corretto demandarla al legislativo e non alle corti, nell’ambito del nostro sistema costituzionale. Il precettore che spinga l’allievo a cagionare un danno, ad esempio facendogli eseguire un esperimento chimico pericoloso per i terzi, sarà responsabile ma non in virtù delle regole dell’art. 2048, bensì in virtù di quelle dell’art. 2043. E perciò anche l’apporto causale dell’allievo andrà valutato alla stregua di quella norma, così come il suo apporto colposo alla produzione del danno. Se poi è lo stesso datore di lavoro ad organizzare dei corsi di apprendimento, allora la responsabilità dei vari soggetti coinvolti (datore di lavoro, precettore, e allievo) andrà apprezzata sulla base del disposto dell’art. 2049 c.c. [161], ma, insomma, l’art. 2048 rimane estraneo alla tematica. La sua genesi e la collocazione della norma contenuta nel 2° co. dell’articolo in esame, spingono necessariamente in questa direzione. Non avrebbe infatti senso disincentivare l’allievo maggiorenne, rispetto ad una valutazione critica della condotta del precettore, che si ponga come potenzialmente dannosa nei confronti dei terzi, proprio quando viene meno la possibilità di una sua adesione acritica (in termini di responsabilità civile, ben s’intende) alle scelte ed alle direttive impartite dai genitori.

Precettore, ai fini del 2° co. dell’art. 2048 c.c., è qualunque insegnante, qualsiasi sia il tipo di disciplina impartito, l’ordine, il grado e la natura, pubblica o privata, della scuola [162]. La posizione assunta dalla giurisprudenza fa così giustizia dei dubbi che anteriormente potevano sorgere [163]. Si richiede comunque che l’insegnante abbia un potere di direzione e di controllo degli atti dell’allievo [164]. In questo modo si è ritenuto che non sono insegnanti in senso tecnico i presidi ed i direttori didattici [165], a meno che non svolgano in proprio corsi di insegnamento [166]. Nell’ambito della norma vanno ricomprese invece le figure più svariate di persone che svolgono un’attività di «socializzazione» del minore [167]: ad esempio gli addetti alla vigilanza nei centri di rieducazione per minorenni dipendenti dal Ministero di Grazia e Giustizia [168]; il personale degli istituti di educazione gestiti da enti locali [169]; i maestri in servizio durante il doposcuola [170]; i bidelli relativamente ai minori usciti dall’aula col permesso dell’insegnante [171] ed affidati alla loro vigilanza [172]; le vigilatrici e gli operatori incaricati della sorveglianza nelle colonie estive [173]; i dipendenti del Coni in occasione di esercitazioni ginniche [174]; in generale gli istruttori sportivi [175]. La disposizione si applica quindi agli istruttori di guida, ai maestri di tennis, di equitazione e di sci [176].

Affinché sorga la responsabilità dell’insegnante ex art. 2048 c.c. è necessario e sufficiente che l’atto illecito venga posto in essere in occasione dello svolgimento della attività di insegnamento. Attività che può oggi assumere varie forme come le visite e i viaggi di istruzione o l’attività sportiva [177]. La dottrina e la giurisprudenza ritengono che, nel settore degli istituti statali, il dovere di vigilanza dell’insegnante sorge al momento dell’entrata nella scuola dell’allievo e cessa con l’uscita di quest’ultimo al termine delle lezioni [178], principio adottato dalla S.C. in Min. P.I. c. Benedetti [179]. Perciò è pacifico che, nelle scuole elementari, l’obbligo di vigilanza permane anche durante il periodo della ricreazione [180], e si estende a tutto il cortile fino al cancello della scuola [181].

Si osservi che, per quanto riguarda gli insegnati pubblici, le Sezioni Unite della Cassazione in Masussi c. Ministero della Pubblica Istruzione [182] hanno definitivamente escluso la legittimazione passiva degli insegnanti, tanto per il danno cagionato dall’alunno a sé medesimo, quanto per il danno cagionato dall’alunno a terzi, laddove il danno sia derivato dalla violazione dell’obbligo di vigilanza dell’insegnante. In queste ipotesi unico soggetto legittimato passivo è la Pubblica Amministrazione, che può, nei casi di dolo e colpa grave, agire in rivalsa contro il proprio dipendente. Infatti, se il danno procurato dall’allievo si è verificato all’interno di una scuola statale, è opportuno tenere presente che il corpo insegnante è tutelato dall’art. 61, l. 11 luglio 1980, n. 312. Questa norma, che peraltro, secondo la particolare interpretazione delle Sezioni Unite, limiterebbe la responsabilità del personale scolastico (compreso il corpo docente) per i comportamenti tenuti dagli alunni ai soli casi di dolo o colpa grave nell’esercizio della vigilanza [183], prevede appunto l’esclusione della legittimazione passiva del corpo scolastico. Si noti che la vocazione in giudizio deve riguardare il Ministero della Pubblica Istruzione e non già l’istituto scolastico [184].

Se la scuola si avventura ad organizzare in proprio il trasporto, la sua responsabilità vicaria perdura per tutto il corso del trasferimento degli studenti da casa a scuola e viceversa [185]. È poi appena il caso di ricordare che ovviamente la responsabilità della scuola permane in caso di fuga del minore dalla scuola [186], essendo evidentemente in re ipsa in questi casi la dimostrazione di una infrazione al dovere di vigilanza. La scuola ha quindi anche il diritto di prendere misure di autotutela nei confronti dei minori che lasciano l’edificio scolastico, così come è stato deciso in Guastavigna e Molino [187]. Alcuni studenti lasciavano la scuola durante l’ora di religione, in quanto optavano per la facoltà di non avvalersi di tale insegnamento. Il capo dell’istituto decise allora di prendere nota, previa identificazione personale, dei nomi di coloro che prelevavano gli scolari, costringendoli anche a sottoscrivere quanto nel registro di classe annotato. Alcuni genitori invocarono la tutela d’urgenza per far cessare questo comportamento adducendo che esso violava il loro diritto costituzionale di «non avvalersi» dell’insegnamento religioso. La risposta della Corte è stata negativa [188]. Il Pretore ha giudicato legittima «l’autotutela probatoria» attuata dalla Scuola ai fini dell’art. 2048, atteso che lo «stato di non obbligo» degli studenti che non si avvalgono dell’insegnamento religioso, non «implica la cessazione del rapporto civilistico-disciplinare» tra l’autorità scolastica e gli studenti.

Tutte queste regole mi paiono ineccepibili. Per quanto attiene agli edifici e cortili scolastici, ed al trasporto organizzato dalla scuola, è ovvio come il controllo di tali spazi e di tali attività sia nelle mani della scuola, e come quindi la scuola debba essere incentivata a scegliere delle soluzioni efficienti in termini di sicurezza dei terzi, il che avviene appunto facendo internalizzare alla scuola i costi (in termini di risarcimenti dei danni) delle sue stesse scelte.

In Russo c. Ist. Apostole del Sacro Cuore di Gesù [189] si è stabilito che non costituisce un’esimente per la responsabilità dell’istituto scolastico, cui è affidato un minore, la disposizione del genitore di lasciare il minore senza sorveglianza in un determinato luogo. Sulla validità di questa soluzione vi potrebbero essere alcuni dubbi. La scuola infatti è libera di lasciar uscire i minori senza doversi preoccupare del loro ritorno a casa, tuttavia se essa si insinua nella procedura di riconsegna evidentemente la giurisprudenza ritiene di gravarla, onde incentivare la conclusione di accordi col genitore che tendano al massimo della sorveglianza sul minore stesso. In sostanza la dismissione degli studenti può avvenire in modo tipico o atipico: in modo tipico può avvenire semplicemente aprendo i cancelli dell’edificio alla fine delle lezioni. Se avviene in modo atipico allora la scuola deve effettuare una vera e propria traditio, sia che ciò avvenga prima della fine dell’orario, sia che ci si accordi per la riconsegna del minore in un luogo determinato.

Mi sembra peraltro evidente come tali soluzioni siano tutte giustificabili in termini di responsabilità oggettiva, anche se ancora, purtroppo, talvolta fa capolino l’utilizzazione dello schema della colpa. In Min. Istruzione c. Sportass [190] la S.C. si è addirittura spinta al ragionamento seguente. Si trattava di una gara sportiva scolastica. Uno scolaro fu colpito da un attrezzo sportivo mentre assisteva alla gara. La S.C. ha sostenuto che quando non è possibile ricostruire le esatte modalità dell’evento lesivo la responsabilità dei precettori può essere fondata su un ragionamento induttivo dal quale risulti senza dubbio la loro colpa. Ma se non è possibile ricostruire le esatte modalità dell’evento come è possibile fare un ragionamento induttivo che dimostri senza dubbio la colpa dei precettori? Questi sono misteri che è meglio non scandagliare. È chiaro che i precettori non hanno potuto fornire la prova dell’impossibilità di impedire il fatto, e quindi è stata posta a loro carico la responsabilità dell’evento non ben ricostruibile. È altrettanto chiaro però che quando un martello è partito in volo (si fa per dire) è impossibile per chiunque ormai impedire il fatto. Gli spettatori devono essere a distanza di sicurezza, ma tale distanza evidentemente coincide con quella in cui il martello non può arrivare. Nella specie si vede bene che adottare lo schema della colpa conduce in queste ipotesi a dire sciocchezze sia sulla colpa, sia sul nesso causale. La verità è che il legislatore ha posto a carico della scuola una responsabilità per rischio tipico [191] delle attività da essa organizzate. Peraltro è evidente che la scuola (e non i minori o i genitori) è il soggetto che si trova nella posizione migliore per adottare misure atte a prevenire il danno [192].

Infine il 2° co. dell’art. 2048 equipara ai precettori coloro che insegnano un mestiere o un’arte relativamente agli illeciti commessi dagli apprendisti nel tempo in cui si trovano sotto la loro sorveglianza. La scelta del termine apprendista si pone al di fuori dell’uso che di esso viene fatto all’art. 2130 c.c. e in varie leggi speciali [193]. Apprendista è qui chiunque apprenda un’arte o un mestiere, indipendentemente da uno specifico rapporto di lavoro. A sua volta il maestro d’arte assume nei confronti del minore poteri e doveri di educazione in senso ampio, onde renderlo idoneo non solo all’arte o al mestiere, ma anche alla vita di relazione col mondo esterno [194]. Perciò il maestro può essere ritenuto responsabile anche degli atti commessi dal minore, nei suoi locali, ma al di fuori dell’orario [195]. Tutte queste soluzioni si spiegano se si tiene presente che, nell’interesse dei terzi, il minore deve sempre avere un «angelo custode», sia esso il genitore, il tutore, l’insegnante, il maestro e così via [196]. Perciò se uno di questi soggetti acconsente che il minore resti con sé ne è responsabile fin quando non lo riconsegna ad un altro gardien [197].

Anche nel caso del maestro d’arte può residuare una concorrente responsabilità del genitore per violazione della culpa in educando [198].

9.             Responsabilità solidale e azioni di rivalsa

Un tema quanto mai dibattuto è stato quello dell’applicazione dei criteri della responsabilità solidale alle fattispecie regolate dall’art. 2048 c.c.

In base alla teoria più accreditata, l’articolo in esame non esclude la responsabilità personale del minore in quanto soggetto capace. La responsabilità dei vicari si aggiunge a quella personale del minore [199]. Perciò a norma dell’art. 2055 c.c. il risarcimento del danno può venire richiesto sia ai genitori, a loro volta legati da vincoli di solidarietà, sia al minore autore immediato dell’illecito [200].

Nonostante il pacifico accoglimento di tale teoria la stessa non mi sembra così scontata da dover essere accettata senza esame critico, in particolare perché essa finirebbe quasi sempre per far slittare l’onere risarcitorio sulle spalle del minore, mediante un’azione di rivalsa che finirebbe per liberare i vicari da seri incentivi a prevenire la sua condotta dannosa.

La lettera dell’art. 2048 infatti non dice semplicemente che i genitori rispondono nei confronti del terzo per il danno arrecato dal minore. Dice piuttosto che i genitori (ecc.) «sono responsabili» del danno cagionato dal minore. Non vi è quindi un argomento testuale per dimostrare de plano la responsabilità del minore nei confronti dei terzi. Si cerca di costruire un tale argomento a partire dalla differenza tra la dizione dell’art. 2047 che parla di «danno cagionato da persona incapace» e quella dell’art. 2048 che parla espressamente di «fatto illecito» dei figli minori e degli allievi. Poiché il legislatore ha detto fatto illecito ha inteso affermare la responsabilità del minore e aggiungervi quella dei genitori. L’argomento però non mi sembra decisivo. Coll’usare la locuzione fatto illecito il legislatore può benissimo non aver fatto riferimento alle conseguenze della fattispecie, ma agli elementi della fattispecie. Egli non poteva usare la stessa locuzione all’art. 2047 in quanto, a cagione dell’incapacità, tali elementi non erano gli stessi (date le teoriche in vigore all’epoca della redazione del codice) di quelli riuniti nella previsione dell’art. 2043. Pertanto la lettera dell’art. 2048 potrebbe legittimamente leggersi in questo modo «quando un minore pone in atto una condotta che integra gli estremi della fattispecie del fatto illecito, allora le conseguenze di tale fattispecie ricadono sui genitori, i tutori, gli insegnanti, ecc.». Anzi mi sembra francamente questa la lettura più piana del testo della norma. Né credo che si possa trarre argomento dal fatto che persino l’incapace può essere tenuto a corrispondere un’indennità alla vittima, giacché la norma che fonda tale pretesa, se correttamente intesa, sfugge ai criteri della responsabilità civile e obbedisce ad una logica indennitaria sui generis, e peraltro non fonda un diritto del terzo da far valere nei confronti dell’incapace, ma un suo semplice potere di provocare un giudizio equitativo, ancorato non tanto ai parametri della responsabilità, ma a quelli delle condizioni economiche della vittima e dell’incapace. D’altronde che i genitori possano esercitare un’azione di regresso nei confronti del minore per quanto corrisposto, ai sensi dell’art. 2055, 2° co., c.c. si trova affermato solo dalla dottrina più concisa che si è occupata del tema [201]. La giurisprudenza si limita a enunciare che l’azione del terzo può indirizzarsi sia verso il minore che verso i genitori [202], ma questo può non essere altro che un favor processuale per cui può essere più comodo al terzo rivolgersi al minore che ai genitori, attuandosi poi una forzata sostituzione processuale degli effetti risarcitori in capo ai genitori; tant’è che la S.C. ha stabilito che non si versa in un’ipotesi di litisconsorzio necessario [203], nel senso che la mancata partecipazione del minore al giudizio non affligge di nullità la sentenza [204]. Il minore non è quindi considerato un controinteressato necessario, contrariamente a quelli che sarebbero invece i suoi veri interessi visto che, secondo certa concisa dottrina, i genitori potrebbero poi esercitare nei suoi confronti l’azione di rivalsa per l’intera somma corrisposta. Questo indirizzo mi sembra confermare la irresponsabilità del minore piuttosto che la sua responsabilità.

In mancanza, quindi, di un sicuro argomento esegetico che fondi la responsabilità del minore, nei confronti del terzo ci si può chiedere se vengono in soccorso argomenti fondati sulla ratio dell’istituto. È chiaro che la norma dell’art. 2048 pone incentivi ai genitori affinché costoro scelgano un livello efficiente di attività del minore in termini di sicurezza dei terzi. Poiché la responsabilità del minore, e quindi l’obbligo risarcitorio dei genitori, può sussistere solo se il minore è in colpa, e in tali casi i genitori potrebbero esercitare la rivalsa nei confronti del minore, i genitori non avrebbero che deboli incentivi teorici ad attuare una condotta preventiva efficiente, e quindi lo scopo della norma sarebbe in gran parte frustrato dal riconoscere la responsabilità del minore. Peraltro è vero che, se il minore sapesse di dover mallevare i genitori, egli adotterebbe uno standard di due care nell’ambito delle attività permesse dai genitori contribuendo ad aumentare la sicurezza dei terzi, invece di sottostimare i loro rischi. Anche questo argomento però non mi sembra decisivo. In primo luogo perché i genitori hanno ben altri strumenti che non l’azione di rivalsa per imporre al minore la preferenza per l’adozione di uno standard di due care. In secondo luogo perché la capacità di intendere e volere che viene qui in considerazione è quella di capacità di porre in atto meccanismi di inibizione e di controllo del comportamento [205], e non quella di effettuare calcoli giuridici raffinati sulle conseguenze delle proprie azioni, quale si può richiedere ad un maggiore d’età, ma non ad un minore [206]. Tuttavia mi sembra chiaro che spingere il minore ad adottare uno standard di due care sia favorevole alla prevenzione degli incidenti. Occorrerebbe quindi, in conclusione di questa disamina critica, una regola che, pur sancendo la responsabilità del minore, non permetta comunque ai vicari di scaricare in toto il loro fardello risarcitorio sulle spalle dello stesso minore.

In effetti la Corte Suprema si è esplicitamente espressa sul punto a proposito della rivalsa esercitabile da parte del precettore, pur se in una decisione rimasta senza commento.
In Moja c. CONI
 [207]
, infatti, essa ha affermato che è inammissibile una azione di rivalsa totale del precettore che lo mandi indenne da ogni onere di risarcimento. Secondo il saggio orientamento della S.C., in tema di responsabilità vicaria per il fatto illecito commesso dal minore, il danno risulta sempre essere la risultante di due violazioni che hanno concorso a determinarlo: quella ascrivibile al minore che ha materialmente commesso il fatto, e quella imputabile all’omissione del vicario che quel fatto aveva l’obbligo di impedire e non lo ha impedito. Perciò il vicario, così come fu partecipe nella produzione dell’evento, deve necessariamente essere partecipe all’onere del risarcimento del danno: la ripartizione andrà effettuata in ragione della gravità delle rispettive colpe [208].
La doctrine di Moja c. CONI rende allora accettabile la teoria della responsabilità del minore, poiché non libera mai i vicari da un onere risarcitorio che li deve spingere a controlli efficienti, ma nel contempo può contribuire a rendere appetibile al minore l’adozione di uno standard di due care nel non sottovalutare i rischi delle proprie azioni per i terzi. Mi sembra, peraltro chiaro, come la doctrine di Moja c. CONI sia applicabile anche ai genitori in quanto responsabili vicari. Pertanto il minore convenuto in rivalsa potrebbe opporre ai genitori in deduzione quella parte di danno che deriva da una loro culpa in educando o in vigilando. Peraltro è anche chiaro come nella stragrande maggioranza dei casi il danno recato al terzo sarebbe la risultante almeno di una culpa in educando da parte del genitore, e quindi come l’azione di rivalsa loro concessa dall’ordinamento finisca per essere piuttosto spuntata. Uno spazio efficace residuo lo si avrebbe proprio solo in quelle ipotesi in cui il danno è stato recato dal minore in colpa senza una colpa concorrente dei genitori in educando vel in vigilando. Si pensi al danno recato dal quasi maggiorenne sugli sci o in moto. Si arriverebbe allora anche in Italia ad una pratica asserzione della responsabilità del quasi maggiorenne, mediata però attraverso lo schermo del genitore nei confronti del terzo.

Diverso problema è se sussista una qualche solidarietà fra la responsabilità dei genitori e quella degli insegnanti. Cioè se l’affidamento del figlio a soggetti idonei a sorvegliarlo escluda la responsabilità dei genitori. La giurisprudenza ha adottato in Ist. Filippini c. Benvenuti [209] la doctrine per cui la responsabilità del precettore per culpa in vigilando non esclude senz’altro quella del genitore per culpa in educando [210]. Il che significa che, venuta meno l’obbligazione di vigilanza, le modalità di esecuzione dell’illecito da parte del minore possono costituire una prova di una culpa in educando imputabile ai genitori [211]. La vittima potrà in conseguenza rivolgersi per il risarcimento del danno cumulativamente o alternativamente verso i due condebitori. La soluzione è sensata e merita accoglimento: si tratterà infatti di addossare a ciascun vicario i rischi tipici di un comportamento che egli, o entrambi, dovevano essere incentivati a inibire nel minore.

Naturalmente se il bambino rimane ferito ad opera di un coetaneo si applicheranno le norme consuete, per cui il risarcimento sarà proporzionalmente ridotto ove venga riconosciuta la colpa concorrente di un altro sorvegliante della vittima [212].

Qualora il precettore agisca all’interno della struttura dello Stato o di un altro ente pubblico anche la p.a. potrà venire chiamata a rispondere in virtù del richiamo effettuato dall’art. 28 Cost. [213]. Ci si potrebbe però chiedere se, nella specie, vale la limitazione posta dall’art. 23 del Testo Unico sugli Impiegati civili dello Stato [214]. La norma specifica infatti che deve intendersi per danno «ingiusto» quello che deriva da una violazione del diritto del terzo che l’impiegato abbia commesso con dolo o colpa grave. Tuttavia, come è noto [215], la stessa norma fa anche salve le responsabilità più gravi previste dalle leggi vigenti. È, quindi, opinione consolidata quella per cui tale riferimento non vale rispetto agli artt. 2047-2054 c.c. [216], anche se si sono levate voci contrarie [217]. La legislazione recente ha previsto uno schema di surrogazione dell’Amministrazione al personale scolastico chiamato a rispondere di danni risentiti da terzi per difetto di vigilanza sugli alunni [218]. Disposizione che rende ancor più trasparente la natura oggettiva della responsabilità vicaria per il danno cagionato dai minori. L’Amministrazione mantiene, naturalmente, un potere di rivalsa contro l’impiegato per i casi di dolo o colpa grave [219]. Tale natura oggettiva è ulteriormente implementata dalle disposizioni adottate da alcune Regioni che, nell’ambito delle loro competenze in materia di assistenza scolastica, hanno previsto un Compensation scheme opportunamente basato sulla stipula di una polizza assicurativa a favore sia degli alunni che del personale (docente, dirigente ed ausiliario). Tali polizze coprirebbero ogni incidente che possa verificarsi nel percorso da casa a scuola, e nello svolgimento di qualsiasi attività didattica, culturale, ricreativa o sportiva, promossa dalle autorità scolastiche o col consenso delle stesse, anche in orario extra-scolastico [220]. La direzione in cui muovono tali provvedimenti è ovviamente quella giusta, nel senso che le varie ipotesi di responsabilità oggettiva si pongono sempre come alternative ad un compensation scheme assicurativo. Perciò mi sembra corretto dedurre che chi partecipa al compensation scheme non può poi avanzare ulteriori pretese risarcitorie.

10. La prova liberatoria

La lettera della legge prevede che i genitori, i tutori, i precettori ed i maestri vadano indenni da responsabilità se dimostrano di non aver potuto impedire il fatto.

La locuzione della legge è vuota ed inutilizzabile. Perciò la posizione assunta dagli interpreti è risultata più ampia e complessa [221]: occorre che i vicari dimostrino in positivo di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno [222], secondo i classici schemi della responsabilità oggettiva.

Non osta alla considerazione di tali schemi che la giurisprudenza faccia costantemente riferimento, a proposito dei genitori, ad un loro doppio dovere con riferimento alla culpa in vigilando ed alla culpa in educando [223]. La responsabilità oggettiva si fonda, infatti, palesemente sull’imposizione di doveri di varia natura sui soggetti potenzialmente responsabili, e le locuzioni culpa in vigilando e in educando sono ormai semplici locuzioni riassuntive di rapporti complessi, che nulla hanno più a che fare con la ricerca o la dimostrazione di un elemento soggettivo di colpevolezza nella condotta dei genitori [224].

Un primo contenuto della prova liberatoria imposta ai genitori consiste, quindi, nella dimostrazione di aver svolto una vigilanza adeguata, per contenuto e intensità, all’età, all’indole ed al carattere del minore [225].

In base alla doctrine di Burgo c. Saccuzzo [226] il dovere di vigilanza a carico dei genitori non comprende però un’attività costante di accompagnamento quando si tratti di spostamenti quotidiani, consueti ed esenti da rischi del minore [227]. Si è inoltre soliti ritenere che l’autonomia di vita che il minore consegue nel tempo con l’adolescenza escluda che possa continuare a gravare sui genitori un obbligo di vigilare fisicamente il minore. A questo riguardo la S.C. [228]ha  affermato che non occorre che il genitore provi la sua costante ed interrotta presenza fisica accanto al figlio quando, per l’educazione impartita, per l’età del figlio e per l’ambiente in cui egli viene lasciato libero di muoversi, risultino correttamente impostati i rapporti del minore con l’ambiente extrafamiliare, facendo ragionevolmente presumere che tali rapporti non possano mai costituire fonte di pericoli per sé e per i terzi. Nella specie, la Cassazione ha escluso la responsabilità dei genitori di un ragazzo, che si era recato a giocare a tennis con degli amici in una piazza di un piccolo paese e, a fronte della reazione violenta del proprietario di un fondo attiguo su cui era caduta una pallina, aveva frantumato, infuriato, la propria racchetta contro un muricciolo; una scheggia dell’attrezzo aveva poi colpito l’occhio del­ l’uomo, causandogli gravi lesioni. Dunque, la vigilanza viene intesa in senso non assoluto, bensì relativo.

Un secondo contenuto consiste nella dimostrazione di aver impartito al figlio un’educazione consona [229] in rapporto alle condizioni personali, familiari, e all’ambiente sociale, in modo da avviare il minore ad una corretta vita di relazione [230].

Perciò in assenza di un difetto di sorveglianza il genitore va indenne se dimostra di avere impartito un’educazione idonea al figlio [231].

La prova dell’educazione idonea può essere resa impossibile dalle modalità in cui è avvenuto il fatto illecito, le quali dimostrerebbero in re ipsa che tale educazione è stata carente. Questa doctrine è stata enunciata in Bonatti c. Masi [232]. Si trattava del caso di un decenne che lanciò un sasso con la fionda e ferì una coetanea. In esso si è ricordato che la prova liberatoria dei genitori consiste (a parte ciò che ne dice il codice) nella prova di aver impartito una sana educazione, e svolta una vigilanza adeguata all’età, carattere e indole del minore, ma si è pure sancito che tale prova non può essere raggiunta, se le modalità del fatto illecito dimostrano da sé la inidoneità dell’educazione ricevuta [233]. Sempre in tema di prova dell’educazione impartita in Quero c. Bartucci [234] si è deciso che i genitori non possono utilizzare i giudizi scolastici rilasciati sul figlio. Ciò in quanto il minore, a detta della Corte, si comporta diversamente quando si sottrae al controllo dell’insegnante «ed al timore che questi ancora incute su un alunno di scuola elementare». In tal modo i genitori, o chi per essi, non possono attingere a tutte le prove sull’educazione dei loro figli che sarebbero fornite dal luogo istituzionalmente delegato a fornirgliela: la scuola, giacché il comportamento del minore sarebbe falsato dal timore del maestro. La soluzione non mi sembra soddisfacente: non solo il timore del maestro è un ottimo indice di buona educazione, ma non si vede nella legislazione alcuna limitazione alle possibilità probatorie offerte ai genitori per «discolparsi».

Comunque, come è stato chiarito dalla Corte Suprema, in Panzeri [235] la prova liberatoria non può mai dirsi raggiunta dimostrando la semplice circostanza di aver fatto seguire al minore i corsi prescritti per esercitare una data attività [236]. La doctrine del caso Panzeri vale anche quando i genitori consentano l’uso di motoveicoli, per cui non è prescritta la patente, a ragazzi troppo giovani [237].

L’educazione che i genitori debbono impartire può anche essere intesa nel senso di educazione sportiva [238], per cui i genitori possono andare del tutto indenni dalla responsabilità per i danni cagionati dal figlio nel corso dell’esercizio di una pratica sportiva, nella quale sia stato, ma ai sensi della sopra ricordata doctrine Panzeri, «ben educato» dai genitori.

Quale può essere, infine, la ratio che collega tutta questa casistica giurisprudenziale? Direi che la migliore formulazione di una doctrine generale è stata enunciata dalla Corte Suprema in Musini c. Lenzi [239]. In base a tale doctrine i genitori non rispondono per il fatto illecito del minore che si presenti come del tutto anomalo in rapporto all’indole e alle tendenze abituali del minore, alla buona educazione ricevuta, ed alla normale vigilanza dovuta dai genitori. Questa doctrine è, infatti, in grado di fornirci un criterio generale in accordo con i principi della responsabilità oggettiva che grava sui genitori, pur in riferimento agli schemi formulativi della culpa in vigilando e in educando. In sostanza il legislatore vuole che i genitori internalizzino i rischi tipici connessi con le attività del minore. Perciò non basta che il minore abbia la patente o che il minore riceva un motorino adatto alla sua età, e il padre gli abbia insegnato a guidarlo, perché anzi gli incidenti che derivano da tali attività sono proprio quelli che il legislatore vuole addossare ai genitori. Certo i genitori sarebbero sicuramente responsabili se permettessero la guida del minore senza patente. Ma ai genitori non basta adottare uno standard di due care per andare indenni dalla responsabilità [240]. I genitori devono impartire un’educazione idonea e vigilare il minore, ma vanno indenni da responsabilità solo quando il fatto del minore si ponga in modo anomalo rispetto all’educazione e alla vigilanza umanamente esigibili [241] dai genitori, cioè quando il fatto del minore non era ex ante internalizzabile da parte dei genitori stessi.

Perciò anche in caso di infortunio sugli sci, o in automobile, non si può richiedere che il genitore scii (o guidi) costantemente col minore, e perciò se il genitore ha fatto di tutto perché il minore fosse adeguatamente istruito in merito all’uso del mezzo tecnico, ed alla comprensione della possibile illiceità degli atti, il genitore ha fatto tutto quel che poteva fare. Tuttavia in caso di incidente tipico (connesso con lo sci o la moto) egli non deve essere sollevato dalla propria responsabilità perché sono proprio i costi di questi incidenti normali che il legislatore vuole porre a suo carico, e per cui il genitore deve assicurarsi.

Il genitore andrà sollevato da responsabilità solo quando, oltre ad avere impartito l’adeguata educazione ed esercitato la normale vigilanza esigibile, il fatto illecito del minore si ponga in modo anomalo rispetto alla sua sfera di controllo [242].

Si noti che tali principi  possono essere intesi anche in senso particolarmente gravoso per i genitori. Ad esempio, in tempi recenti la S.C. [243], in Giaume ed altri c. Tumino ed altri, ha ritenuto che non si pone  come fatto anomalo il lancio di una gomma effettuato, con intento scherzoso, da un alunno (diciassettenne) ai danni di un suo compagno. Secondo la Cassazione, infatti, tale gesto denota nel suo autore un’immatura sconsideratezza e una non ancora acquisita coscienza della irrilevanza delle intenzioni sui risultati di un atto comunque oggettivamente violento, cosicché ne discende la responsabilità dei genitori per colpa in educando per non avere fatto conseguire in capo al minore un certo grado di maturità anche nelle attività di gioco e di scherzo.

Infine il fatto non si pone in modo anomalo, e quindi tale da escludere la responsabilità del genitore, quando l’anomalia derivi da una condotta del minore incompatibile con l’educazione anche sulla illiceità degli atti che doveva ricevere dal genitore [244]. Ciò avviene in particolare nei casi di dolo e di colpa grave del minore stesso [245]. In sostanza il genitore deve andare indenne da responsabilità solo quando abbia adottato in via preventiva tutte le misure (educative e di sorveglianza) idonee ad evitare la situazione di pericolo da cui per una negligenza o imperizia del minore è insorto in modo anomalo un danno nei confronti di un terzo.

Questi criteri guida [246] devono guidarci anche nella valutazione della giurisprudenza che si è formata a proposito della responsabilità degli insegnanti.

Per quanto attiene agli insegnanti, infatti, la giurisprudenza richiede che essi dimostrino di aver adottato in via preventiva le misure organizzative e disciplinari idonee ad evitare la situazione di pericolo favorevole alla commissione del danno.

Il problema è se alla valutazione dell’attività di vigilanza debba applicarsi uno standard astratto o concreto [247]. Cioè se l’attività del vicario debba essere esaminata con riferimento ad un modello generale di buon genitore, buon insegnante, e così via, o se invece la sua opera debba essere valutata con riferimento ad un test basato sulle condizioni particolari, e l’ambiente in cui si è svolta. La giurisprudenza si è orientata verso l’applicazione di uno standard concreto e locale [248] che tenga cioè conto dell’età, della formazione, della maturità dell’alunno e delle condizioni ambientali in cui si è dovuto svolgere l’insegnamento. Perciò la vigilanza deve essere massima (per continuità e attenzione) nelle classi inferiori della scuola elementare [249], mentre con l’avvicinarsi alla maggiore età l’attenzione e la continuità richieste potranno via via allentarsi [250]. A seconda delle modalità concrete del fatto la circostanza della sua repentinità potrà scusare l’insegnante oppure farlo ritenere responsabile [251], dato che l’esperienza insegna che relativamente ai ragazzi di una certa età sono sempre prevedibili i gesti inconsulti e pericolosi anche se improvvisi [252]. La miglior salvaguardia consiste quindi, secondo la S.C., nell’organizzare non solo una costante presenza dell’insegnante, ma anche un continuo controllo visivo sugli allievi [253]. Insomma in modo molto corretto la giurisprudenza insiste sul carattere preventivo della sorveglianza che deve essere esercitata dall’insegnante (come dal tutore, ecc.). Tale doctrine è stata espressamente chiarita in Canossa c. Soc. Sportiva Mameli [254]. In tale caso si era verificata una gazzarra tra minori, e l’insegnante si era discolpato sostenendo di non avere potuto effettuare un intervento repressivo quando ormai la gazzarra si era verificata, ma, secondo la Corte, egli doveva dimostrare di aver predisposto in via preventiva misure organizzative idonee a evitare la situazione di pericolo favorevole all’insorgere della serie causale che portò al danno. Col che è perfettamente chiaro lo schema di responsabilità oggettiva sotteso dalle regole che fanno capo all’art. 2048 c.c. Infatti l’insegnante è, in queste circostanze, il soggetto ex ante più idoneo a prevenire l’insorgere di una situazione di pericolo. Il fatto che tale situazione sia insorta è una dimostrazione della carenza delle misure adottate.

 



[1] In tema, in prima approssimazione, cfr. Scognamiglio, La responsabilità civile per fatto altrui, in NNDI, XV, Torino, 1968, 673; Bregoli, Trattamenti open door e responsabilità civile degli ospedali psichiatrici per gli atti dannosi dei loro pazienti, in RDC, 1973, II, 49 ss.; Id., Figure di sorvegliati dell’incapace dopo l’avvento della legge 180, in Un altro diritto per il malato di mente. Esperienze e soggetti della trasformazione, a cura di Cendon, Napoli, 1988, 827 ss.; Cattaneo, La responsabilità civile dello psichiatra e dei servizi psichiatrici, ivi, 217 ss.; Salvi, La responsabilità civile del malato di mente, ivi, 815 ss.; Visintini, La riforma in tema d’assistenza psichiatrica. Problematica giuridica, in PD, 1982, 445 ss.; Id., I fatti illeciti, I, Ingiustizia del danno. Imputabilità, Padova, 1987; Cendon, Il prezzo della follia. Lesione della salute mentale e responsabilità civile, Bologna, 1984, 50; Venchiarutti, La responsabilità civile dell’incapace, in La responsabilità civile, a cura di Cendon, Milano, 1988, 497 ss.; Id., La responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte, in La responsabilità extracontrattuale, a cura di Cendon, Milano, 1994, 397 ss.; Bianca, Diritto civile, V, La responsabilità, Milano, 1994, 690 ss.;  Giannini e Pogliani, La responsabilità da illecito civile, Milano, 1996, 116 ss.; Morozzo della Rocca, La r.c. del sorvegliante dell’incapace naturale,  in La responsabilità civile, a cura di Cendon, Torino, 1998, vol. XI, 1 ss.; Alpa, La responsabilità civile, Milano, 1999, 665 ss.; Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 1999, 635 ss.; Oliva e F.G. Pizzetti, La responsabilità per danno cagionato da incapace e da minore, in Monateri, Il danno alla persona, Torino, 2000, t. 2, 499.

[2] Sulla condotta autolesiva del danneggiato, e su varie figure di «vicari» nei diversi ambienti (carcere, esercito, scuola) cfr. Gaudino, Condotte autolesive e risarcimento del danno, Milano, 1995, 247 ss.

[3] Si pensi all’esuberante minore di ricca famiglia che, correndo a precipizio, danneggia un povero questuante.

[4] L’efficace espressione è di Ponzanelli, Responsabilità civile. Profili di diritto comparato, Bologna, 1992, 391.

[5] De Cupis, Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna, 1971, 50.

[6] Cfr. anche Comporti, Esposizione al pericolo e responsabilità civile, Napoli, 1965, 56.

[7] Così Cass. 18 giugno 1953, n. 1812, Colavecchia c. Marrone, in MGI, 1953; Cass. 4 ottobre 1979, n. 5122, Lopez c. Talerico, in MGI, 1979; App. Lecce 22 dicembre 1969, in GC, 1970, I, 1480.

[8] Cass. 4 marzo 1977, n. 894, Rizzo c. Ministro Istruzione, in MGI, 1977; Cass. 20 settembre 1979, n. 4835, Ministro Istruzione. c. Milano e altro, in RCP, 1979, 534.

[9] Staderisi, La responsabilità civile degli insegnanti e dei dirigenti scolastici, Milano, 1981, 62; Cass. 4 marzo 1977, n. 894, cit.

[10] Così Liserre, In tema di concorso colposo del danneggiato incapace, in RTDPC, 1962, I, 352; Cendon, Il dolo nella responsabilità extracontrattuale, Torino, 1976, 356.

[11] Così Cass. 14 settembre 1967, n. 2157, Boesi c. Ist. Sacro Cuore, in MGI, 1967, e l’avvocato Pogliani, Responsabilità e risarcimento da illecito civile, Milano, 1969, 124.

[12] Cass. 18 giugno 1953, n. 1812, Colavecchia c. Marrone, in MGI, 1953; Cass. 5 dicembre 1974, n. 4027, Caldarazzo c. Mirenda, in MGI, 1974.

[13] Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, 160.

[14] Con un atteggiamento che si può scambiare per moderazione, ma che in realtà rasenta il nonsense. Tabet, Questioni in tema di fatti illeciti del minore, in FI, 1953, I, 1434 aveva proposto di ritenere decisivi, ai fini della qualificazione, le varie circostanze dei singoli episodi. Un modo di procedere che evita problemi all’autore, anche perché allontana i lettori.

[15] Cass. 5 ottobre 1960, n. 2560, Maniconcini c. Pallotta, in MGI, 1960.

[16] Cass. 4 ottobre 1979, n. 5122, cit.

[17] Cfr. Salvi, La responsabilità civile del malato di mente, cit., 805.

[18] Cass. 28 luglio 1967, n. 2012, Pontecorso c. China, in MGI, 1967.

[19] Cass. 10 aprile 1970, n. 1008, Moretti c. Iannetti, in MGI, 1970.

[20] Cass., Sez. Un., 6 dicembre 1951, n. 2732, Campora c. Grondona, in MGI, 1951.

[21] Sul punto cfr. Branca, Responsabilità extracontrattuale e tutela dell’interdetto, in FP, 1956, I, 1311.

[22] Se sussiste, sussiste per altre norme.

[23] Cass. 21 dicembre 1953, n. 3790, Prati c. Mosi, in MGI, 1953.

[24] Cass. 10 aprile 1970, n. 1008, Moretti c. Iannetti, in MGI, 1970; Cass. 5 marzo 1955, n. 646, Maglia c. Maglia, in MGI, 1955; Trib. Milano 12 gennaio 1959, in ARC, 1959, 462.

[25] Su cui cfr. l’opera di Staderisi, La responsabilità civile degli insegnanti, cit.

[26] Per i docenti statali ex art. 39, r.d. 965/1924 per l’istruzione media; e ex art. 350, r.d. 1297/1928 per l’istruzione elementare.

[27] Cass. 5 settembre 1986, n. 5424, Russo c. Ist. Apostole Sacro Cuore, in NGCC, 1987, 493.

[28] Infra per maggiori dettagli e cfr. App. Bologna 30 ottobre 1983, in RGS, 1984, 369.

[29] Per quanto riguarda la scuola materna cfr. Trib. Isernia 22 aprile 1983, in RGS, 1983, 1401.

[30] Art. 61, 2° co., l. 312/1980.

[31] Staderisi, La responsabilità civile degli insegnanti, cit., 258 e infra.

[32] Cass. 12 maggio 1981, n. 3142, Caporello c. Ferrari, in MGI, 1981.

[33] App. L’Aquila 10 marzo 1955, in RGUA, 1955, I, 148.

[34] Ai sensi dell’art. 5, l. 585/1971; cfr. C. St. 23 ottobre 1979, Ministero della Difesa, in CS, 1981, I, 1181. Nella previgenza della l. manicomiale n. 36/1904 si era ammesso che gli infermieri dell’ospedale psichiatrico rivestissero la qualità di sorveglianti nei confronti degli infermi ricoverati App. Cagliari 24 dicembre 1959, in RGI, 1960, Resp. civ., 168. Un vecchissimo precedente aveva attribuito gli obblighi derivanti dalla sorveglianza a chiunque si limitasse anche solo a distrarre l’incapace dalle sue occupazioni: App. Napoli 28 ottobre 1946, in RFI, 1947, Resp. civ., 83.

[35] Sicuramente i riflessi del terzo che si era fatto investire dall’automobile a pedali non dovevano essere eccellenti: cfr. Cass. 15 dicembre 1972, n. 3617, Piseroni c. Madoglio, in MGI, 1972.

[36] I denigratori del vecchio sistema pongono spesso l’accento sul fatto che tali obblighi di custodia fossero addirittura prevalenti rispetto a quelli di cura.

[37] Art. 33, l. 833/1978.

[38] Su cui insiste Zatti, Infermità di mente e diritti fondamentali della persona, in Un altro diritto per il malato di mente. Esperienze e soggetti della trasformazione, a cura di Cendon, Napoli, 1988, 107 ss.

[39] Trib. Bologna 23 maggio 1980, in CPe, 1980, 163.

[40] Bregoli, Figure di sorveglianti, cit., 817; Cattaneo, La responsabilità civile dello psichiatra, cit., 216.

[41] Bregoli, Figure di sorveglianti, cit., 824.

[42] Cendon, Il prezzo della follia, cit., 50.

[43] Trib. Velletri 19 marzo 1979, Sogos c. Villa von Siebenthal, in GI, 1981, I, 2, 567

[44] Trib. Roma 28 febbraio 1977, B.A. c. Di Tullio, in QG, 1977, 697.

[45] Cass. 13 aprile 1973, n. 1055, Soc. assic. Gen. c. Prov. Messina, in MGI, 1973.

[46] Bregoli, Figure di sorveglianti, cit., 831.

[47] Così App. Messina 7 giugno 1958, in RGI, 1956, in RCP, 172.

[48] Cass. 10 agosto 1964, n. 2291, Fornaroli c. Masnari, in MGI, 1964; Cass. 14 settembre 1967, n. 2157, Borsi c. Ist. Sacro Cuore, cit.

[49] Cass. 28 giugno 1976, n. 2460, Conti Cotugno c. Scisca, in MGI, 1976.

[50] Eseguendo peraltro un suo preciso obbligo di mostrare agli alunni lo schieramento dei romani alla battaglia di Canne con l’ausilio del gesso e della lavagna.

[51] Cass. 14 settembre 1967, n. 2157, Borsi c. Ist. Sacro Cuore, cit.

[52] Cass. 10 marzo 1980, n. 1601, Larghi e altro c. Chiarlo e altro, in FI, 1980, I, 1, 2526.

[53] App. Firenze 9 maggio 1967, in GiT, 1967, 722.

[54] Cass. 7 luglio 1958, n. 2445, Napoli c. Bonanno, in MGI, 1958.

[55] Cass. 15 dicembre 1980, n. 6503, Meacci e altro c. Ist. ass. infanzia Romoli, in GI, 1981, I, 1, 1453.

[56] App. Lecce 22 dicembre 1969, in GC, 1970, I, 1480.

[57] Cass. 10 aprile 1970, n. 1008, Moretti c. Iannetti, in MGI, 1970.

[58] Trib. Firenze 30 novembre 1961, in GI, 1963, I, 2, 1087.

[59] Infra n. 5 per l’art. 2048.

[60] App. Roma 14 novembre 1988, in TR, 88, II, 411; App. Milano 8 giugno 1962, in RDSa, 63, 350; Cass. 7 giugno 1977, n. 2342, Merlitti c. Di Paolantonio, in MGI, 1977.

[61] Cass. 15 ottobre 1973, n. 2590, Soc. ind. Confez. Sic c. Ditta Gaeta, in MGI, 1973.

[62] Cfr. Pogliani, Responsabilità e risarcimento, cit., 126.

[63] Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 237; Trimarchi, Illecito (dir. priv.), in Enc. dir., XX, Milano, 1970, 110.

[64] Liserre, In tema di concorso colposo del danneggiato incapace, in RTDPC, 1962, 352.

[65] App. Napoli 5 maggio 1967, in TNap, 1967, I, 195; Cass. 28 gennaio 1953, n. 216, De Carsi c. Del Nero, in MGI, 1953.

[66] Trib. Macerata 20 maggio 1986, Restelli c. Butteri e altro, in RIML, 1989, 249.

[67] Trib. Macerata 20 maggio 1986, Restelli c. Butteri e altri, cit.

[68] Preciso sul punto è questa volta il De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., 55.

[69] App. Napoli 5 maggio 1967, in TNap, 1967, I, 196; Rodotà, Il problema, cit., 160.

[70] Cfr. Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, cit., 30; Rodotà, Il problema, cit., 143.

[71] Da ultimo sul tema della responsabilità di genitori, insegnanti e precettori cfr.: Oliva e F.G. Pizzetti, La responsabilità per danno cagionato da incapace e da minore, cit., 502 ss.; Sbrighi Scotto, Profili di responsabilità dei genitori ex art. 2048 c.c., in RCP, 2000, 908 ss.; Balduin e Buda, La responsabilità civile e penale dell’insegnante, Padova, 1999; Morozzo della Rocca, La r.c. dei genitori, tutori, maestri, in La responsabilità civile, a cura di Cendon, Torino, 1998, vol. XI, 29 ss.

[72] Deve quindi trattarsi di un fatto doloso o colposo ai sensi dell’art. 2043 c.c.: Venditti, Il dovere dei genitori di educare e vigilare la prole in relazione alla prova liberatoria della responsabilità per i fatti illeciti commessi da figli minori, in GC, 1955, I, 1622; Barbero, Criterio di nascita e criteri di propagazione della responsabilità per fatto illecito, in RDC, 1960, I, 581; Busnelli, Capacità ed incapacità di agire del minore, in DFP, 1982, 62; Patti, Famiglia e responsabilità civile, Milano, 1984, 264.

[73] Altrimenti si applica l’art. 2047 c.c.: Cass. 28 giugno 1976, n. 2460, cit.; Cass. 10 aprile 1970, n. 1008, Moretti c. Iannetti, in MGI, 1970; Cass. 2291/1964; Cass. 18 giugno 1953, n. 1812, Colavecchia c. Marrone, cit.; Tabet, Questioni, cit., 143; Scognamiglio, Responsabilità civile per fatto altrui, cit., 695; De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., 59; Scioati, La responsabilità dei genitori ex art. 2048 c.c., in DFP, 1978, 1414; Alpa e Bessone, I fatti illeciti, in Tratt. Rescigno, 14, VI, Torino, 1982, 323.

[74] Visintini, I fatti illeciti, I, cit., 510.

[75] Cfr. naturalmente De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., 62.

[76] Scioati, La responsabilità dei genitori, cit., 1434; e per vari spunti critici Majello, Responsabilità dei genitori per il fatto illecito del figlio minore e valutazione del comportamento del danneggiato ai fini del contenuto della prova liberatoria, in DG, 1960, 48.

[77] Supra n. 1.

[78] Cass. 10 giugno 1985, n. 3664, Bonatti c. Masi, in GI, 1986, I, 1, 1525 (nota).

[79] Cass. 14 dicembre 1968, n. 3977, Cavalli c. Mazzaro, in MGI, 1968.

[80] Cass. 16 maggio 1984, n. 2995, Triassi c. Miliziano, in DPA, 1985, 311 (nota).

[81] Su cui cfr. Rodotà, Il problema della responsabilità civile, (rist.), Milano, 1967, 157.

[82] D’altronde in questo campo già una dottrina più risalente indicava la presenza delle stimmati della responsabilità oggettiva: cfr. Barassi, La teoria generale delle obbligazioni, III, II ed., Milano, 1948, 575; Brasiello, Responsabilità del genitore per il fatto commesso dal minore capace o incapace, in FP, 1954, I, 382.

[83] Scognamiglio, Responsabilità civile per fatto altrui, cit., 694.

[84] Rodotà, Il problema, cit., 156 ss.; Busnelli, Nuove frontiere della responsabilità civile, in Jus, 1976, 62 ss.; Bessone, La ratio legis dell’art. 2053 cod. civ. e i principi di responsabilità oggettiva per i danni causati da rovina di edificio, in RDCo, 1982, II, 1011; Giardina, La condizione giuridica del minore, Napoli, 1984, 132; Mantovani, Responsabilità dei genitori, dei tutori, dei precettori e dei maestri d’arte, in La responsabilità civile, a cura di Alpa e Bessone, Torino, 1987, 12; Corsaro, Funzione e ragioni della responsabilità del genitore per il fatto illecito del figlio minore, in GI, 1988, IV, 227.

[85] Infra n. 8.

[86] Cfr. Trimarchi, Rischio e responsabilità dei genitori, cit.

[87] Questi discorsi, come vedremo, hanno un immediato riflesso in tema di prova liberatoria, il che significa che, se i genitori hanno fatto del loro meglio, è inutile imputargli un danno che sfugge ad una possibilità di previsione tipica. Onde appunto, per regola generale, il danno resta allora sulla vittima.

[88] Così Jemolo, La responsabilità per gli illeciti commessi dai minori, in RDC, 1980, II, 244; Patti, Famiglia e responsabilità, cit., 273 ss.

[89] L’arguto suggerimento viene dal Patti, L’illecito del «quasi maggiorenne» e la responsabilità dei genitori: il recente indirizzo del Bundesgerichtshof, in RDCo, 1985, I, 27 ss., che trae argomento da osservazioni di diritto comparato, e dai dicta di alcune decisioni vuoi di merito (tra cui spicca il dictum di Trib. Udine 26 febbraio 1963, Segatti c. Cotterli, in GI, 1964, I, 2, 126, su cui si sofferma anche la Visintini, I fatti illeciti, I, cit., 519; e cfr. Trib. Trento 30 marzo 1554, in cbvt, 1956, 106; Pret. Bari 8 gennaio 1971, in GM, 1973, I, 50, vuoi di legittimità Cass. 30 ottobre 1984, n. 5564, Burgo c. Saccuzzo, in FI, 1985, I, 145; Cass. 24 ottobre 1988, n. 5751, De Rosellis c. Casella, in GI, 1989, I, 1, 1004). In particolare una tale posizione è stata assunta in Germania dal Bundesgerichtshof sent. 27 novembre 1979, in NJW, 1980, 1044, commentata dal Patti, loc. ult. cit. Aderisce a questo argomento la Visintini, I fatti illeciti, I, cit., 514.

[90] Patti, Famiglia e responsabilità, cit., 272; Chianale, Responsabilità dei genitori (art. 2048 c.c.), in RDC, 1988, 282; Mantovani, Responsabilità dei genitori, cit., 34.

[91] E venire quindi assunta sulla base di una decisione collettiva.

[92] Cass. 19 ottobre 1965, n. 2132, Ist. Parif. Filippin in Asolo c. Benvenuti, in MGI, 1965; App. Venezia 27 ottobre 1974, in CBVT, 1975, 209; Trib. Milano 20 marzo 1970, in MT, 1970, 703; App. Trieste 7 maggio 1963, in CBVT, 63, 570; App. Milano 23 ottobre 1962, in FP, 1963, I, 863.

[93] Così Brasiello, Responsabilità del genitore per il fatto commesso dal minore capace o incapace, in FP, 1954, I, 378 ss.; Trabucchi, Sulla prova liberatoria della presunzione, in GI, 1953, I, 1, 283.

[94] Tesi legata al nome di Majello, Responsabilità dei genitori, cit., 45.

[95] Bonasi Benucci, Limiti e contenuto della prova liberatoria prevista dall’art. 2048 c.c., in GCCC, 1952, III, 371 ss.; De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., 60; Pogliani, Responsabilità e risarcimento, cit., 131; Patti, Famiglia e responsabilità, cit., 265.

[96] Supra n. 1 ss.

[97] Unico che si pone il problema è Bussani, La colpa soggettiva, cit.

[98] È evidente che il minore non possa essere gestore di un’attività pericolosa, o datore di lavoro, per cui non si pongono questioni di sovrapposizione tra queste figure di responsabilità e quella dell’art. 2048.

[99] Comportante cioè l’esonero del genitore dal dovere di sorveglianza.

[100] Cass. 27 novembre 1984, n. 6144, Ferradini c. Pedretti, in AGCSS, 1985, 498; Cass. 27 maggio 1975, n. 2141, Comani c. Onofri, in MGI, 1975.

[101] App. Firenze 15 marzo 1955, in GiT, 1955, 387.

[102] Cass. 21 ottobre 1976, n. 3725, Marianecci c. Roberti, in MGI, 1976; App. Ancona 18 settembre 1962, in RCP, 1962, 468.

[103] Infra n. 10.

[104] Si pensi al minore («ben educato») che scala con la moto il Palazzo a Vela di Torino, che entra con la moto in un maneggio di cavalli, che intraprende in proprio e di nascosto dai genitori un’attività non autorizzata di saltimbanco motociclista, e così via.

[105] Questioni della loro prova liberatoria a parte.

[106] Infra cap. XXVIII.

[107] Su cui cfr. Sacco, Il possesso, in Tratt. Cicu, Messineo e Mengoni, Milano, 1988, 161.

[108] Cendon, Il bambino e le cose, in GI, 1992, IV, 344.

[109] Si pensi a fucili ad acqua dal getto potentissimo, armi di plastica o di legno di vario tipo, macchine elettriche telecomandate, robot spaziali emananti raggi della morte, ecc.

[110] Cass. 16 settembre 1959, n. 2585, Bigolin c. Soc. torcitura Borgomanero, in MGI, 1959; App. Milano 22 marzo 1974, in ARC, 1974, 258; App. Firenze 17 aprile 1964, in GiT, 1964, 748; Patti, Famiglia e responsabilità, cit., 258.

[111] Cass., Sez. Un., 3 febbraio 1972, Ammin. Pubbl. Istruz. c. Sollazzo, in MGI, 1972; seguita da App. Roma 14 novembre 1988, in TR, 1988, II, 411.

[112] In tal senso anche Cass. 5 settembre 1986, n. 5424, Russo c. Ist. Apostole Sacro Cuore di Gesù, in NGCC, 1987, 493.

[113] Cass. 13 aprile 1979, n. 2195, Romano c. Zavaglia, in AGCSS, 1979, 65.

[114] De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., 60; Id., Il danno. Teoria generale della responsabilità civile, III ed., Milano, 1979, 143.

[115] Alpa e Bessone, I fatti illeciti, cit., 323.

[116] Cass. 18 aprile 1978, n. 1865, Fadda c. Reg. Sardegna, in MGI, 1978; Cass. 9 giugno 1976, n. 2115, Stelluti c. Bisceglia, in MGI, 1976.

[117] Mantovani, Responsabilità dei genitori, cit., 17.

[118] A distanza di un decennio uno dall’altro Rovelli, La responsabilità civile da fatto illecito, Torino, 1965, 229 e Pogliani, Responsabilità e risarcimento, cit., 133.

[119] Cass. 11 luglio 1978, n. 4391, in AC, 1979, 30; in RCP, 1979, 48 su cui cfr. Visintini, I fatti illeciti, I, cit., 512.

[120] Trib. Milano 20 marzo 1970, in MT, 1970, 703 ss.; Rovelli, La responsabilità, cit., 240 aveva già intuito questa soluzione.

[121] Percosse continue, rimproveri ingiustificati ed esasperanti, furti in danno del minore, ma anche continue lesioni dei suoi diritti alla riservatezza, perquisizioni, violazioni di corrispondenza, ecc.

[122] Tipicamente nascita di un fratellino, o adozione di un altro minore.

[123] Ex art. 318 c.c. Così Cass. 28 giugno 1951, n. 1728, Caramia c. Luprano, in MGI, 1951.

[124] De Cupis, Il danno, cit., 154; Scognamiglio, Responsabilità civile per fatto altrui, cit., 695.

[125] Con piglio guerresco in tal senso si esprime il De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., 58.

[126] Con fare suggestivo così propende il De Cupis, Il danno, cit., 139.

[127] Sui vari punti che attengono al rapporto tra famigliari, e tra genitori e figli in relazione alla responsabilità civile cfr. Patti, Famiglia e responsabilità, cit., 45 ss., 97 ss., 219 ss.

[128] Scognamiglio, Responsabilità civile per fatto altrui, cit., 964.

[129] Ex art. 27, 1° co., l. 184/1983, secondo cui l’adottato acquista lo stato di figlio legittimo degli adottandi.

[130] Cass. 12 maggio 1981, n. 3142, cit.

[131] Istituto peraltro ormai abrogato dall’art. 77, l. 184/1983.

[132] A differenza di quanto avveniva sotto il codice del 1865, il cui art. 1153, 2° co. poneva la responsabilità in prima battuta in capo al solo pater, e metteva in gioco la responsabilità della madre solo in assenza del primo soggetto.

[133] Cass. 22 giugno 1955, n. 1940, Grassi c. Tarantini, in MGI, 1955.

[134] Cass. 26 luglio 1962, n. 2125, Ascione c. Autiero, in MGI, 1962; Cass. 8 luglio 1954, n. 2394, Guidetti c. Bachini, in MGI, 1954.

[135] Cfr. Cass. 18 aprile 1978, n. 1865, Fadda c. Reg. Sardegna, in MGI, 1978; Cass. 19 dicembre 1978, n. 6104, Maccagnani c. D’Arsiè, in MGI, 1978.

[136] Nella generalità dei casi le considerazioni fin qui svolte valgono anche per le ipotesi di scioglimento o di cessazione degli effetti civili del matrimonio.

[137] Cass. 20 maggio 1958, n. 1662, in RCP, 1959, 102 sul cui ruolo cfr. Visintini, I fatti illeciti, I, cit., 510; ma cfr. già App. Roma 2 luglio 1952, in TR, 1952, 35; nonché Trib. Sanremo 7 dicembre 1960, in RGI, 1961, Resp. civ., 124.

[138] Cfr. sul punto Mantovani, Responsabilità dei genitori, cit., 23.

[139] Così Patti, Famiglia e responsabilità, cit., 278.

[140] Così Cass. 20 maggio 1958, n. 1662, Nuvoli c. Nulchis, in MGI, 1958.

[141] Cfr. Venchiarutti, La responsabilità dei genitori, cit., 397 ss.

[142] App. Roma 2 luglio 1951, in TR, 1952, 35; Trib. Sanremo 7 dicembre 1960, in RGI, 1961, Resp. civ., 124.

[143] Mantovani, Responsabilità dei genitori, cit., 25.

[144] Così infatti Trib. Milano 20 marzo 1970, in MT, 1970, 303; Rovelli, La Responsabilità civile, cit., 240.

[145] Mantovani, Responsabilità dei genitori, cit., 25. In tal modo anche il coniuge assente va indenne da responsabilità se da lungo tempo il minore viveva con il solo padre per ragioni di lavoro: Cass. 20 maggio 1958, n. 1662, Nuvoli c. Nulchis, in MGI, 1958.

[146] Ex art. 404 c.c., ora abrogato dalla l. 184/1983.

[147] App. Napoli 7 settembre 1966, in RDMP, 1967, 312.

[148] Cattaneo, Della mora del creditore, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1973, 88; Perego, La responsabilità ex art. 2048 c.c. nel triennio di affidamento anteriore alla filiazione, in RDMP, 1967, I, 312.

[149] Il punto è sviscerato da Procida Mirabelli, Immissioni e rapporto proprietario,  cit., 28.

[150] Artt. 22 ss., l. 184/1983, su cui cfr. il Patti, Famiglia e responsabilità, cit., 281.

[151] Art. 155, 6° co., c.c., e cfr. art. 6, 2° co., l. 898/1970 sul divorzio.

[152] Ex art. 318 c.c. Sul punto cfr. Venchiarutti, La responsabilità dei genitori, cit., 397 ss.

[153] Ex art. 371, n. 1, c.c.

[154] Cfr. Mantovani, Responsabilità dei genitori, cit., 21 ss.

[155] Corsaro, Sulla natura giuridica della responsabilità del precettore, in RDCo, 1967, I, 38.

[156] Li sottolineano con enfasi Scognamiglio, Responsabilità civile per fatto altrui, cit., 696; Rossi Carleo, La responsabilità dei genitori ex art. 2048 c.c., in RDC, 1979, II, 138.

[157] Corsaro, Sulla natura giuridica, cit., 44.

[158] App. Torino 5 aprile 1968, in ARC, 1968, 913; App. Torino 8 giugno 1968, in GI, 1969, I, 2, 492.

[159] Così Staderisi, La responsabilità civile degli insegnanti, cit., 103.

[160] Così Corsaro, Sulla natura giuridica, cit., 52.

[161] Infra cap. XXVI.

[162] Cass. 6 febbraio 1970, n. 263, Min. P.I. c. Benedet, in MGI, 1970; Cass., Sez. Un., 3 febbraio 1972, Ammin. Pubbl. Istruz. c. Sollazzo, ivi, 1972; Cass. 4 marzo 1977, n. 894, Rizzo c. Ministero P.I., ivi, 1977; Cass. 7 giugno 1977, n. 2342, Merlitti c. Di Paolantonio, ivi, 1977.

[163] Cfr. sul punto Staderisi, La responsabilità civile degli insegnanti, cit., 79.

[164] Così Corsaro, Sulla natura giuridica, cit., 41.

[165] Cass. 13 aprile 1973, n. 1056, Min. P.I. c. Ist. S. Giuseppe orfan. Maschile Polistena, in MGI, 1973.

[166] Le loro funzioni sono infatti di natura eminentemente amministrativa. Così Staderisi, La responsabilità civile degli insegnanti, cit., 104. Mi sembra però che vi sia spazio per una loro responsabilità, tutte le volte in cui nell’ambito dell’organizzazione scolastica i minori si trovino, all’interno dell’orario di lezione, o durante gite e gare, affidati direttamente alle loro cure anche se in quei frangenti essi non impartiscono lezioni.

[167] In tal senso si era pronunciato il Bessone, La ratio legis, cit., 1013.

[168] Cass. 3933/1968; App. Firenze 23 settembre 1965, in FI, 1966, I, 735.

[169] Cass. 25 ottobre 1978, n. 4863, Prov. Caltanissetta c. Ferlita, in MGI, 1978.

[170] Cass. 10 febbraio 1981, n. 826, Tensi c. Ministro Istruzione, in MGI, 1981.

[171] Il che ha richiesto addirittura un intervento delle Sezioni Unite: Cass., Sez. Un., 3 febbraio 1972, Ammin. Pubbl. Istruz. c. Sollazzo, in MGI, 1972.

[172] Ex art. 7, 1° co., d.p.r. 31 maggio 1974, n. 420. Cfr. App. Roma 4 novembre 1988, in TR, 1988, II, 411.

[173] App. Genova 11 luglio 1962, in ARC, 1962, 192.

[174] Cass. 2202/1965.

[175] Cass. 10 febbraio 1981, n. 826, cit.; Cass. 27 marzo 1984, n. 2027, Canossa c. Soc. Mameli, in DPA, 1985, 303 (nota).

[176] Sulla responsabilità dei maestri di sci cfr. R. Ambrosio e Bona, Responsabilità dei maestri di sci, in DeR, 2000, 905 ss.; Beghini, L’illecito civile e penale sportivo, Padova, 1999, 159 ss. Secondo le Regole della Federazione Internazionale di Sci il maestro deve: 1) insegnare agli alunni le modalità per sciare in sicurezza, e, pertanto, sia le tecniche dello sci, sia le norme di condotta dello sciatore; 2) impedire agli allievi di assumere rischi fuori dalla loro portata, soprattutto tenendo conto delle condizioni atmosferiche e dello stato di innevamento; 3) fare presente agli allievi che durante la lezione non hanno alcuna particolare priorità sulla pista e che devono in ogni momento rispettare le regole di condotta individuate per gli sciatori.

[177] Il punto è adeguatamente illustrato dallo Staderisi, La responsabilità civile degli insegnanti, cit., 107.

[178] Staderisi, ivi, 111, con riferimento all’art. 350, r.d. 1297/1928 per le scuole elementari, e art. 39, r.d. 965/1924 per l’istruzione secondaria. Sugli eventi «istantanei» e la responsabilità del docente cfr. Gaudino, Condotte autolesive, cit., 626.

[179] Cass. 6 febbraio 1970, n. 263, in FI, 1970, I, 2136.

[180] Cass. 15 dicembre 1972, n. 3617, Piseroni c. Madoglio, in MGI, 1972; App. Milano 22 marzo 1974, in ARC, 1974, n. 258.

[181] Cass. 6 febbraio 1970, n. 263, Min. P.I. c. Benedet, in MGI, 1970.

[182] Cass., Sez. Un., 11 agosto 1997, n. 7454, in RCP, 1998, 1071 ss., con nota di Settesoldi, in DeR, con nota di Rossetti.

[183] Per le Sezioni Unite «con l’art. 61 la responsabilità civile degli insegnanti, per i danni causati ai terzi dalla lesione dei loro diritti, è stata limitata ai casi di colo e colpa grave, e si è, in tal modo, eliminata la presunzione sancita dall’art. 2048 del codice civile, ponendosi a carico del danneggiato l’onere della prova dell’elemento soggettivo della condotta illecita»; Cass., Sez. Un., 11 agosto 1997, n. 7454, cit. Sul punto cfr. anche Cass. 3 marzo 1995, n. 2463, in Giust. civ., 1995, 2093. Le Sezioni Unite attribuiscono così all’art. 61 della legge in questione una valenza non solo processuale, ma anche sostanziale. Siffatta interpretazione non pare tuttavia condivisibile: annullando la presunzione di responsabilità per culpa in vigilando, la Suprema corte va invero al di là della ratio della disposizione, che si riferisce, sotto il profilo di diritto sostanziale, alla sola azione di rivalsa. Contro l’interpretazione delle Sezioni unite vedi amplius Settesoldi, La responsabilità civile degli insegnanti statali: l’obiter dictum delle Sezioni Unite segna definitivamente il tramonto della presunzione di culpa prevista dall’art. 2048, 2° co., c.c.?, in RCP, 1998, 1074 ss.; nonché Rossetti, La P.A. risponde del danno causato all’alunno a sé medesimo, in DeR, 1998, 265, il quale parla della tesi delle Sezioni Unite come di «una tesi che suscita perplessità».

[184] Cass. 7 ottobre 1997, n. 9742, in MGC, 1997, 1871.

[185] Cass. 5 settembre 1986, n. 5424, cit.

[186] In base alle disposizioni prima ricordate non sussiste invece alcuna responsabilità della scuola in caso di mancato arrivo del minore alla stessa.

[187] Pret. Torino, ord. 11 febbraio 1991, Guastavigna e Molino, in DFP, 1991, 695.

[188] Il vero problema riguardava il diritto alla privacy di chi prelevava il minore a non vedersi menzionato nel registro di classe.

[189] Cass. 5 settembre 1986, n. 5424, in VN, 1986, 1239; in RGScuola, 1987, 403, nota di Flores; in NGCC, 1987, I, 493, nota di Amenta.

[190] Cass. 22 novembre 1991, n. 12538, Ministro Istruzione c. Sportass, in RDS, 1992, 660.

[191] Quale appunto è il danno che può essere recato da un attrezzo durante una gara sportiva.

[192] Naturalmente vale secondo me la regola del concorso di colpa, per cui se lo spettatore era in colpa, questa rileva ai fini della determinazione, ed eventualmente esclusione, del risarcimento.

[193] Staderisi, La responsabilità civile degli insegnanti, cit., 77; Rovelli, La responsabilità civile, cit., 273.

[194] Cass. 27 ottobre 1967, n. 2657, Savanelli c. Davide, in MGI, 1967; Cass. 13 ottobre 1966, n. 2451, Fassari c. Consoli, in MGI, 1966.

[195] Cass. 20 febbraio 1962, n. 341, Stopponi c. Balti, in MGI, 1962. La decisione si giustifica per il fatto che il maestro aveva consentito la presenza del minore nei locali ma senza provvedere una sufficiente vigilanza.

[196] Tranne le rarissime ipotesi in cui il minore capace, non provocato, derelinque i propri genitori, prima di stabilire con altri una nuova relazione di «custodia».

[197] Abbiamo già chiarito come la riconsegna al genitore possa avvenire «franco deposito».

[198] Cass. 22 aprile 1977, n. 1501, Musini c. Lenzi, in MGI, 1977, ha ammesso, ma escluso nella specie, che il danno provocato da un minore, affidato dalla madre ad un datore di lavoro domestico, determinasse tale concorrente responsabilità, ritenendo (nella specie) che l’educazione impartita fossa stata sufficiente e idonea, e, quindi, che il danno fosse ascrivibile ad un difetto di sorveglianza del datore di lavoro domestico.

[199] Così Corsaro, Funzione e ragioni, cit., 228.

[200] Trib. Aosta 2 maggio 1964, in ARC, 1964, 329; App. Firenze 22 agosto 1962, in RFI, 1962, Resp. civ., 204; Rovelli, La resp., cit., 229; De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., 111; Alpa e Bessone, I fatti illeciti, cit., 323.

[201] De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., 113, secondo cui peraltro nel rapporto interno il peso della responsabilità graverebbe in toto su colui che ha effettivamente realizzato il danno. Non credo inoltre che si possa trarre argomento dalla lettera dell’art. 2049, giacché occorrerebbe ancora dimostrare che ciò che vale per i maggiori di età vale anche per i minori.

[202] Trib. Aosta 2 maggio 1964, in ARC, 1964, 329; App. Firenze 22 agosto 1962, in RFI, 1962, RCP, 204.

[203] Cass. 21 dicembre 1968, n. 4046, Coppola c. Staroccia, in MGI, 1968.

[204] App. Bari 29 luglio 1957, in CBLP, 1958, 10.

[205] Supra cap. VIII, sez. III, nn. 1 ss.

[206] Questo discorso ruota in realtà intorno al dilemma delle azioni giuridiche all’interno della famiglia, su cui cfr. Patti, Famiglia e responsabilità civile, cit.

[207] Cass. 22 ottobre 1965, n. 2202, Moja c. Coni, in RFI, 1965, Resp. civ., 195.

[208] Il fatto che il precedente della Corte Suprema si riferisca ad un precettore lascia, per me, ancora impregiudicata la questione se i genitori possano rivalersi nei confronti del figlio. Vedi infra.

[209] Cass. 19 ottobre 1965 n. 2132, Istituto Filippini c. Benvenuti, in MGI, 1965; Cass. 1 aprile 1980, n. 2119, Varano c. Ministro Istruzione, ivi, 1980; Cass. 22 aprile 1977, n. 1501, Musini c. Lenzi, ivi, 1977; Cass. 13 aprile 1973, n. 1056, Min. P.I. c. Ist. S. Giuseppe orfan. Maschile Polistena, ivi, 1973; Cass. 6 febbraio 1970, n. 263, Min. P.I. c. Benedet, ivi, 1970.

[210] Cfr. anche in modo meno chiaro Cass. 3 aprile 1957, n. 1137, Rottigni c. Chaiz, in MGI, 1957; App. Napoli 23 aprile 1956, in RGI, 1956, Resp. civ., 208; App. Brescia 22 giugno 1955, ivi, 1956, voce cit., 161.

[211] Cass. 1 aprile 1980, n. 2119, cit.; Cass. 22 aprile 1977, n. 1501, Musini c. Lenzi, in MGI, 1977.

[212] Ad esempio la madre della vittima che avrebbe dovuto interrompere tempestivamente il gioco pericoloso al quale i minori erano intenti.

[213] In tal senso Cass., Sez. Un., 9 aprile 1973, n. 997, Min. P.I. c. Gennaro, riprodotta in Visintini, I fatti illeciti, I, cit., 532; Cass. 6 febbraio 1970, n. 263, Min. P.I. c. Benedet, in MGI, 1970; App. Roma 9 luglio 1979, in GM, 1981, 57; App. Milano 22 marzo 1974, in ARC, 1974, 258; App. Lecce 22 dicembre 1969, in GC, 1970, I, 1480.

[214] T.U. 10 gennaio 1957, n. 3, con riferimenti agli effetti dell’art. 22.

[215] Infra.

[216] Cass., Sez. Un., 9 aprile 1973, n. 997, cit.

[217] Staderisi, La responsabilità civile degli insegnanti, cit., 145; Ferrero, La responsabilità degli insegnanti statali per atti illeciti degli alunni. Deroga alla presunzione ex art. 2048 c.c. per effetto degli artt. 22 e 23 del T.U. 1957, n. 3, in ARC, 1974, 15.

[218] Art. 61, l. 312/1980. Sulla natura di norma eccezionale della disposizione cfr. Staderisi, La responsabilità civile degli insegnanti, cit., 258.

[219] Cioè, appunto, quelli che esulano da una previsione tipica degli incidenti che possono verificarsi nell’ambito dell’insegnamento. Per ciò che concerne la responsabilità interna dell’insegnante in sede di rivalsa cfr. C. conti 14 dicembre 1985, n. 784, in RCC, 1985, 886, nonché Cass. pen. 18 maggio 1982, in RP, 1983, II, 200 e C. conti 7 giugno 1984, n. 100, in FI, 1985, III, 62.

[220] Si vedano gli artt. 4 e 20, l. reg. Lazio n. 78/1979; artt. 12 e 13, l. reg. Lombardia 31/1980; art. 2, lett. i) l. reg. Friuli-Venezia Giulia 10/1980. In dottrina si sono confrontati col tema inevitabilmente Staderisi, La responsabilità civile degli insegnanti, cit., 254 e Rossi Carleo, La responsabilità dei genitori, cit., 142.

[221] Si è scagliato contro questa libera creazione del diritto da parte dei giudici Majello, Responsabilità dei genitori per fatto illecito del figlio minore, in DG, 1960, 44 ss.; preceduto dal Capaccioli, Responsabilità del genitore, in RDCo, II, 1946, 257 ss.

[222] Per tutti cfr. Patti, Famiglia e responsabilità, cit., 270. Non basta dunque la semplice dimostrazione dell’inevitabilità del fatto.

[223] Si veda la massima consolidata della Cassazione in numerose decisioni: Cass. 29 ottobre 1965, n. 2302, Salvemini c. Capurro, in MGI, 1965; Cass. 12 settembre 1968, n. 2926, Cormio c. Scalabrin, ivi, 1968; Cass. 4 dicembre 1971, n. 3490, Borsa c. Valletta, ivi, 1971; Cass. 12 giugno 1971, n. 1814, Grandi Massara c. Bucholzer, in FI, 1971, I, 2787; Cass. 27 maggio 1975, n. 2141, Comani c. Onofri, in MGI, 1975; Cass. 22 novembre 1978, n. 5465, Liciardino c. Angelino, in MGI, 1978; Cass. 4 ottobre 1979, n. 5122, Lopez c. Talerico, ivi, 1979; Cass. 22 gennaio 1980, n. 516, Rosati e altro c. Fagioli e altro, ivi, 1980; Cass. 29 novembre 1982, n. 6506, Gallo c. Cusati, ivi, 1982; Cass. 9 giugno 1983, n. 3977, Vernarelli c. Monaldi, ivi, 1983; Cass. 27 novembre 1984, n. 6144, Ferrarini c. Pedretti, in AGCSS, 1985, 498; Cass. 26 giugno 1984, n. 3726, in DPA, 1985, 311 (nota); Cass. 30 ottobre 1984, n. 5564, Burgo c. Saccuzzo, cit.

[224] La responsabilità oggettiva, lo ripetiamo, non è una responsabilità assoluta, e quindi l’adozione di uno schema di responsabilità oggettiva non si pone in contrasto con l’idea che si possa muovere un rimprovero giuridico al convenuto: si tratta semplicemente di uno schema più efficiente in certi casi per attuare tale rimprovero giuridico. L’impostazione ancora recepita dalle Corti nelle loro formule declamatorie deriva ovviamente dalla dottrina formatasi sotto il codice abrogato: cfr. Cesareo Consolo, Trattato sul risarcimento del danno, Torino, 1908, 351; Chironi, La colpa extracontrattuale, II, Torino, 1887, 77; ne custodiscono la memoria Brasiello, I limiti della responsabilità per danni, Milano, 1959, 117, ed il solito De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., 323; mettono invece giustamente in risalto i rischi del mantenere tali formule stereotipate Rodotà, Il problema, cit., 157; Patti, Famiglia e responsabilità, cit., 232; Visintini, I fatti illeciti, I, cit., 515. Decisamente favorevole al riconoscimento esplicito di una vera e propria responsabilità oggettiva dei genitori è ormai la giurisprudenza francese: cfr. Cass. 9 maggio 1984, Dalloz, 1984, 525, nota di Chabas.

[225] Cass. 7 aprile 1988, n. 2738, Onasi c. De Robbio, in MGI, 1988.

[226] Cass. 30 ottobre 1984, n. 5564, in FI, 1985, I, 146, nota di Paganelli.

[227] Nella specie minore di dieci anni relativamente agli spostamenti da casa a scuola e viceversa.

[228] Cass. 9 aprile 1997, n. 3088, in DeR, 1997, 638, in Fam. e dir., 1997, 221, nota di Pardolesi. Cfr. anche Cass. 24 maggio 1994, n. 5063, in Dir. fam. pers., 1995, 109.

[229] Variegate le posizioni della dottrina a questo proposito: si sono espressi a favore di una costruzione del rapporto tra il dovere di impartire una buona educazione e quello di esercitare una vigilanza adeguata in modo da riassorbire il primo nel secondo, specialmente Trabucchi, Sulla prova liberatoria della presunzione, cit., 283 ss.; Pasetti, In tema di responsabilità del genitore per mancata educazione del figlio, in GI, 1949, I, 2, 291.

[230] Cass. 12 settembre 1968, n. 2926, Cormio c. Scalabrin, in MGI, 1968; Cass. 21 marzo 1970, n. 758, Cagioli c. Rossetti, ivi, 1970; Cass. 4 dicembre 1971, n. 3490, Borsa c. Valletta, ivi, 1971; Cass. 29 gennaio 1971, n. 227, Garau c. Zuddas, ivi, 1971.

[231] Da ultimo sul tema cfr. Di Ciommo, Figli, discepoli e discoli in una giurisprudenza bacchettona, in DR, 2001, 260 ss.; Di Ciommo, Minore maleducato e responsabilità dei genitori, in DR, 1998, 1087; Pardolesi, Danni cagionati da minori pagano sempre i genitori?, in Fam. e dir., 1997, 221.

[232] Cass. 18 giugno 1985, n. 3664, cit. Sul punto ancora da ultimo Cass. 7 agosto 2000, n. 10357, in DR, 2001, 260.

[233] Insomma il genitore può avere mille volte inveito contro i frombolieri cretesi, ma il lancio con la fionda sarà prova in re ipsa di mal-educazione.

[234] Trib. Matera 17 dicembre 1991, in Ipr, 1992, 338; poi App. Potenza 21 settembre 1993, ivi, 1993, 1186.

[235] Cass. pen. 15 dicembre 1964, in RCP, 1965, 150.

[236] Nella specie, i genitori cercavano di discolparsi dimostrando la normalità dell’aver affidato un’autovettura ad un minore munito di regolare patente. Ma nella specie ciò che il legislatore vuole addossare ai genitori sono proprio i rischi normali connessi alla guida del minore patentato. Cfr. infra.

[237] Cass. pen. 24 aprile 1964; App. Roma 31 luglio 1963, in RCP, 1964, 308; App. Firenze 8 settembre 1959, in GiT, 1960, 61. In quest’ultimo caso il padre aveva più volte diffidato un noleggiatore di motociclette dal fornirne una al figlio. La Corte ritenne che ciò dimostrava anzi la cattiva educazione del figlio. Cfr. più recentemente Cass. pen. 21 febbraio 1983, Maresca e altro, in GP, 1983, III, 689; Cass. 27 novembre 1984, n. 6144, Ferrarini c. Pedretti, cit. Quando però l’automobile viene affidata al minore dal datore di lavoro non entra in gioco la responsabilità del genitore per ciò che è avvenuto al di fuori del proprio controllo: cfr. Cass. pen. 28 ottobre  1975, in AGCSS, 1976, 351, il che è conforme ai principi.

[238] Cass. 6 maggio 1986, n. 3031, Ridolfi c. Liberotti, in GI, 1986, I, 1, 1527, nota di Chianale.

[239] Cass. 22 aprile 1977, n. 1501, in AC, 1977, 772. Parlo della formulazione della doctrine, perché mi sembra peraltro che nella specie la Suprema Corte abbia affrontato la ratio decidendi del caso (furto di gioielli del minore in danno del datore di lavoro domestico rispetto alla non vigilanza imputabile al genitore) in modo quanto mai discutibile.

[240] E questa è la dimostrazione definitiva che la loro non è una responsabilità oggettiva.

[241] Perciò non si può richiedere che il genitore accompagni costantemente il minore a scuola o dagli amici o al giardino comunale.

[242] Minore che riceve la macchina dal datore di lavoro, ecc.

[243] Cass. 21 settembre 2000, n. 12501, in DR, 2001, 257, nota di Di Ciommo.

[244] Minore che usa la fionda per lanciare pietre sui coetanei, minore che utilizza il coltello svizzero per praticare incisioni sulle coetanee, minore che usa la moto per scalare la gradinata di Trinità dei Monti, ecc.

[245] Dolo inteso, secondo l’esemplificazione della nota precedente, come volontarietà della condotta anomala, anche se non è presente l’elemento della intenzionalità del danno recato.

[246] Ovviamente per quanto attiene alla vigilanza e non ai doveri di educazione che incombono tipicamente sui genitori.

[247] Mettono in guardia contro la «costruzione di un tipo astratto di genitore» e quindi ad una valutazione del fatto indipendente dai dati desumibili dal caso concreto Rodotà, Il problema, cit., 157 ss. e Patti, Famiglia e responsabilità, cit., 232.

[248] Cass. 7 dicembre 1968, n. 3933, Min. Giust. c. Nucci, in MGI, 1968.

[249] Cass. 4 marzo 1977, n. 894, Rizzo c. Pubbl. Istruzione, in MGI, 1977; Cass. 22 gennaio 1980, n. 516, Rosati e altro c. Fagioli e altro, ivi, 1980.

[250] Cass. 15 gennaio 1980, n. 369, Raho c. Istituto San Giuseppe, in FP, 1981, I, 329 (nota) ha escluso la responsabilità per i danni prodotti da un quattordicenne ad un coetaneo mentre si recava in palestra scendendo una scala. Il Supremo Collegio ha ritenuto che quel percorso non conteneva insidie per ragazzi di quell’età.

[251] App. Lecce 22 dicembre 1969, in GC, 70, I, 1480.

[252] In Cass. 10 febbraio 1981, n. 826, cit. la S.C. ha ritenuto che non fosse imprevedibile che un allievo impegnato in una partita di pallavolo tirasse una pallonata coi piedi mandando la palla ad infrangere una vetrata le cui schegge ferirono una persona.

[253] Cass. 4 marzo 1977, n. 894, Rizzo c. Pubbl. Istruzione, in MGI, 1977.

[254] Cass. 27 marzo 1984, n. 2027, Canossa c. Soc. Mameli, cit.




--------------------------------------------------------------------------------

* Professore ordinario di Diritto civile nella Facoltà di Giurisprudenza del’Università di Torino. Professore di Analisi Economica del Diritto, Università Bocconi, Milano. Professeur à la Faculté Intérnationale de Droit Comparé, Strasbourg


Torna alla Home Page