Procedura penale
Rinnovazione
degli atti mediante lettura
in caso di variazione dell'organo giudicante
Il
testo dell'ordinanza relativa al proc. n. 16139/2000
Tribunale di Siderno - ud. 3.11.2000
Il provvedimento si inserisce nella nota discussione in materia di rinnovazione degli atti mediante lettura, in caso di variazione dell'organo giudicante, e propone una innovativa tesi intermedia, rispetto all'orientamento della Corte di Cassazione (pubblicato su tutte le principali riviste) e a quello del Tribunale di Roma, pubblicato in Cassazione penale, gennaio 2000.
Dott.
Alessio Liberati
alessioliberati@tiscalinet.it
Tribunale
di Locri - sezione distaccata di Siderno
Udienza del 3 novembre 2000
Giudice monocratico: dott. Alessio Liberati
Ordinanza di
ammissione prove - proc. n. 16193/96 rg. Siderno, c/o Femia
Salvatore
Con riferimento alle richieste probatorie formulate nell'odierna
udienza, ed in particolare sull'acquisizione - mediante lettura -
dei verbali delle dichiarazioni precedentemente rese dai testi, a
seguito della variazione dell'organo giudicante, come richiesto
dal Pubblico Ministero e senza il consenso della difesa, il
Giudice
osserva quanto segue:
si ritiene che in caso di cambiamento dell'organo giudicante i
verbali delle dichiarazioni assunte in precedenza possano essere
acquisiti ed inseriti nel fascicolo del dibattimento mediante
lettura ex art. 511 c.p.p. sia nelle ipotesi di consenso delle
parti, sia - in mancanza di esso - nei casi in cui le
dichiarazioni già rese si siano rivelate assolutamente
ininfluenti o irrilevanti nel loro contenuto per sostenere le
tesi difensive e accusatorie proposte, pur assumendo una qualche
rilevanza per il convincimento del giudice.
Tale giudizio spetta al nuovo giudice, il quale deve valutare -
ai sensi dell'art. 190 c.p.p. - se quanto dichiarato possa avere
potenziale rilevanza per le ipotesi ricostruttive enunciate dalle
parti nella relazione introduttiva, evitando quindi la
riassunzione di prove assolutamente inutili al processo e,
presumibilmente, di cui sia stata chiesta la nuova assunzione
(negando il consenso alla lettura) per mere finalità dilatorie.
Di fronte alla richiesta di riassumere una prova, pertanto, il
Tribunale potrà o non ammetterla affatto (qualora sia del tutto
inutile) o consentirne l'ingresso delle dichiarazioni mediante
lettura, anche senza il consenso delle parti, nel rispetto del
principio di concentrazione dell'attività processuale (se assuma
rilievo per aspetti diversi dalla ricostruzione del fatto
storico).
Rileva in proposito il Tribunale che l'art. 511 c.p.p. recita
testualmente che "la lettura di dichiarazioni è disposta
solo dopo l'esame della persona che le ha rese, a meno che
l'esame non abbia luogo". Tale locuzione lascia quindi
spazio alla "mediazione" del giudice, ed in particolare
alla valutazione di non manifesta irrilevanza o superfluità ex
art. 190 c.p.p.; in caso contrario il legislatore avrebbe infatti
detto "a meno che l'esame non possa aver luogo", con
riferimento cioè a parametri obiettivi riguardanti la
possibilità ontologica (non può aver luogo), e non il dato di
fatto osservato a posteriori (non ha avuto luogo).
Del resto la lettura di verbali di atti riferiti a precedenti
acquisizioni probatorie costituisce una deroga al principio
dell'oralità che, alla luce del sistema processual-penalistico,
appare giustificabile in ipotesi del genere.
L'oralità costituisce la sintesi degli altri principi del nuovo
processo penale, e diventa la nota fondamentale del dibattimento,
nella quale convergono contraddittorio, immediatezza e
concentrazione, ma ad essa il codice riconosce comunque possibili
eccezioni legate a specifiche esigenze ontologiche:
irripetibilità dell'atto, pericolo per la genuinità della prova
o per la perdita di essa ("confluito" nell'incidente
probatorio), atti assunti all'estero a seguito di rogatoria,
ecc..
L'importanza del principio di oralità nel processo penale non
deve infatti far perdere di vista gli altri principi cardine.
Può affermarsi che i principi di oralità, di concentrazione e
di immediatezza vanno coordinati tra di loro, essendo il sistema,
a ben vedere, costruito su diverse esigenze fondamentali del
processo, che vanno correlate ed armonizzate: l'immediatezza è
un principio che consente al giudice di fissare quanto
pervenutogli (attraverso l'oralità del processo), in verità
processuale, mentre il principio di concentrazione assicura il
riavvicinamento tra i vari atti necessari ad una determinazione
del giudice che sia il più possibile fedele alle risultanze
(immediate ed orali) del processo.
Il principio del contraddittorio garantisce invece alle parti la
possibilità di controllo circa il rispetto degli altri principi
processuali.
Particolarmente importante, per la questione relativa alla
rinnovabilità degli atti dibattimentali mediante lettura, è poi
il principio di non dispersione della prova, che offre
interessanti spunti a sostegno della tesi della limitazione della
lettura senza il consenso delle parti.
Infatti può dirsi che la lettura degli atti porterebbe, per
certi versi, alla dispersione della prova stessa: gli elementi a
disposizione del giudice per formare il proprio convincimento
sulla base di una testimonianza sono individuabili non solo nelle
frasi dette dal teste, ma anche in tutta una serie di
atteggiamenti, gestualità, espressioni, silenzi, incertezze,
ecc. (es. incertezza del teste desumibile dal silenzio e dal
tempo intercorso per riconoscere una persona o per riferire una
circostanza) che difficilmente sono desumibili dalle trascrizioni
o dai verbali, e che talvolta assumono rilevanza decisiva ai fini
della formazione dell'opinione del giudice (si pensi, in
proposito, anche alle polemiche in materia di "video
conferenze" utilizzate per le deposizioni dei collaboratori
di giustizia, ove è comunque parzialmente possibile
"vedere" tali aspetti "collegati" alle
affermazioni rese).
Tutti questi elementi assumono rilevantissima importanza ai fini
della valutazione dell'affidabilità del teste, aspetto
indispensabile perché inscindibilmente legato alla valenza della
stessa dichiarazione nel procedimento di convincimento del
giudice.
Ciò vale in particolar modo nei casi in cui non vi sia ancora
una scissione tra "sincerità" e
"veridicità" delle affermazioni del dichiarante - come
accade ad esempio nelle ipotesi di patologia mentale o di
senilità o di deposizione di bambini in tenera età, ove il
teste potrebbe essere "sincero" pur non dicendo il
"vero", per errori di percezione o per incapacità
evocatrice -, e cioè dove il giudice possa ancora validamente
valutare (senza la necessità di perizie o, comunque, di
valutazioni di carattere tecnico/scientifico) la deposizione
nella sua composita struttura del dictum e delle modalità del
dictum, afferenti entrambi al giudizio di attendibilità della
deposizione.
Il "cambiamento" del giudicante - sia esso collegio, o,
peggio, giudice monocratico - comporterebbe quindi la
"perdita" di tali aspetti della prova, che non
potrebbero più "entrare" nel processo.
Quindi anche il risentire dichiarazioni "identiche" a
quelle già acquisite (e potenzialmente presenti nel processo per
mezzo dei verbali) può assumere grande importanza ai fini della
decisione.
Ciò premesso, sembra quindi opportuno riconoscere alle singole
parti la disponibilità dell'"oralità" del processo.
Solo esse, infatti, sono in grado di valutare quali di tali
elementi emersi in precedenza possano assumere rilevanza per la
tesi sostenuta, e siano perciò importanti per il giudice (al
quale compete comunque - si chiarirà - un limitato potere di
"censura").
Certamente tale operazione non potrebbe essere compiuta dal nuovo
giudice, il quale - per presupposto - è estraneo agli elementi
"collegati" alle dichiarazioni rese in precedenza.
Inopportuno parrebbe anche - e per ovvi motivi - rimettere tale
valutazione ai soli giudici che abbiano assistito alle precedenti
deposizioni, con esclusione del nuovo (o dei nuovi) giudicanti;
ciò varrebbe oltretutto solo per i collegi!
Inutile dilungarsi neanche sulla possibilità che tale
valutazione sia compiuta dal giudice o dal collegio
"uscente", che si scontra - con la sola eccezione delle
ipotesi di valutazione "preventiva", la quale potrebbe
esporre però il giudice ad un giudizio anticipato - con le
possibilità ontologiche di realizzazione.
Posto quindi che il giudice deve formare il proprio convincimento
alla luce di tale visione sinottica delle prove, l'esigenza di
riassunzione è pertanto necessariamente legata (anche) agli
aspetti enunciati, diversi da quelli meramente contenutistici: se
si dovesse solo assumere "informazioni" ulteriori,
perché insufficienti o contraddittorie quelle preesistenti, si
dovrebbe comunque ricorrere - per poter arrivare ad un valido
convincimento - all'assunzione di altre prove, eventualmente ex
officio, prescindendo del tutto dalla questione della
rinnovazione mediante lettura, quindi è evidente che il
patrimonio processuale in questione è costituito dalle
affermazioni (si anticipa, rilevanti) considerate alla luce degli
aspetti "collegati", e cioè da tutto quanto detto
contribuisca alla decisione del giudice.
Al principio dell'oralità dunque possono essere poste talune,
pur limitate, deroghe, riconducibili prevalentemente ad esigenze
eguali e contrarie, che trovano la loro giustificazione negli
altri principi enunciati.
Tenendo conto di tale assunto nella prospettiva ermeneutica
consegue che, ove il legislatore abbia lasciato lacune nella
disciplina, la regola da osservarsi è quella della tendenziale
riassunzione della prova, a condizione però che non vi siano
interessi contrari di pari importanza.
Il "diritto all'oralità" delle parti non è difatti
assoluto, ma, al contrario, viene "compresso" dallo
stesso legislatore, come emerge con chiarezza anche da altre
disposizioni processuali.
In particolare l'art. 513 comma 1 e 2 c.p.p. prevede che in caso
di contumacia, assenza o rifiuto dell'imputato, o in caso di
impossibilità di sentire la persona imputata di reato connesso,
le dichiarazioni precedentemente rese possano essere acquisite
mediante lettura.
Similmente dal combinato disposto degli artt. 238 comma 5 e 190
c.p.p. si evince che, pur restando fermo il diritto delle parti
ad ottenere l'esame delle persone le cui dichiarazioni siano
state acquisite per mezzo dei verbali delle deposizioni già
rese, esso deve avvenire "a norma dell'art. 190
c.p.p.", e, quindi, "escludendo le prove vietate dalla
legge e quelle che manifestamente sono superflue o
irrilevanti".
E' palese, quindi, nel rinvio, un potere di "filtro"
già riconosciuto dal legislatore in capo al giudice.
Si è già detto, poi, della significativa apertura lasciata
dall'art. 511 comma 2 c.p.p., laddove recita " la lettura di
dichiarazioni è disposta solo dopo l'esame della persona che le
ha rese, a meno che l'esame non abbia luogo", lasciando
quindi spazio non solo ad ipotesi di impossibilità ontologica ma
anche ad eventi dipendenti da altre circostanze, quale potrebbe
essere, appunto, la non ammissione da parte del giudice
"mediatore".
Del resto, diversamente considerando si arriverebbe a consentire
alle parti di richiedere nuovamente (e far riassumere) tutte le
prove precedentemente acquisite, ivi comprese quelle
assolutamente inutili ai fini del processo.
Onde evitare eccessive "dilazioni", che osterebbero ad
una piena applicazione del principio di concentrazione, appare
quindi opportuno definire con chiarezza (e seguendo criteri e
modalità analoghi a quelli altrove utilizzati dallo stesso
codice di procedura penale) i limiti alla disponibilità delle
parti anche laddove la legge abbia lasciato lacune sul punto.
La soluzione va individuata proprio nel potere di
"filtro" da parte del giudice: l'acquisizione mediante
lettura appare la soluzione più adatta a contemperare il
principio di "non dispersione" con quello di
concentrazione, dopo che sia già stata svolta attività
istruttoria.
Nel rispetto del principio di non dispersione si consente così
di far entrare nel processo le prove potenzialmente utili, che
però non si siano rivelate tali in concreto (e di cui le parti
abbiano chiesto la riassunzione), e dalle quali - per l'esito
"negativo" - il giudice potrà comunque trarre un
qualche elemento di valutazione. La stessa esistenza di una
deposizione chiesta da una parte e che non abbia raggiunto il
risultato auspicato potrebbe infatti assumere, in qualche caso,
rilevanza ai fini della decisione.
Lo strumento utilizzabile va perciò normativamente ricondotto
agli artt. 190 e 511 c.p.p. (giudizio di non manifesta
superfluità od irrilevanza coordinato con la possibilità di
lettura degli atti). E' necessario tuttavia chiarire il
significato delle disposizioni nell'ambito del diverso momento
processuale (rispetto a quello cui si riferisce l'originaria
ipotesi dell'articolo).
L'art. 190 c.p.p. infatti recita testualmente "Il giudice
provvede senza ritardo con ordinanza escludendo le prove vietate
dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o
irrilevanti", ma non dice rispetto a cosa si debba operare
tale valutazione. Probabilmente rispetto alla verità processuale
da raggiungere, desumibile dai fatti e dalle circostanze
contestati.
Trattandosi, nella fattispecie, di valutazione che postula una
pregressa acquisizione probatoria, e quindi un precedente ed
analogo giudizio, ne consegue che, interpretando la norma nella
nuova dinamica del processo, non può operarsi una valutazione ab
origine, cioè come se non ci fosse stata alcuna attività (e
pertanto con riferimento al solo fatto storico, e non alle
risultanze processuali già acquisite). Si arriverebbe infatti a
dover ammettere necessariamente tutte le prove già ammesse in
precedenza!
Non si può però neanche consentire - per i motivi poc'anzi
illustrati - che tale valutazione sia fatta con riferimento al
solo contenuto delle dichiarazioni (se, come detto, l'aspetto
probatorio da acquisire è quello "collegato" ad esse,
e, perciò, non potrebbe operarsi alcun giudizio tramite gli
atti, ai quali resta estraneo).
Può quindi solo ipotizzarsi che l'eventuale giudizio di
superfluità o irrilevanza debba essere limitato alle
dichiarazioni di cui è stata chiesta la ammissione e che però
non abbiano contribuito in alcun modo all'emersione del fatto
storico, o abbiano assunto rilevanza per aspetti diversi dal
contenuto ai fini del convincimento del giudice. Si tratta cioè
di un giudizio analogo a quello ab origine, il quale interviene a
seguito della vana escussione del teste: in simili ipotesi è
difatti evidente l'intento dispersivo e dilatorio della parte, in
quanto è già emersa, nel corso delle precedenti fasi del
giudizio, la palese irrilevanza del "contenuto" del
mezzo di prova (rispetto al risultato inizialmente previsto e non
al patrimonio probatorio acquisito).
In tal caso il giudice, non avendo luogo l'esame, potrà comunque
disporre la lettura dei verbali ex art. 511 c.p.p., se lo
riterrà utile: la prova entrerà così nel processo per mezzo
del solo verbale, il quale è, in tal caso, sufficiente a fornire
tutti gli elementi necessari per la decisione (essendo
irrilevante il contenuto della deposizione per la ricostruzione
storica dei fatti, è del pari inutile acquisire gli aspetti
collegati attinenti la valutazione di attendibilità del medesimo
contenuto).
Viceversa, qualora la prova si fosse già rivelata in precedenza
inutile non solo per la ricostruzione storica dei fatti ma anche
per qualsiasi altro aspetto del convincimento del giudice, egli
potrà sic et sempliciter non ammetterla ex art. 190 c.p.p..
L'eventuale relazione della parte che ne chiede l'ammissione
dovrà quindi tendere a dimostrare che tale prova sia invece
rilevante proprio nel suo contenuto (cioè nel dictum e nelle
modalità del dictum).
Infatti se il dictum è potenzialmente utile per la decisione (e
ciò potrà essere desunto anche dal solo contenuto delle
dichiarazioni), il giudice dovrà ammettere le prove richieste,
non potendo in alcun modo valutare - con le sole eccezioni
illustrate - gli altri aspetti che le stesse parti, in sostanza,
ritengono rilevanti per il corretto convincimento del giudice.
Con riferimento a queste ultime prove valgono perciò i soli
limiti "intrinseci".
Difatti non può negarsi che, trattandosi di prove per le quali
si chiede la riacquisizione mediante rinnovazione degli atti -
contestandosi così la procedura di rinnovazione mediante lettura
(senza richiesta della parte, si ricorda, la procedura di
rinnovazione mediante lettura risponde infatti a meccanismi
dotati di una sorta di automaticità), in virtù del principio di
oralità -, tale acquisizione dovrà essere logicamente ed
ontologicamente compatibile proprio con il detto principio.
In particolare, tendendo l'oralità a far entrare nel processo
(recte: nella valutazione del nuovo giudice) gli elementi
"accessori" al dictum dai quali possano essere desunte
considerazioni inerenti alla attendibilità, è palese
l'intrinseca esigenza che le richieste della parte siano ex se
compatibili con tale principio.
Ne consegue l'inammissibilità (da valutare ai sensi dell'art.190
c.p.p. in seguito alla richiesta delle parti) delle prove che per
la loro prevedibile durata possano far perdere nella fase
istruttoria proprio l'utilità che si è invocata.
In altre parole se la prova di cui si chiede la riacquisizione
risulti eccessivamente lunga da acquisire (a causa, ad esempio,
dell'ingente numero di testimoni da escutere o della vastità del
contenuto delle deposizioni di essi, valutata anche in
considerazione delle possibilità concrete di svolgere suddetta
attività da parte dell'A.G. (per la disponibilità delle aule,
per i ruoli che obbligano a lunghi rinvii, per la previsione di
astensioni da parte degli avvocati o di legittimi futuri
impedimenti da parte di essi, per l'allungamento dei tempi
conseguente alla difficoltà di tradurre eventuali indagati in
procedimento connesso che siano ristretti in luoghi lontani,
ecc.)) e tale da rendere assolutamente invana l'utilità
paventata circa l'acquisizione di elementi "accessori"
al dictum (e cioè titubanze, silenzi, incertezze, o, al
contrario, certezze, assoluta chiarezza e precisione, ecc.
rilevanti per la valutazione di attendibilità), posto che tali
prove, proprio per la durata temporale dell'acquisizione, non
consentono la permanenza - per limiti intrinseci di memoria - per
la futura valutazione del giudice, esse devono essere considerate
inammissibili, in quanto di fatto superflue.
Tali prove non apporteranno difatti nulla di nuovo nel processo
decisionale del giudice, il quale - a causa della durata
eccessiva - sarà costretto a basare la propria decisione solo
sul "contenuto" delle deposizioni, già presente in
atti, non potendo invece tenere a mente gli elementi
"accessori" di cui si chiede, in sostanza,
l'acquisione.
La parte richiedente dovrà perciò argomentare, nella propria
richiesta, anche in considerazione di tali aspetti, e, posto che
in processi particolarmente complessi la scelta è implicitamente
necessaria, dovrà anche indicare le ragioni afferenti alla
preferenza di taluna o talatra rinnovazione.
In mancanza, non potendo il giudice correttamente operare alcuna
selezione o scelta - e per il semplice fatto che la richiesta è
dettata dall'esigenza di far conoscere elementi che il giudice,
per assunto, non conosce (si rinvia alle precedenti
considerazioni, anche circa la possibilità di scelta da parte
del collegio) - l'istanza di nuova acquisizione di prove non
potrà che essere ritenuta, si è detto, inammissibile, perché,
intrinsecamente illogica e contraddittoria, si palesa di fatto
come attività superflua e, forse, dettata da ragioni dilatorie.
I limiti ontologici del principio dell'oralità, a ben vedere, si
pongono anche come confine con i principi - parimenti rilevanti -
di concentrazione e di immediatezza, i quali non possono che
arricchire le considerazioni suesposte.
A sostegno delle affermazioni sostenute va altresì evidenziato
che l'art.33 nonies c.p.p. - introdotto dall'art. 170 del decreto
l.vo 19 febbraio 1998 n.51 - ha espressamente previsto la
validità delle prove acquisite in violazione delle disposizioni
sulla competenza del collegio o del giudice monocratico.
Ciò significa che, in caso di trasmissione degli atti dal
collegio al giudice monocratico, o, viceversa, di trasmissione
degli atti dal giudice monocratico al collegio, l'attività
istruttoria compiuta conserva la prova validità ed è
utilizzabile. E' palese quindi che, in seguito all'intervento
legislativo, il principio dell'oralità non può che essere
interpretato in senso restrittivo, non configurandosi in capo
alle parti un assoluto diritto all'oralità, ma, anzi, essendo
tale principio dell'oralità compresso dal principio di
economicità dei giudizi e dell'attività processuale perseguito
dall'art. 33 nonies c.p.p..
In conclusione, premesso che la richiesta deve essere comunque
motivata dalla parte, non possono essere acquisite nuovamente:
a) le prove già rivelatesi assolutamente ininfluenti per il
processo nella precedente assunzione (inammissibili per
irrilevanza ex art.190 c.p.p.);
b) le prove già rivelatesi inutili nel contenuto (e delle quali
non rilevano perciò nemmeno gli elementi "accessori"
inerenti l'attendibilità) pur essendo utili per qualche profilo
per la decisione del giudice, le quali possono essere rinnovate
mediante lettura;
c) le prove utili alla decisione per il loro contenuto (e,
quindi, anche per gli elementi "accessori") la cui
acquisizione sia logicamente in conflitto con il principio di
oralità (in base al quale è stata formulata la richiesta) a
causa della eccessiva durata prevista per la acquisizione: tali
prove, non potendo il giudice operare la scelta, devono essere
considerate inammissibili, in quanto, non potendo fornire
all'A.G. gli elementi ulteriori che si invocano, a causa dei
limiti intrinseci, risulteranno manifestamente superflue ai fini
della decisione, in considerazione del fatto che già esistono
agli atti le dichiarazioni (posto che le prove assunte nella
pregressa fase dibattimentale fanno già parte del contenuto del
fascicolo, in quanto conservano il carattere di attività
legalmente compiuta, cfr. Corte Costituzionale sentenza n.17 del
1994 e ordinanza n.99 del 1996) e che non è di fatto possibile
acquisire gli ulteriori aspetti attinenti l'attendibilità.
per questi motivi
il Giudice,
rilevato che la richiesta della difesa non appare adeguatamente
motivata, posto che si fa generico riferimento all'esigenza di
risentire i testi circa fatti sui quali hanno già deposto, non
evidenziando in alcun modo quali siano gli elementi connessi -
afferenti alle modalità del "dictum" - alle
dichiarazioni in atti, in virtù dei quali si ritiene necessario
procedere a nuova escussione per il principio di oralità che si
invoca.
dichiara
l'utilizzabilità
di tutti gli atti di istruzione dibattimentale fino ad oggi
svolti, e dispone l'acquisizione delle dichiarazioni testimoniali
rese nelle precedenti udienze mediante lettura dei verbali.