Il
nuovo diritto privato europeo
Interpretazione e integrazione del contratto
di Giuseppe Chinè (*)
Omessi
gli apparati di note e di riferimento bibliografico, queste pagine riproducono
una sezione di capitolo del primo
dei due volumi
a cura di Antonio Tizzano, AA.VV: Il
diritto privato dell'Unione europea, che è parte del Trattato
di diritto privato diretto da Mario Bessone per l'editore Giappichelli.
1 .
Seppure il fenomeno sia stato
inizialmente poco segnalato dagli addetti ai lavori, il ciclone comunitario
sembra aver intaccato, e non poco, alcune regole e principi che, secondo il
codice civile vigente, devono presiedere alla difficile ed irrinunciabile opera
di interpretazione della volontà contrattuale.
Anche
se sul piano formale nessuna norma di ispirazione sovranazionale abbia
modificato l’organica disciplina contenuta negli artt. 1362 ss. c.c.,
mantenendo inalterata la valenza generale di precetti che fondano un ordine
logico – gerarchico tra regole ermeneutiche rispondente ad una precisa
concezione del significato di accordo e di contratto come incontro – fusione
di manifestazioni di volontà scaturenti da soggetti dotati di uguale forza
negoziale, codicistico viene radicalmente messo in crisi da direttive e
conseguenti normative di recepimento che, contrapponendo consumatore ed
operatore professionale e dandone per scontata la differenza sul piano
economico, forniscono del contratto una chiave di lettura dissacratoria, ma
molto più realistica.
Il
consumatore è istituzionalmente indotto alla stipula dal bisogno stringente di
beni e servizi indispensabili per soddisfare esigenze personali o familiari
immanenti, di talché il suo consenso alla transazione commerciale non può
certo considerarsi libero; egli è spesso costretto ad accettare un testo
contrattuale da altri predisposto, sul quale non ha alcuna facoltà di incidenza
e di cui ignora il contenuto sino a qualche istante prima la firma di
accettazione, cosicché è consapevole di come il regolamento negoziale non
risponda ad un effettivo incontro dei consensi, ma rifletta la volontà
unilaterale del contraente predisponente.
Già queste prime riflessioni sulla nozione moderna di accordo e contratto
gettano più di un alone di dubbio sulla correttezza di un principio di
interpretazione che imponga all’ermeneuta di ricercare «quale sia stata la
comune intenzione delle parti», superando lo stesso significato letterale delle
parole usate, tenendo conto del comportamento complessivo delle parti, anche
successivo alla conclusione del contratto, vietando l’accesso ai canoni legali
di interpretazione oggettiva (artt. 1367-1371 c.c.) ove non siano state in
precedenza perseguite tutte le strade indicate da quelli di interpretazione
soggettiva (artt. 1362-1365 c.c.).
Le
rigide maglie di un controllo giudiziale deferito ex
art. 360, n. 3 c.p.c. alla Corte di legittimità per accertare eventuali
violazioni delle regole legali di interpretazione e del relativo ordine
gerarchico da parte degli organi giudicanti di merito perdono significato
ove trasposte in una realtà di contrattazioni cui fa difetto la tradizionale
progressiva formazione dell’accordo, connotata da un procedimento graduale che
attraverso reciproche rinunzie e concessioni conduce alla finale volontà
comune.
La regola comunitaria, in ossequio alla effettività di una immensa categoria di
stipulazioni, stravolge l’impianto codicistico dei criteri di interpretazione
del contratto, ergendo a principio cardine quello già noto dell’interpretatio
contra proferentem il quale, nei contratti tra consumatori e professionisti,
finisce con il prevalere su tutti gli altri canoni di interpretazione sia
oggettiva che soggettiva 113. Il principio è oggi cristallizzato nell’art.
1469 quater, c. 2°, c.c., che ha così
recepito il testo dell’art. 5 della direttiva n. 93/13/CEE sulle clausole
abusive.
Prima del recepimento della direttiva comunitaria l’identico principio
ermeneutico assumeva un ruolo tutt’altro che di primo piano nella gerarchia
delle regole fissate negli artt. 1362 ss. c.c. poiché l’art. 1370 c.c., pur
stabilendo che le clausole inserite in condizioni generali di contratto o in
moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti «s’interpretano, nel
dubbio, a favore del l’altro», era stato relegato dalla sistematica
codicistica tra le norme residuali di interpretazione oggettiva la cui
applicazione, considerato il principio di sussidiarietà che le connota, ha
trovato rarissimi riscontri pratici nella prassi dei tribunali.
Invero
sarebbe stato difficile ipotizzare che un organo giudicante, nell’interpretare
un contratto per adesione, potesse esaurire le regole di interpretazione
soggettiva senza giungere ad isolare una volontà negoziale accettabile e
decidesse, quindi, di fare applicazione delle diverse regole di interpretazione
oggettiva, tra cui quella contenuta nell’art. 1370 c.c..
Né la giurisprudenza, seguendo gli imputs
provenienti da un certo filone dottrinario, è mai stata capace di assumere
adeguate iniziative atte ad emancipare e svincolare la regola dell’interpretatio
contra proferentem dalle rigide maglie
del sistema fondato sulla distinzione tra norme di interpretazione soggettiva ed
oggettiva, così dimostrando di rinnegare identità ed autonomia al fenomeno
della contrattazione di massa al quale, per quanto già ricordato, mal si
adattano gran parte dei canoni interpretativi finalizzati ad accertare una
(inesistente) comune intenzione delle parti.
La priorità assegnata dal legislatore comunitario alla regola dell’interpretatio
contra proferentem trova conferme
nell’ampio ambito applicativo riservatole nonché, ancora più a monte, nelle rationes
sottostanti l’intero intervento normativo di tutela. Mentre l’art. 1370 c.c.
è norma che dal punto di vista sistematico si colloca nell’ambito della
disciplina delle condizioni generali di contratto (artt. 1341-1342 c.c.),
dettando una regola di interpretazione valevole per «le clausole inserite nelle
condizioni generali di contratto o in moduli o formulari», di talché essa
risulta applicabile alla duplice condizione che vi sia un testo contrattuale
predisposto unilateralmente e, per esigenze di uniformità, destinato ad essere
utilizzato in una molteplicità di stipulazioni analoghe, la identica regola
comunitaria non soffre di tale ultima limitazione, trovando piena applicazione
anche con riferimento alle clausole dei contratti tra professionista e
consumatore dal primo predisposte in relazione a ciascun singolo affare.
La
prima è quindi dedicata ai soli contratti standards, la seconda alla ben più
ampia categoria dei contratti per adesione.
Quanto alle rationes sottese
all’intervento normativo di tutela ed agli obiettivi con esso perseguiti,
dalla lettura dei numerosi considerando
che precedono la direttiva n. 93/13/CEE si evince come l’interesse alla
salvaguardia del consumatore dall’imposizione di clausole abusive nei
contratti stipulati con operatori professionali viene ponderato con quello
altrettanto rilevante all’approvvigionamento di determinati beni e servizi,
spesso indispensabili per il soddisfacimento di primarie esigenze personali e
familiari del contraente debole.
Questa
opera di ponderazione è stata prolifica di regole dirette a fornire una
adeguata protezione per il consumatore, senza intaccare la validità ed
efficacia del fulcro della transazione commerciale. Esemplifica tale tendenza
l’art. 1469 quinques, c. 1°, c.c.,
attuativo dell’art. 6 della direttiva, secondo cui l’inefficacia delle
clausole considerate vessatorie non si estende all’intero contratto che «rimane
efficace per il resto». Ma nella medesima lunghezza d’onda si colloca la
regola primaria di interpretazione contenuta nell’art. 1469 quater, c. 2°, c.c. che impone all’interprete, davanti a clausole
suscettibili di acquisire più significati, di preferire quello più favorevole
per gli interessi del consumatore.
Il
risultato per certi versi paradossale cui conduce la norma è di strappare la
clausola al giudizio di vessatorietà al quale probabilmente sarebbe stata
sottoposta ove non fosse intesa nel significato più favorevole per il
consumatore, così aprendo una via di fuga all’interno del sistema rigido di
controlli predisposto dalla direttiva 117. Non si tratta soltanto di attenuare
le conseguenze negative per il predisponente, bensì di completare e rafforzare
la tutela del consumatore facendo applicazione del principio di conservazione
degli atti negoziali che impone di eludere la sanzione dell’inefficacia ogni
qualvolta la stessa clausola sia suscettibile di produrre effetti a favore del
soggetto destinatario di tutela.
2.
L’evoluzione del diritto comunitario nel panorama delle fonti ha
condotto al riconoscimento graduale, ormai consolidato, del principio di priorità
della fonte sovranazionale su quella interna, anche di rango costituzionale.
La
prevalenza dell’ordinamento comunitario trova conforto nell’art. 11 Cost.
che, legittimando i trattati internazionali, ammette una autolimitazione della
sovranità nazionale al fine di promuovere e favorire organizzazioni
sovranazionali. Da ciò discende la natura «paracostituzionale» delle norme
comunitarie, come tali idonee a derogare non solo a disposizioni di legge
ordinaria, bensì a quelle di rango costituzionale, purché rispettino i
principi fondamentali del sistema giuridico nazionale ed i diritti inalienabili
della persona
All’alta considerazione del diritto comunitario sul piano della gerarchia
delle fonti, si affianca l’insegnamento
della Corte di giustizia che accredita la fonte sovranazionale come
strutturalmente idonea a comporre conflitti non solo tra Stati bensì, in via
principale, tra individui appartenenti ad un medesimo o diversi Stati membri.
A
questa conclusione muove l’idea che l’ordinamento comunitario ed i singoli
ordinamenti nazionali, pur collocandosi su piani diversi, si rivolgono
direttamente agli stessi individui, di cui disciplinano profili diversificati di
attività.
Rilevante
corollario è rappresentato dall’obbligo per i giudici nazionali, anch’esso
a più riprese sancito dalla Corte di Lussemburgo, di applicare le disposizioni
del diritto comunitario, garantendone la piena efficacia disapplicando, ove
fosse necessario ed agendo comunque di iniziativa, qualsiasi disposizione
contrastante della legislazione nazionale anche posteriore, senza doverne
chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o da parte del
giudice delle leggi.
Il dato ormai acquisito dell’immediata precettività del diritto comunitario
al l’interno dei singoli ordinamenti nazionali chiama l’interprete ad
una necessaria rilettura dell’art. 1374 c.c. che tenga conto della comparsa,
accanto alla legge, agli usi ed all’equità, di una nuova fonte di
integrazione del contratto dotata di maggiore forza rispetto alle stesse fonti
primarie interne.
L’ordine
tradizionale di operatività dei meccanismi integrativi dell’accordo
contrattuale rimane stravolto dall’apparizione di norme del Trattato,
regolamenti, direttive immediatamente incidenti nei rapporti interprivati nonché
dalle pronunce della Corte di giustizia la cui efficacia erga
omnes ha trovato più di una conferma anche da parte della Corte
costituzionale .
A
queste devono essere aggiunte le fonti normative interne di recepimento di
direttive comunitarie che, pur mantenendo sul piano formale la natura di
provvedimenti legislativi nazionali, riflettono quella particolare forza
precettiva derivante dalla norma sovranazionale e dalla particolare natura degli
obiettivi con essa perseguiti.
Ad un ruolo di primo piano tra le fonti di integrazione del contratto il diritto
comunitario aspira anche in virtù del suo carattere normalmente inderogabile,
quando non espressamente sancito da norme positive , certamente desumibile
dall’oggetto e dalle finalità complessive dell’intervento normativo.
Le
ragioni dell’imperatività della fonte sovranazionale sono strettamente
connesse agli obiettivi di uniformazione ed armonizzazione della disciplina di
interi settori dei rapporti tra privati all’interno del territorio
dell’Unione nel cammino verso l’effettiva realizzazione del mercato interno,
cosicché ogni possibilità di deroga per gli Stati membri o gli stessi privati,
ove non limitata drasticamente, verrebbe ad incidere sul superiore disegno delle
istituzioni comunitarie, riducendo, sino ad annullarle, le concrete aspettative
di successo.
In
questa ottica si spiega l’inserimento all’interno delle più importanti
direttive in materia di contratti dei consumatori della clausola che lascia
liberi gli Stati membri di adottare, nel rispetto degli obblighi derivanti dal
Trattato, disposizioni più rigide a protezione del consumatore, così
facoltizzando soltanto deroghe alla disciplina comunitaria che possono avere
come effetto di accelerare il processo di integrazione europea.
Il carattere normalmente imperativo del diritto comunitario permette di fare
luce sui meccanismi integrativi dell’accordo contrattuale secondo i dettami
degli artt. 1339 e 1419, c. 2°, c.c. Ove una clausola del contratto contrasti
con una disposizione comunitaria imperativa la sanzione della nullità parziale
potrebbe pregiudicare l’intero contratto ai sensi dell’art. 1419, c. 1°,
c.c., venendo ad incidere negativamente sugli interessi del consumatore che
vedrebbe svanire ogni aspettativa di accesso al bene o servizio dedotto in
contratto .
Per
evitare un simile risultato il legislatore sovranazionale spesso predispone
meccanismi di sostituzione automatica delle clausole nulle con altrettante
previsioni coerenti con gli obiettivi del Trattato.
Esemplificano
tale tendenza l’art. 124, c. 5°, d.lgs. n. 385/1993 in materia di credito al
consumo, secondo cui in caso di assenza o nullità di singole clausole
contrattuali si applicano in via sostitutiva previsioni legislative ritenute
favorevoli per il consumatore e l’art. 18, c. 2°, d.lgs. n. 415/1996
relativo ai contratti per servizi di investimento in materia mobiliare che oltre
a prevedere la nullità delle clausole di rinvio agli usi per la determinazione
del corrispettivo dovuto dal cliente e degli altri oneri a suo carico,
stabilisce che nulla è dovuto in tali casi dal cliente medesimo.
Ove il diritto positivo non predisponga meccanismi sostitutivi, si pone il
problema della praticabilità di soluzioni che, prendendo le mosse dalla norma
imperativa, costruiscano in via interpretativa la clausola sostitutiva,
anteponendone l’operatività all’estensione della nullità parziale.
Se
si considerano le conseguenze negative per il consumatore collegate ad una
misura che ponga nel nulla l’intero contratto, così come vorrebbe l’art.
1419, c. 1°, c.c., è possibile ritenere che già sul piano di una più
efficace tutela degli interessi sottesi all’intervento comunitario soluzioni
interpretative di tal fatta appaiono coerenti con gli obiettivi superiori
dell’azione degli organismi sovranazionali.
In assenza di espresse previsioni legislative il principio di conservazione del
contratto impone all’interprete di ricercare all’interno di ciascun testo
normativo, sia esso comunitario o quello di un provvedimento nazionale di
recepimento, i criteri cui improntare l’opera di sostituzione della divergente
volontà delle parti, così da accompagnare alla sanzione della invalidità una
misura positiva in grado non solo di escludere che il contratto risulti uno
strumento di contraffazione ai danni della parte meno organizzata sul piano
economico, bensì di trasformarlo in un volano per la promozione di regole e
principi eterodiretti.
La
postergazione che se ne desume del meccanismo estensivo dell’invalidità ai
sensi dell’art. 1419, c. 1°, c.c. rispetto a quello sostitutivo è conforme
ad una corretta lettura dei rapporti tra le norme codificate e, soprattutto,
risulta allineata con la superiore azione della comunità sovranazionale .
3. Nella varietà dei settori di intervento della legislazione di fonte
comunitaria dedicata ai rapporti interprivati quello della patologia dell’atto
negoziale si segnala al civilista in virtù della marcata capacità
rivoluzionaria ivi manifestata dal diritto sovranazionale, i cui dettami
finiscono con il porre in discussione categorie dogmatiche e principi ormai
consolidati nel diritto vivente.
Non
deve perciò stupire che le nuove forme di nullità disseminate in molteplici
direttive e relative normative di recepimento infondano perplessità e stupore
in capo a chi, studioso od operatore pratico, sia abituato ad utilizzare
determinati strumenti ermeneutici ed a ragionare per categorie generali di
fronte a forme di invalidità ritualmente denominate ma, ad un attento esame,
dai contorni sfumati e con connotazioni affatto peculiari.
La commistione di caratteri che caratterizza tali figure rende difficile una
corretta opera di ricostruzione del sistema scalfito dalla fonte comunitaria ove
non si mutino i tradizionali parametri di riferimento e ci si spogli della
zavorra di decenni di elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria.
Solo
se la terminologia usata dal legislatore non finirà con il costituire un
ostacolo insuperabile per l’interprete ed uno strumento di richiamo di interi
filoni disciplinatori, l’approccio alle recenti patologie contrattuali
permetterà di scoprire le fondamenta di una nuova struttura normativa, in parte
derivata dalla tradizione giuridica di altri ordinamenti d’oltralpe, in parte
risultante dalla positiva affermazione di regole e principi affatto innovativi.
Per la riuscita di questa opera di ricostruzione sistematica è necessario
rimangano sullo sfondo le tradizionali categorie della nullità e della
annullabilità cristallizzate nell’ultima codificazione, dopo che il vecchio
codice, sulla scia del code civil, aveva dettato una disciplina della invalidità
esclusivamente fondata su sottocategorie della nullità . Anche le
caratteristiche negative della nullità, costituite dalla insanabilità,
imprescrittibilità, assolutezza dell’azione, perdono significato ove astratte
dal panorama normativo cui venivano riferite, non riuscendo a connotare,
nonostante il nomen iuris, le forme di
invalidità contemplate da regolamenti e direttive.
Una scorsa alla disciplina contenuta nei più importanti interventi comunitari
degli ultimi anni evidenzia alcuni caratteri comuni alle forme di invalidità da
questi contemplate e sollecita altrettante significative riflessioni utili per
un compiuto tentativo di rifondazione sistematica.
Innanzitutto ciò che colpisce di alcune direttive è che il legislatore
sovranazionale preferisce ignorare le tradizionali figure di invalidità, nullità
ed annullabilità, già sul piano terminologico, per accentrare l’attenzione
sulle conseguenze della sanzione contrattuale connessa alla condotta vietata del
contraente professionale.
Sia
che si verta in materia di clausole abusive, sia di contratti aventi ad oggetto
diritti di multiproprietà, la normativa comunitaria impone agli Stati membri di
prevedere alldei rispettivi ordinamenti nazionali che le clausole abusive o
quelle dirette ad escludere i benefici contemplati dalla direttiva a favore del
consumatore o ad esonerare da responsabilità il venditore «non vincolano» il
contraente debole .
Volutamente
si aggiunge che tale effetto deve prodursi «alle condizioni stabilite dalla
legislazione nazionale», in modo da permettere a ciascuno Stato membro di
scegliere liberamente tra i vari rimedi contrattuali offerti dal panorama
normativo quello ritenuto più adatto a salvaguardare gli interessi del
consumatore, garantendo la non vincolatività per quest’ultimo delle sole
disposizioni vietate, lasciando impregiudicata per il resto l’operazione
negoziale.
Non
deve perciò stupire che una previsione normativa di tal fatta possa tradursi in
sede di disciplina di attuazione in una sanzione diversa dalle tradizionali
forme di invalidità, come dimostra il vigente art. 1469 quinquies c.c. che prevede una figura atipica di inefficacia
relativa rilevabile d’ufficio dal giudice per le clausole abusive (rectius:
vessatorie) imposte ai consumatori nelle contrattazioni per adesione.
Ove la normativa di attuazione indichi, almeno sul piano strettamente
terminologico, la sanzione della nullità, il richiamo alla categoria dogmatica
è quasi mai onnicomprensivo poiché la fonte sovranazionale forgia la sanzione
prescelta per meglio piegarla al soddisfacimento degli interessi prefissati.
In
questa ottica si spiega perché il precetto normativo sia spesso accompagnato
dalla previsione che riconosce la legittimazione a fare valere la nullità ad
una sola delle parti del contratto, proprio quella alla cui tutela è funzionale
la sanzione prescelta. Esemplificative sono le previsioni contenute nel testo
unico delle leggi bancarie approvato con d.lgs. n. 385/1993 e nel recente
decreto Eurosim.
Le
nullità previste dagli artt. 117 e 124, d.lgs. n. 385/1993 concernenti i
contratti conclusi dall’istituto di credito con la clientela e relative a vizi
formali o sostanziali dell’atto negoziale possono essere fatte valere soltanto
dal contraente non professionale, così come dispone il successivo art. 127, c.
2°, del medesimo decreto.
Identica
disciplina è dettata dall’art. 18, c. 3°, d.lgs. n. 415/1996 per le nullità
concernenti i contratti relativi a servizi finanziari per i quali è del pari
prevista la forma scritta ad substantiam
ed è vietato ogni rinvio agli usi per la determinazione di oneri a carico del
cliente. La medesima limitazione soggettiva all’azione è prevista dal
successivo art. 19, c. 3°, con riferimento alle nullità concernenti i
contratti relativi al servizio di gestione di portafogli di investimento.
Ma anche nei casi in cui la lettera della legge appare silente, il carattere
della relatività sembra accompagnare le figure di nullità previste dalla
normativa comunitaria. L’art. 10, c. 2°, d.lgs. n. 50/1992 sulle vendite
stipulate fuori dai locali commerciali, prescrivendo la nullità di ogni
pattuizione in contrasto con le disposizioni contenute nel decreto e ponendosi
quale norma di garanzia idonea ad impedire facili elusioni convenzionali del
dettato normativo, assume il significato di precetto cardine nel disegno di
protezione degli interessi del consumatore cui l’intera disciplina si ispira.
Seppure
nulla aggiunga la norma, ritenere che tale forma di nullità possa essere fatta
valere da chiunque vi abbia interesse secondo quanto previsto dall’art. 1421
c.c. significa ignorare origine e funzione della sanzione contrattuale,
astraendola dal contesto precettivo in cui è inserita, negandone ogni
collegamento con la fonte comunitaria che l’ha preceduta.
Come
nullità di protezione essa è non tanto finalizzata a servire interessi
genericamente pubblici, quanto alla salvaguardia degli interessi del consumatore
in un’ottica già segnalata di uniformazione di alcuni filoni del diritto dei
rapporti interprivati.
Queste considerazioni conducono alla conclusione che trattasi di nullità
relativa, il cui rilievo dipende dall’iniziativa del solo consumatore,
apparendo, peraltro, contraddittorio che il contraente professionale, dopo aver
predisposto ed inserito nel testo negoziale la clausola nulla, possa ritenersi
legittimato a farne valere la invalidità.
Detta
conclusione è poi quella che meglio si lega al sistema di tutela edificato
dalla legge, ai meccanismi integrativi e sostitutivi da questa autorizzati, al
superiore principio di conservazione del contratto che impone di limitare la
regola dell’estensione della nullità parziale in ossequio all’effettività
del principio di protezione degli interessi sostanziali del contraente debole .
Nella
medesima ottica si colloca l’art. 9 del recente d.lgs. n. 427/1998,
concernente «la tutela dell’acquirente per taluni aspetti dei contratti
relativi all’acquisizione di un diritto di godimento a tempo parziale di beni
immobili», il quale prevede la nullità delle clausole e dei patti aggiunti di
rinuncia da parte dell’acquirente ai diritti riconosciutigli dal decreto o di
limitazione delle responsabilità del venditore.
Analoghe considerazioni possono essere mosse con riferimento alla nullità
prevista dall’art. 12, d.p.r. 24 maggio 1988, n. 224 (attuativo della
direttiva n. 85/374/CEE) in materia di responsabilità per danno da prodotti
difettosi, che ha trovato conferma nell’ambito della disciplina del d.lgs. 17
marzo 1995, n. 115 (attuativo della direttiva n. 92/59/CEE) relativa alla
sicurezza generale dei prodotti.
La
norma sanziona con la nullità «qualsiasi patto che escluda o limiti
preventivamente nei confronti del danneggiato, la responsabilità» per danno da
prodotti difettosi, così garantendo un adeguato contemperamento tra
l’esigenza di protezione del consumatore e quella della creazione di un
mercato concorrenziale ove sia facilitata la circolazione delle merci.
Il
divieto appare assoluto, poiché una clausola di esclusione di responsabilità
è colpita da nullità chiunque ne abbia favorito la stipula, sia esso il
fabbricante, il distributore del prodotto o il dettagliante ed in qualsiasi
forma venga esplicitata, lasciando la formula adottata dal legislatore, per una
migliore tutela del consumatore, un ampio margine di apprezzamento al giudice
nel valutare l’invalidità
Lettera
e ratio normativa ancora una volta
conducono all’attribuzione al solo consumatore (rectius: danneggiato) della legittimazione a proporre l’azione di
nullità, quale unico soggetto alla cui tutela è piegata la norma, non trovando
alcun sostegno positivo la regola codicistica generale che legittimerebbe
attivamente anche gli altri soggetti della catena distributiva i quali hanno
nella clausola di esonero o limitazione di responsabilità l’unico appiglio
per sfuggire a conseguenze patrimoniali negative connesse alla difettosità di
prodotti precedentemente commercializzati.
Le forme di nullità introdotte dalla normativa comunitaria nella materia dei
contratti , seppure il disegno uniformatore non sia stato ancora completato, già
impongono una revisione di alcuni principi radicati nel sistema nazionale delle
invalidità negoziali. Primo fra tutti quello che associa alla nullità il
carattere dell’assolutezza, negando pratica rilevanza alla possibilità di
deroga cristallizzata nell’art. 1421 c.c. in nome della presunta
contraddittorietà che contraddistinguerebbe la stessa nozione di nullità
relativa .
Le
nullità di derivazione comunitaria, come acutamente sottolineato da qualche
commentatore, proiettandosi in un sistema normativo di tutela che
predilige gli interessi di alcuni soggetti del rapporto contrattuale e che tende
più che a sanzionare l’atto, a sanzionare il comportamento abusivo del
contraente professionale, si fanno carico delle maggiori conseguenze
pregiudizievoli per il soggetto meritevole di protezione connesse a forme di
nullità assoluta che, permettendo l’azzeramento dell’intera operazione
negoziale anche su input dell’altro
contraente, mortificherebbero le esigenze sostanziali del consumatore dirette al
soddisfacimento di quegli interessi primari sottesi all’operazione stessa.
Ma oltre alla relatività, le nuove nullità presentano il carattere della
sanabilità e della irretroattività degli effetti, almeno nella misura in cui
il soggetto destinatario di tutela, decidendo di non avvalersi dell’invalidità,
di fatto conferma l’efficacia del contratto, essendo precluso a terzi non
legittimati di rimediare a tale omissione.
Trattasi
di nullità le cui modalità operative sono peraltro guidate dal superiore
principio di conservazione del contratto che impone di relegare il precetto
della estensione della nullità parziale ai margini dello strumentario giuridico
riconosciuto al giudice, in nome del medesimo principio di tutela sostanziale
che impone di favorire meccanismi anche impliciti di sostituzione –
integrazione delle clausole nulle.
La distanza tra nullità ed annullabilità si è perciò notevolmente ridotta,
apparendo sempre meno vero che entrambe configurano forme di invalidità causate
da «un’anomalia della fattispecie» ma produttive di effetti diversi . Anche
l’ultimo criterio di distinzione fondato sugli effetti mostra, a ben vedere,
tutti i suoi limiti ove rapportato alle nullità di derivazione comunitaria. Ben
più gravi limiti presentano gli altri criteri tradizionali di distinzione
riferiti alla natura del vizio invalidante ed al carattere generale o
particolare degli interessi sottesi all’invalidità.
Il sistema che va delineandosi sulle ceneri di quello in via di disgregazione
delle invalidità tradizionali non appare certamente di facile ed immediata
lettura per lo studioso del diritto dei contratti, né sembra destinata al
successo l’intrapresa opera di riconduzione ad unità di precetti e principi
ove non emancipata da regole generali il cui attuale valore di aggregazione è
tutto da dimostrare.
Tali
difficoltà derivano dal coacervo di modelli nazionali intersecatisi a livello
comunitario per dare alla luce il nuovo modello comunitario delle nullità,
fenomeno per la verità comune ad ogni singolo intervento delle istituzioni
sovranazionali ma particolarmente evidente in un settore in cui differenze di
rilievo si registravano non solo tra ordinamenti di common law e di civil law,
bensì tra ordinamenti appartenenti alla medesima tradizione giuridica.
Se
non si vuole correre il rischio di conclusioni fallaci ci si può allora
accontentare di segnalare la varietà di modelli che oggi sembra connotare il
sistema nazionale delle nullità e l’inversione di tendenza rispetto ad un
recente passato provocato da direttive e relative norme di attuazione operanti
quali forze centrifughe che dal nucleo storico della nullità codicistica,
contraddicendone caratteri e funzione, spingono verso distinte forme di
invalidità, a volte già note seppure diversamente denominate, molto più
spesso dai contorni labili e sfumati derivanti dalla predetta commistione di
principi normativi ed elementi distintivi.
(*)
Giuseppe Chinè. Magistrato.