Il nuovo diritto privato europeo
Interpretazione e integrazione del contratto
 

di Giuseppe Chinè (*)

Omessi gli apparati di note e di riferimento bibliografico, queste pagine riproducono una sezione di capitolo del primo  dei due volumi  a cura di Antonio Tizzano, AA.VV: Il diritto privato dell'Unione europea, che è parte del Trattato di diritto privato diretto da Mario Bessone per l'editore Giappichelli.

 
1
. Seppure il fenomeno sia stato inizialmente poco segnalato dagli addetti ai lavori, il ciclone comunitario sembra aver intaccato, e non poco, alcune regole e principi che, secondo il codice civile vigente, devono presiedere alla difficile ed irrinunciabile opera di interpretazione della volontà contrattuale.

Anche se sul piano formale nessuna norma di ispirazione sovranazionale abbia modificato l’organica disciplina contenuta negli artt. 1362 ss. c.c., mantenendo inalterata la valenza generale di precetti che fondano un ordine logico – gerarchico tra regole ermeneutiche rispondente ad una precisa concezione del significato di accordo e di contratto come incontro – fusione di manifestazioni di volontà scaturenti da soggetti dotati di uguale forza negoziale, codicistico viene radicalmente messo in crisi da direttive e conseguenti normative di recepimento che, contrapponendo consumatore ed operatore professionale e dandone per scontata la differenza sul piano economico, forniscono del contratto una chiave di lettura dissacratoria, ma molto più realistica.

Il consumatore è istituzionalmente indotto alla stipula dal bisogno stringente di beni e servizi indispensabili per soddisfare esigenze personali o familiari immanenti, di talché il suo consenso alla transazione commerciale non può certo considerarsi libero; egli è spesso costretto ad accettare un testo contrattuale da altri predisposto, sul quale non ha alcuna facoltà di incidenza e di cui ignora il contenuto sino a qualche istante prima la firma di accettazione, cosicché è consapevole di come il regolamento negoziale non risponda ad un effettivo incontro dei consensi, ma rifletta la volontà unilaterale del contraente predisponente.
Già queste prime riflessioni sulla nozione moderna di accordo e contratto gettano più di un alone di dubbio sulla correttezza di un principio di interpretazione che imponga all’ermeneuta di ricercare «quale sia stata la comune intenzione delle parti», superando lo stesso significato letterale delle parole usate, tenendo conto del comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla conclusione del contratto, vietando l’accesso ai canoni legali di interpretazione oggettiva (artt. 1367-1371 c.c.) ove non siano state in precedenza perseguite tutte le strade indicate da quelli di interpretazione soggettiva (artt. 1362-1365 c.c.).

Le rigide maglie di un controllo giudiziale deferito ex art. 360, n. 3 c.p.c. alla Corte di legittimità per accertare eventuali violazioni delle regole legali di interpretazione e del relativo ordine gerarchico da parte degli organi giudicanti di merito  perdono significato ove trasposte in una realtà di contrattazioni cui fa difetto la tradizionale progressiva formazione dell’accordo, connotata da un procedimento graduale che attraverso reciproche rinunzie e concessioni conduce alla finale volontà comune.
La regola comunitaria, in ossequio alla effettività di una immensa categoria di stipulazioni, stravolge l’impianto codicistico dei criteri di interpretazione del contratto, ergendo a principio cardine quello già noto dell’interpretatio contra proferentem il quale, nei contratti tra consumatori e professionisti, finisce con il prevalere su tutti gli altri canoni di interpretazione sia oggettiva che soggettiva 113. Il principio è oggi cristallizzato nell’art. 1469 quater, c. 2°, c.c., che ha così recepito il testo dell’art. 5 della direttiva n. 93/13/CEE sulle clausole abusive.
Prima del recepimento della direttiva comunitaria l’identico principio ermeneutico assumeva un ruolo tutt’altro che di primo piano nella gerarchia delle regole fissate negli artt. 1362 ss. c.c. poiché l’art. 1370 c.c., pur stabilendo che le clausole inserite in condizioni generali di contratto o in moduli o formulari predisposti da uno dei contraenti «s’interpretano, nel dubbio, a favore del­ ­ l’altro», era stato relegato dalla sistematica codicistica tra le norme residuali di interpretazione oggettiva la cui applicazione, considerato il principio di sussidiarietà che le connota, ha trovato rarissimi riscontri pratici nella prassi dei tribunali.

Invero sarebbe stato difficile ipotizzare che un organo giudicante, nell’interpretare un contratto per adesione, potesse esaurire le regole di interpretazione soggettiva senza giungere ad isolare una volontà negoziale accettabile e decidesse, quindi, di fare applicazione delle diverse regole di interpretazione oggettiva, tra cui quella contenuta nell’art. 1370 c.c..
Né la giurisprudenza, seguendo gli imputs provenienti da un certo filone dottrinario, è mai stata capace di assumere adeguate iniziative atte ad emancipare e svincolare la regola dell’interpretatio contra proferentem dalle rigide maglie del sistema fondato sulla distinzione tra norme di interpretazione soggettiva ed oggettiva, così dimostrando di rinnegare identità ed autonomia al fenomeno della contrattazione di massa al quale, per quanto già ricordato, mal si adattano gran parte dei canoni interpretativi finalizzati ad accertare una (inesistente) comune intenzione delle parti.
La priorità assegnata dal legislatore comunitario alla regola dell’interpretatio contra proferentem trova conferme nell’ampio ambito applicativo riservatole nonché, ancora più a monte, nelle rationes sottostanti l’intero intervento normativo di tutela. Mentre l’art. 1370 c.c. è norma che dal punto di vista sistematico si colloca nell’ambito della disciplina delle condizioni generali di contratto (artt. 1341-1342 c.c.), dettando una regola di interpretazione valevole per «le clausole inserite nelle condizioni generali di contratto o in moduli o formulari», di talché essa risulta applicabile alla duplice condizione che vi sia un testo contrattuale predisposto unilateralmente e, per esigenze di uniformità, destinato ad essere utilizzato in una molteplicità di stipulazioni analoghe, la identica regola comunitaria non soffre di tale ultima limitazione, trovando piena applicazione anche con riferimento alle clausole dei contratti tra professionista e consumatore dal primo predisposte in relazione a ciascun singolo affare.

La prima è quindi dedicata ai soli contratti standards, la seconda alla ben più ampia categoria dei contratti per adesione.
Quanto alle rationes sottese all’intervento normativo di tutela ed agli obiettivi con esso perseguiti, dalla lettura dei numerosi considerando che precedono la direttiva n. 93/13/CEE si evince come l’interesse alla salvaguardia del consumatore dall’imposizione di clausole abusive nei contratti stipulati con operatori professionali viene ponderato con quello altrettanto rilevante all’approvvigionamento di determinati beni e servizi, spesso indispensabili per il soddisfacimento di primarie esigenze personali e familiari del contraente debole.

Questa opera di ponderazione è stata prolifica di regole dirette a fornire una adeguata protezione per il consumatore, senza intaccare la validità ed efficacia del fulcro della transazione commerciale. Esemplifica tale tendenza l’art. 1469 quinques, c. 1°, c.c., attuativo dell’art. 6 della direttiva, secondo cui l’inefficacia delle clausole considerate vessatorie non si estende all’intero contratto che «rimane efficace per il resto». Ma nella medesima lunghezza d’onda si colloca la regola primaria di interpretazione contenuta nell’art. 1469 quater, c. 2°, c.c. che impone all’interprete, davanti a clausole suscettibili di acquisire più significati, di preferire quello più favorevole per gli interessi del consumatore.

Il risultato per certi versi paradossale cui conduce la norma è di strappare la clausola al giudizio di vessatorietà al quale probabilmente sarebbe stata sottoposta ove non fosse intesa nel significato più favorevole per il consumatore, così aprendo una via di fuga all’interno del sistema rigido di controlli predisposto dalla direttiva 117. Non si tratta soltanto di attenuare le conseguenze negative per il predisponente, bensì di completare e rafforzare la tutela del consumatore facendo applicazione del principio di conservazione degli atti negoziali che impone di eludere la sanzione dell’inefficacia ogni qualvolta la stessa clausola sia suscettibile di produrre effetti a favore del soggetto destinatario di tutela.

 

2. L’evoluzione del diritto comunitario nel panorama delle fonti ha condotto al riconoscimento graduale, ormai consolidato, del principio di priorità della fonte sovranazionale su quella interna, anche di rango costituzionale.

La prevalenza dell’ordinamento comunitario trova conforto nell’art. 11 Cost. che, legittimando i trattati internazionali, ammette una autolimitazione della sovranità nazionale al fine di promuovere e favorire organizzazioni sovranazionali. Da ciò discende la natura «paracostituzionale» delle norme comunitarie, come tali idonee a derogare non solo a disposizioni di legge ordinaria, bensì a quelle di rango costituzionale, purché rispettino i principi fondamentali del sistema giuridico nazionale ed i diritti inalienabili della persona
All’alta considerazione del diritto comunitario sul piano della gerarchia delle fonti, si affianca l’insegnamento della Corte di giustizia che accredita la fonte sovranazionale come strutturalmente idonea a comporre conflitti non solo tra Stati bensì, in via principale, tra individui appartenenti ad un medesimo o diversi Stati membri.

A questa conclusione muove l’idea che l’ordinamento comunitario ed i singoli ordinamenti nazionali, pur collocandosi su piani diversi, si rivolgono direttamente agli stessi individui, di cui disciplinano profili diversificati di attività.

Rilevante corollario è rappresentato dall’obbligo per i giudici nazionali, anch’esso a più riprese sancito dalla Corte di Lussemburgo, di applicare le disposizioni del diritto comunitario, garantendone la piena efficacia disapplicando, ove fosse necessario ed agendo comunque di iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o da parte del giudice delle leggi.
Il dato ormai acquisito dell’immediata precettività del diritto comunitario al­ ­ l’interno dei singoli ordinamenti nazionali chiama l’interprete ad una necessaria rilettura dell’art. 1374 c.c. che tenga conto della comparsa, accanto alla legge, agli usi ed all’equità, di una nuova fonte di integrazione del contratto dotata di maggiore forza rispetto alle stesse fonti primarie interne.

L’ordine tradizionale di operatività dei meccanismi integrativi dell’accordo contrattuale rimane stravolto dall’apparizione di norme del Trattato, regolamenti, direttive immediatamente incidenti nei rapporti interprivati nonché dalle pronunce della Corte di giustizia la cui efficacia erga omnes ha trovato più di una conferma anche da parte della Corte costituzionale .

A queste devono essere aggiunte le fonti normative interne di recepimento di direttive comunitarie che, pur mantenendo sul piano formale la natura di provvedimenti legislativi nazionali, riflettono quella particolare forza precettiva derivante dalla norma sovranazionale e dalla particolare natura degli obiettivi con essa perseguiti.
Ad un ruolo di primo piano tra le fonti di integrazione del contratto il diritto comunitario aspira anche in virtù del suo carattere normalmente inderogabile, quando non espressamente sancito da norme positive , certamente desumibile dall’oggetto e dalle finalità complessive dell’intervento normativo.

Le ragioni dell’imperatività della fonte sovranazionale sono strettamente connesse agli obiettivi di uniformazione ed armonizzazione della disciplina di interi settori dei rapporti tra privati all’interno del territorio dell’Unione nel cammino verso l’effettiva realizzazione del mercato interno, cosicché ogni possibilità di deroga per gli Stati membri o gli stessi privati, ove non limitata drasticamente, verrebbe ad incidere sul superiore disegno delle istituzioni comunitarie, riducendo, sino ad annullarle, le concrete aspettative di successo.

In questa ottica si spiega l’inserimento all’interno delle più importanti direttive in materia di contratti dei consumatori della clausola che lascia liberi gli Stati membri di adottare, nel rispetto degli obblighi derivanti dal Trattato, disposizioni più rigide a protezione del consumatore, così facoltizzando soltanto deroghe alla disciplina comunitaria che possono avere come effetto di accelerare il processo di integrazione europea.
Il carattere normalmente imperativo del diritto comunitario permette di fare luce sui meccanismi integrativi dell’accordo contrattuale secondo i dettami degli artt. 1339 e 1419, c. 2°, c.c. Ove una clausola del contratto contrasti con una disposizione comunitaria imperativa la sanzione della nullità parziale potrebbe pregiudicare l’intero contratto ai sensi dell’art. 1419, c. 1°, c.c., venendo ad incidere negativamente sugli interessi del consumatore che vedrebbe svanire ogni aspettativa di accesso al bene o servizio dedotto in contratto .       

Per evitare un simile risultato il legislatore sovranazionale spesso predispone meccanismi di sostituzione automatica delle clausole nulle con altrettante previsioni coerenti con gli obiettivi del Trattato.

Esemplificano tale tendenza l’art. 124, c. 5°, d.lgs. n. 385/1993 in materia di credito al consumo, secondo cui in caso di assenza o nullità di singole clausole contrattuali si applicano in via sostitutiva previsioni legislative ritenute favorevoli per il consumatore  e l’art. 18, c. 2°, d.lgs. n. 415/1996 relativo ai contratti per servizi di investimento in materia mobiliare che oltre a prevedere la nullità delle clausole di rinvio agli usi per la determinazione del corrispettivo dovuto dal cliente e degli altri oneri a suo carico, stabilisce che nulla è dovuto in tali casi dal cliente medesimo.
Ove il diritto positivo non predisponga meccanismi sostitutivi, si pone il problema della praticabilità di soluzioni che, prendendo le mosse dalla norma imperativa, costruiscano in via interpretativa la clausola sostitutiva, anteponendone l’operatività all’estensione della nullità parziale.

Se si considerano le conseguenze negative per il consumatore collegate ad una misura che ponga nel nulla l’intero contratto, così come vorrebbe l’art. 1419, c. 1°, c.c., è possibile ritenere che già sul piano di una più efficace tutela degli interessi sottesi all’intervento comunitario soluzioni interpretative di tal fatta appaiono coerenti con gli obiettivi superiori dell’azione degli organismi sovranazionali.
In assenza di espresse previsioni legislative il principio di conservazione del contratto impone all’interprete di ricercare all’interno di ciascun testo normativo, sia esso comunitario o quello di un provvedimento nazionale di recepimento, i criteri cui improntare l’opera di sostituzione della divergente volontà delle parti, così da accompagnare alla sanzione della invalidità una misura positiva in grado non solo di escludere che il contratto risulti uno strumento di contraffazione ai danni della parte meno organizzata sul piano economico, bensì di trasformarlo in un volano per la promozione di regole e principi eterodiretti.

La postergazione che se ne desume del meccanismo estensivo dell’invalidità ai sensi dell’art. 1419, c. 1°, c.c. rispetto a quello sostitutivo è conforme ad una corretta lettura dei rapporti tra le norme codificate e, soprattutto, risulta allineata con la superiore azione della comunità sovranazionale .


3.
Nella varietà dei settori di intervento della legislazione di fonte comunitaria dedicata ai rapporti interprivati quello della patologia dell’atto negoziale si segnala al civilista in virtù della marcata capacità rivoluzionaria ivi manifestata dal diritto sovranazionale, i cui dettami finiscono con il porre in discussione categorie dogmatiche e principi ormai consolidati nel diritto vivente.

Non deve perciò stupire che le nuove forme di nullità disseminate in molteplici direttive e relative normative di recepimento infondano perplessità e stupore in capo a chi, studioso od operatore pratico, sia abituato ad utilizzare determinati strumenti ermeneutici ed a ragionare per categorie generali di fronte a forme di invalidità ritualmente denominate ma, ad un attento esame, dai contorni sfumati e con connotazioni affatto peculiari.
La commistione di caratteri che caratterizza tali figure rende difficile una corretta opera di ricostruzione del sistema scalfito dalla fonte comunitaria ove non si mutino i tradizionali parametri di riferimento e ci si spogli della zavorra di decenni di elaborazione giurisprudenziale e dottrinaria.

Solo se la terminologia usata dal legislatore non finirà con il costituire un ostacolo insuperabile per l’interprete ed uno strumento di richiamo di interi filoni disciplinatori, l’approccio alle recenti patologie contrattuali permetterà di scoprire le fondamenta di una nuova struttura normativa, in parte derivata dalla tradizione giuridica di altri ordinamenti d’oltralpe, in parte risultante dalla positiva affermazione di regole e principi affatto innovativi.
Per la riuscita di questa opera di ricostruzione sistematica è necessario rimangano sullo sfondo le tradizionali categorie della nullità e della annullabilità cristallizzate nell’ultima codificazione, dopo che il vecchio codice, sulla scia del code civil, aveva dettato una disciplina della invalidità esclusivamente fondata su sottocategorie della nullità . Anche le caratteristiche negative della nullità, costituite dalla insanabilità, imprescrittibilità, assolutezza dell’azione, perdono significato ove astratte dal panorama normativo cui venivano riferite, non riuscendo a connotare, nonostante il nomen iuris, le forme di invalidità contemplate da regolamenti e direttive.
Una scorsa alla disciplina contenuta nei più importanti interventi comunitari degli ultimi anni evidenzia alcuni caratteri comuni alle forme di invalidità da questi contemplate e sollecita altrettante significative riflessioni utili per un compiuto tentativo di rifondazione sistematica.
Innanzitutto ciò che colpisce di alcune direttive è che il legislatore sovranazionale preferisce ignorare le tradizionali figure di invalidità, nullità ed annullabilità, già sul piano terminologico, per accentrare l’attenzione sulle conseguenze della sanzione contrattuale connessa alla condotta vietata del contraente professionale.

Sia che si verta in materia di clausole abusive, sia di contratti aventi ad oggetto diritti di multiproprietà, la normativa comunitaria impone agli Stati membri di prevedere alldei rispettivi ordinamenti nazionali che le clausole abusive o quelle dirette ad escludere i benefici contemplati dalla direttiva a favore del consumatore o ad esonerare da responsabilità il venditore «non vincolano» il contraente debole .

Volutamente si aggiunge che tale effetto deve prodursi «alle condizioni stabilite dalla legislazione nazionale», in modo da permettere a ciascuno Stato membro di scegliere liberamente tra i vari rimedi contrattuali offerti dal panorama normativo quello ritenuto più adatto a salvaguardare gli interessi del consumatore, garantendo la non vincolatività per quest’ultimo delle sole disposizioni vietate, lasciando impregiudicata per il resto l’operazione negoziale.

Non deve perciò stupire che una previsione normativa di tal fatta possa tradursi in sede di disciplina di attuazione in una sanzione diversa dalle tradizionali forme di invalidità, come dimostra il vigente art. 1469 quinquies c.c. che prevede una figura atipica di inefficacia relativa rilevabile d’ufficio dal giudice per le clausole abusive (rectius: vessatorie) imposte ai consumatori nelle contrattazioni per adesione.
Ove la normativa di attuazione indichi, almeno sul piano strettamente terminologico, la sanzione della nullità, il richiamo alla categoria dogmatica è quasi mai onnicomprensivo poiché la fonte sovranazionale forgia la sanzione prescelta per meglio piegarla al soddisfacimento degli interessi prefissati.

In questa ottica si spiega perché il precetto normativo sia spesso accompagnato dalla previsione che riconosce la legittimazione a fare valere la nullità ad una sola delle parti del contratto, proprio quella alla cui tutela è funzionale la sanzione prescelta. Esemplificative sono le previsioni contenute nel testo unico delle leggi bancarie approvato con d.lgs. n. 385/1993 e nel recente decreto Eurosim.

Le nullità previste dagli artt. 117 e 124, d.lgs. n. 385/1993 concernenti i contratti conclusi dall’istituto di credito con la clientela e relative a vizi formali o sostanziali dell’atto negoziale possono essere fatte valere soltanto dal contraente non professionale, così come dispone il successivo art. 127, c. 2°, del medesimo decreto.

Identica disciplina è dettata dall’art. 18, c. 3°, d.lgs. n. 415/1996 per le nullità concernenti i contratti relativi a servizi finanziari per i quali è del pari prevista la forma scritta ad substantiam ed è vietato ogni rinvio agli usi per la determinazione di oneri a carico del cliente. La medesima limitazione soggettiva all’azione è prevista dal successivo art. 19, c. 3°, con riferimento alle nullità concernenti i contratti relativi al servizio di gestione di portafogli di investimento.
Ma anche nei casi in cui la lettera della legge appare silente, il carattere della relatività sembra accompagnare le figure di nullità previste dalla normativa comunitaria. L’art. 10, c. 2°, d.lgs. n. 50/1992 sulle vendite stipulate fuori dai locali commerciali, prescrivendo la nullità di ogni pattuizione in contrasto con le disposizioni contenute nel decreto e ponendosi quale norma di garanzia idonea ad impedire facili elusioni convenzionali del dettato normativo, assume il significato di precetto cardine nel disegno di protezione degli interessi del consumatore cui l’intera disciplina si ispira.

Seppure nulla aggiunga la norma, ritenere che tale forma di nullità possa essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse secondo quanto previsto dall’art. 1421 c.c. significa ignorare origine e funzione della sanzione contrattuale, astraendola dal contesto precettivo in cui è inserita, negandone ogni collegamento con la fonte comunitaria che l’ha preceduta.         

Come nullità di protezione essa è non tanto finalizzata a servire interessi genericamente pubblici, quanto alla salvaguardia degli interessi del consumatore in un’ottica già segnalata di uniformazione di alcuni filoni del diritto dei rapporti interprivati.
Queste considerazioni conducono alla conclusione che trattasi di nullità relativa, il cui rilievo dipende dall’iniziativa del solo consumatore, apparendo, peraltro, contraddittorio che il contraente professionale, dopo aver predisposto ed inserito nel testo negoziale la clausola nulla, possa ritenersi legittimato a farne valere la invalidità.

Detta conclusione è poi quella che meglio si lega al sistema di tutela edificato dalla legge, ai meccanismi integrativi e sostitutivi da questa autorizzati, al superiore principio di conservazione del contratto che impone di limitare la regola dell’estensione della nullità parziale in ossequio all’effettività del principio di protezione degli interessi sostanziali del contraente debole .

Nella medesima ottica si colloca l’art. 9 del recente d.lgs. n. 427/1998, concernente «la tutela dell’acquirente per taluni aspetti dei contratti relativi all’acquisizione di un diritto di godimento a tempo parziale di beni immobili», il quale prevede la nullità delle clausole e dei patti aggiunti di rinuncia da parte dell’acquirente ai diritti riconosciutigli dal decreto o di limitazione delle responsabilità del venditore.
Analoghe considerazioni possono essere mosse con riferimento alla nullità prevista dall’art. 12, d.p.r. 24 maggio 1988, n. 224 (attuativo della direttiva n. 85/374/CEE) in materia di responsabilità per danno da prodotti difettosi, che ha trovato conferma nell’ambito della disciplina del d.lgs. 17 marzo 1995, n. 115 (attuativo della direttiva n. 92/59/CEE) relativa alla sicurezza generale dei prodotti.

La norma sanziona con la nullità «qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente nei confronti del danneggiato, la responsabilità» per danno da prodotti difettosi, così garantendo un adeguato contemperamento tra l’esigenza di protezione del consumatore e quella della creazione di un mercato concorrenziale ove sia facilitata la circolazione delle merci.

Il divieto appare assoluto, poiché una clausola di esclusione di responsabilità è colpita da nullità chiunque ne abbia favorito la stipula, sia esso il fabbricante, il distributore del prodotto o il dettagliante ed in qualsiasi forma venga esplicitata, lasciando la formula adottata dal legislatore, per una migliore tutela del consumatore, un ampio margine di apprezzamento al giudice nel valutare l’invalidità .

Lettera e ratio normativa ancora una volta conducono all’attribuzione al solo consumatore (rectius: danneggiato) della legittimazione a proporre l’azione di nullità, quale unico soggetto alla cui tutela è piegata la norma, non trovando alcun sostegno positivo la regola codicistica generale che legittimerebbe attivamente anche gli altri soggetti della catena distributiva i quali hanno nella clausola di esonero o limitazione di responsabilità l’unico appiglio per sfuggire a conseguenze patrimoniali negative connesse alla difettosità di prodotti precedentemente commercializzati.
Le forme di nullità introdotte dalla normativa comunitaria nella materia dei contratti , seppure il disegno uniformatore non sia stato ancora completato, già impongono una revisione di alcuni principi radicati nel sistema nazionale delle invalidità negoziali. Primo fra tutti quello che associa alla nullità il carattere dell’assolutezza, negando pratica rilevanza alla possibilità di deroga cristallizzata nell’art. 1421 c.c. in nome della presunta contraddittorietà che contraddistinguerebbe la stessa nozione di nullità relativa .

Le nullità di derivazione comunitaria, come acutamente sottolineato da qualche commentatore,  proiettandosi in un sistema normativo di tutela che predilige gli interessi di alcuni soggetti del rapporto contrattuale e che tende più che a sanzionare l’atto, a sanzionare il comportamento abusivo del contraente professionale, si fanno carico delle maggiori conseguenze pregiudizievoli per il soggetto meritevole di protezione connesse a forme di nullità assoluta che, permettendo l’azzeramento dell’intera operazione negoziale anche su input dell’altro contraente, mortificherebbero le esigenze sostanziali del consumatore dirette al soddisfacimento di quegli interessi primari sottesi all’operazione stessa.
Ma oltre alla relatività, le nuove nullità presentano il carattere della sanabilità e della irretroattività degli effetti, almeno nella misura in cui il soggetto destinatario di tutela, decidendo di non avvalersi dell’invalidità, di fatto conferma l’efficacia del contratto, essendo precluso a terzi non legittimati di rimediare a tale omissione.

Trattasi di nullità le cui modalità operative sono peraltro guidate dal superiore principio di conservazione del contratto che impone di relegare il precetto della estensione della nullità parziale ai margini dello strumentario giuridico riconosciuto al giudice, in nome del medesimo principio di tutela sostanziale che impone di favorire meccanismi anche impliciti di sostituzione – integrazione delle clausole nulle.
La distanza tra nullità ed annullabilità si è perciò notevolmente ridotta, apparendo sempre meno vero che entrambe configurano forme di invalidità causate da «un’anomalia della fattispecie» ma produttive di effetti diversi . Anche l’ultimo criterio di distinzione fondato sugli effetti mostra, a ben vedere, tutti i suoi limiti ove rapportato alle nullità di derivazione comunitaria. Ben più gravi limiti presentano gli altri criteri tradizionali di distinzione riferiti alla natura del vizio invalidante ed al carattere generale o particolare degli interessi sottesi all’invalidità.
Il sistema che va delineandosi sulle ceneri di quello in via di disgregazione delle invalidità tradizionali non appare certamente di facile ed immediata lettura per lo studioso del diritto dei contratti, né sembra destinata al successo l’intrapresa opera di riconduzione ad unità di precetti e principi ove non emancipata da regole generali il cui attuale valore di aggregazione è tutto da dimostrare.

Tali difficoltà derivano dal coacervo di modelli nazionali intersecatisi a livello comunitario per dare alla luce il nuovo modello comunitario delle nullità, fenomeno per la verità comune ad ogni singolo intervento delle istituzioni sovranazionali ma particolarmente evidente in un settore in cui differenze di rilievo si registravano non solo tra ordinamenti di common law e di civil law, bensì tra ordinamenti appartenenti alla medesima tradizione giuridica.

Se non si vuole correre il rischio di conclusioni fallaci ci si può allora accontentare di segnalare la varietà di modelli che oggi sembra connotare il sistema nazionale delle nullità e l’inversione di tendenza rispetto ad un recente passato provocato da direttive e relative norme di attuazione operanti quali forze centrifughe che dal nucleo storico della nullità codicistica, contraddicendone caratteri e funzione, spingono verso distinte forme di invalidità, a volte già note seppure diversamente denominate, molto più spesso dai contorni labili e sfumati derivanti dalla predetta commistione di principi normativi ed elementi distintivi.

 

 (*) Giuseppe Chinè. Magistrato.


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