PROBLEMI
INTERPRETATIVI PRATICI
RIGUARDANTI IL NUOVO GIUDIZIO
ABBREVIATO
di Carlo Alberto Zaina
Avvocato del foro di Rimini
1) RIFLESSIONI IN TEMA DI PRESUNTA ILLEGITTIMITA’ COSTITUZIONALE DELL’ART. 438 co. 5° C.P.P. PER CONTRASTO CON GLI ARTT. 24, 3 COST., 190 co. 1 E 495 co. 1 E 2 C.P.P. (NELLA PARTE IN CUI PREVEDE QUALE PRESUPPOSTO PER L’AMMISSIBILITA’ DEL GIUDIZIO ABBREVIATO CONDIZIONATO LA NECESSARIETA’ DELLA RICHIESTA INTEGRAZIONE PROBATORIA A FINI DELLA DECISIONE)
E’ evidente la vivacità del dibattito in ordine alla recente
riforma del giudizio abbreviato.
Questo istituto è stato sostanzialmente
modificato, assumendo una connotazione di ibridismo sostanziale, posto che
l’introduzione del rito cd. “condizionato”, ha indubitabilmente alterato quel
criterio di decisibilità allo stato degli atti, che, permettendo che la
discussione vertesse solamente sugli elementi per tabulas raccolti,
cristallizzava de facto la situazione processuale e probatoria
esistente.
Esso è stato, altresì, modificato (non si sa se in modo coerente o
meno), sopprimendo il vincolo dato dal consenso preventivo del P.M. alla
richiesta della parte interessata.
Va detto sul punto che detta scelta,
ampiamente criticata da buona parte degli esegeti, è stata, peraltro,
determinata, in rilevante parte, da un atteggiamento che troppo spesso i
rappresentanti della pubblica accusa assumevano, negando con motivazioni di
stile, atteso l’intervenuto dovere di motivazione sul punto[1], la propria adesione
all’istanza di definizione deflativa del processo.
La situazione ante riforma
permetteva, per vero, l’eventuale recupero della diminuente, in fase
dibattimentale.
Tale previsione, frutto dell’intervento della Corte
costituzionale[2], appariva, però
insoddisfacente, posto che di fatto, il giudizio abbreviato veniva celebrato
dinanzi ad un giudice diverso da quello naturale (il G.U.P.), e con una forma
palesemente diversa da quella originaria, il dibattimento.
Fatte queste
doverose, seppure sintetiche premesse, nella odierna situazione processuale, a
parere di chi scrive, la scelta di finalizzare l’ammissione dell’integrazione
probatoria alla decisione del giudizio abbreviato sembra apparire una condizione
del tutto illegittima, perché importa a carico del giudice una preventiva ed
incidentale penetrazione del merito delle risultanze processuali.
La
locuzione utilizzata dalla norma “SE L’INTEGRAZIONE PROBATORIA RICHIESTA RISULTA
NECESSARIA AI FINI DI DECISIONE”, appare del tutto in conflitto con la regola
generale in materia probatoria, portata dall’art. 190 c.p.p. al proprio comma
1°.
In tale ambito, il legislatore ha previsto l’esclusione di quelle prove
che siano VIETATE DALLA LEGGE, o che vengano considerate MANIFESTAMENTE
SUPERFLUE O IRRILEVANTI, senza che, però, sia usato il parametro di ancorare
preventivamente le stesse alla decisione che il giudice dovrà prendere nel
merito al termine del giudizio.
In buona sostanza, l’accettazione della prova
è collegata, quale principio generale, alla sua attinenza e pertinenza rispetto
all’accusa, non già all’effetto che essa potrà avere in relazione alla sentenza
che si emetterà.
Non viene, pertanto, svolta una prognosi, od un giudizio di
futuribile intima incidenza della prova richiesta sull’esito finale del
giudizio.
Siamo, pertanto, in presenza di due criteri di ammissibilità della
prova, tra loro configgenti, pur se attinenti a fasi omologhe, siccome
definitorie un grado di giudizio di merito.
Tale evidente discrasia,
determina una lesione del principio sia di difesa, che di uguaglianza.
Il
giudice del dibattimento, quindi, a differenza di quello del giudizio abbreviato
condizionato, opera, diversamente da quanto sostenuto dal G.U.P., nell’ordinanza
impugnata, una valutazione di attinenza della richiesta rispetto al capo di
imputazione, che non sconfina nel merito, e non si pone quale prognosi futura in
ordine all’esito del processo.
Il giudice dibattimentale non si pone, né si
deve porre, il problema se la prova richiesta riverberi effetti necessari sul
provvedimento definitorio il giudizio, la sentenza.
Egli si limita a valutare
la congruità formale e sostanziale della prova al processo, ammettendola purchè
non risulti di per sé irrilevante od ininfluente, già ex ante.
La prova ben
potrà, quindi, nella comparazione dibattimentale, di cui sarà eventualmente
oggetto assieme ad altre alla stessa contrarie, disattesa dal giudicante o
ritenuta non concludente.
Valuterà, poi, il giudice se la prova assuma
valore e peso processuale nell’economia del rito.
Tale giudizio, formulato
con valutazione ex post, non potrà in alcun modo, però, portare alla definizione
di prova irrilevante od ininfluente.
Il giudice del giudizio ex art. 438
c.p.p., vincolato nel proprio esame preventivo-delibativo, invece, viene ad
essere indebitamente condizionato dal valore che la prova dovrebbe assumere
nell’economia del provvedimento finale da emettere.
In buona sostanza, senza
tanti giri di parole, il giudice deve valutare se la prova sia decisiva, (in
questo senso deve interpretarsi il concetto di NECESSITA’), in relazione alla
sentenza che si andrà ad emettere, cioè se la prova possa produrre effetti di
discolpa o meno, ammettendola solo se essa, a suo parere dimostrerà l’innocenza
dell’imputato.
Ciò che si impone al giudice, altro non è che un’anticipazione
del giudizio di merito.
Il giudicante, infatti, deve valutare la richiesta
nel suo intimo sinallagma con l’esito del processo, prima ancora che questo
venga celebrato.
Va detto, inoltre, che la questione è del tutto diversa da
quella che si può prospettare in sede di udienza preliminare con il ricorso
all’art. 422 co. 1° c.p.p..
In tale caso il legislatore ha usato quanto meno
una formula meno ipocrita, sancendo come le prove a discarico debbano sortire,
per la loro decisività, la conseguenza di un proscioglimento
dell’imputato.
La finalizzazione ad una sentenza ex art. 425 c.p.p., non è,
inoltre, elemento pregiudizievole, posto che l’udienza preliminare si pone come
fase di filtro, non essendo nè decisoria, né risolutiva del primo grado di
giurisdizione, e presupponendo una fase dibattimentale successiva.
Inoltre,
l’art. 495 co. 2° c.p.p. riconosce un vero e proprio diritto all’ammissione
della prova a discarico in sede dibattimentale, fermi i limiti già
esposti.
Non si comprende, pertanto, perché il legislatore del 1999, abbia,
poi, compresso l’esercizio del diritto del difendersi provando, pur prevedendo,
nell’ambito di un giudizio nato con la caratteristica della totale ablazione del
diritto alla prova, una nuova formula che dovrebbe escludere, in pratica, tale
effetto pregiudizievole la difesa dell’imputato.
Si deve, infatti, avere il
coraggio di ammettere che il rito introdotto con la legge Carotti, altro non è
che una forma particolare di dibattimento, celebrato alla udienza preliminare
dinanzi al G.U.P..
Che senso avrebbe, sennò, riconoscere all’imputato il
diritto di richiedere prove a discarico, già in questa sede?
Il criterio
discretivo di ammissibilità della prova non può, pertanto, risultare diverso tra
rito ex art. 438 co. 5° c.p.p. e dibattimento.
Né può sostenersi che
l’adozione del rito alternativo condizionato determini, in capo all’imputato,
l’accettazione di una notevole contrazione dei propri diritti alla
difesa.
Tale osservazione poteva valere in relazione al giudizio abbreviato
“classico”, cioè ad un giudizio che veniva svolto (e viene svolto tuttora) su
mera basi documentale.
Se è vero, però, che la riforma ha previsto una
disposizione legislativa quale l’art. 441 co. 5° c.p.p., munendo il giudicante
del potere integrativo, ecco dimostrato che l’elemento prevalente introdotto con
la riforma del giudizio abbreviato, attiene, comunque, all’assunzione di
qualsivoglia elemento che possa portare alla verità.
Il principio
dell’accertamento dei fatti assume, pertanto, un valore del tutto prioritario,
anche rispetto alla struttura del rito. Concludendo, pare emergere un contrasto
palese fra il dictum dell’art. 438 co. 5° c.p.p., le norme costituzionali
portate dagli artt. 3 e 24, nonché le norme processualpenalistiche
richiamate.
E’ auspicabile, quindi, che la questione vada devoluta all’esame
del giudice delle leggi, anche sul piano squisitamente
interpretativo.
2) SI PUO’ RITENERE ILLEGITTIMO L’ART. 34 C.P.P. PER CONTRASTO CON GLI ARTT. 24, 25, 3 COST. NELLA PARTE IN CUI NON PREVEDE L’INCOMPATIBILITA’ A PARTECIPARE AL GIUDIZIO ABBREVIATO DEL GIUDICE CHE ABBIA RIGETTATO LA RICHIESTA DI GIUDIZIO ABBREVIATO CONDIZIONATO?
Il giudice cui viene sottoposta una richiesta di giudizio
abbreviato condizionato, deve dare luogo, come si è avuto modo di rilevare, alla
stregua della normativa vigente, ad una preliminare delibazione di atti
processuali, operando, quindi, in tal modo una valutazione delle risultanze di
indagine ed una preventiva comparazione fra gli elementi dell’accusa e quelli
della difesa.
Il giudice, quindi, in forza del disposto dell’art. 438 co. 5°
c.p.p., non solo è chiamato – come si è detto – a conoscere le risultanze degli
atti di indagine (condotta, peraltro, insuscettibile di censura, alla stregua
della ratio del giudizio abbreviato, che presuppone tale cognizione), ma deve
bilanciare tra loro gli elementi assunti nel corso delle indagini preliminari,
rispetto a quelli di cui la difesa chiede l’assunzione, nell’ottica della
decisione da prendere, cioè del giudizio definitorio il grado.
Tale
valutazione può comportare, a pensiero di chi scrive, una causa di
incompatibilità ex art. 34 c.p.p., o meglio dovrebbe comportare una causa di
incompatibilità secondo tale norma.
Poiché le richieste previste dall’art.
438 co. 5° c.p.p., appaiono, quale facoltà ad esclusivo appannaggio della
difesa, siccome strumento, previsto in linea teorica, per poter allargare
l’assetto probatorio, in base al quale il giudice del rito abbreviato possa
decidere, è evidente che la difesa usualmente viene determinata a ciò dalla
necessità:
1) di controbilanciare e contraddire gli elementi
accusatori;
2) di dimostrare, comunque, la non colpevolezza o la non
imputabilità dell’imputato, oppure la sussistenza di circostanze attenuatrici la
eventuale responsabilità penale dell’inquisito.
Consegue, pertanto, da quanto sopra, l’ovvia osservazione
che se il giudice viene chiamato, allo scopo descritto, a valutare
preventivamente le stesse e ricusi la loro ammissione, si venga a creare un
evidente implicito, quanto dovuto, pre-giudizio che riverbera effetti indubbi
sul prosieguo del processo, posto che le stesse non vengono in alcun modo
ritenute utili e, soprattutto, necessarie, per la decisione da prendere.
E’
palese che una negativa valutazione delle prove richieste dalla difesa, penetra
il merito della vicenda processuale e si pone quale indebito prius logico,
rispetto alla celebrazione del processo con il rito abbreviato.
Essa,
infatti, si risolve, in pari tempo, in un apprezzamento degli elementi
accusatori, ritenuti intangibili ed esaustivi, e coinvolge la loro idoneità a
permettere una pronunzia di responsabilità penale in capo all’imputato, in
relazione alla res iudicanda.
Laddove il decisum del provvedimento del
giudice postuli una valutazione non di mera legittimità, ma anche di merito,
fondata sulle risultanze degli atti, presupposto del provvedimento è, quindi, un
esame, appunto, di merito, concernente sia l'inesistenza delle condizioni
legittimanti la sussistenza della “necessità a fini di decisione”, della
prova, sia la congruenza del reato oggetto della richiesta alle risultanze delle
indagini preliminari.
Si tratta, perciò, di una valutazione "non formale, ma di
contenuto" circa l'idoneità delle risultanze delle indagini preliminari a
fondare un giudizio di responsabilità dell'imputato.
Deve, pertanto,
riconoscersi che sussistono in tal caso ragioni di incompatibilità rispetto al
giudizio dibattimentale omologhe a quelle già considerate dalla Corte
Costituzionale nelle sentenze nn. 496 del 1990 e 502 del 1991 (par. 3.1).
Già con sentenza n. 186 del 22.4.1992 il giudice delle
leggi, respingendo una questione di legittimità del medesimo art. 34, secondo
comma, proposta dal Pretore di Urbino (r.o. n. 714/1991) per la mancata
previsione dell'incompatibilità a celebrare il giudizio dibattimentale di chi,
quale giudice per le indagini preliminari, abbia respinto la richiesta di
giudizio abbreviato - avanzata, nella specie, da uno dei tre imputati - per la
ritenuta impossibilità di decidere allo stato degli atti, sancì la rilevanza
costituzionale del principio non già della mera conoscenza, quanto della
delibazione anticipata di merito.
Ad avviso del rimettente si affermava la
violazione, in tal caso, in ragione della previa conoscenza - preclusa al
giudice dibattimentale - degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico
ministero, il principio di "terzietà" di detto giudice desumibile dalle
direttive di cui all'art. 2 della legge delega n. 81 del 1987 e, quindi, gli
artt. 76 e 77, nonchè l'art. 25 della Costituzione. La questione non fu ritenuta
fondata.
La Corte, infatti, aveva già chiarito, nella sentenza n. 124 del
1992, che non la mera conoscenza degli atti, ma una valutazione di merito circa
l'idoneità delle risultanze delle indagini preliminari a fondare un giudizio di
responsabilità dell'imputato, vale a radicare l'incompatibilità.
Tale
principio è stato recepito nelle ipotesi (non di inammissibilità), ma di rigetto
della richiesta di applicazione di pena concordata, dato che essa comporta,
quanto meno, una valutazione negativa circa l'esistenza delle condizioni
legittimanti il proscioglimento ex art. 129 cod. proc. pen. e circa la
congruenza alle suddette risultanze della qualificazione giuridica del fatto e/o
delle circostanze ritenute nella richiesta.
La valutazione che può venir
effettuata in concreto, ove si verifichi la descritta situazione, è analoga alla
comparazione che si effettua tra attenuanti e aggravanti, cioè si tratta al fine
della decisione da prendere, di esaminare compiutamente con un indebito giudizio
ex ante la prevalenza degli elementi precostituiti (e contenuti nel fascicolo
del P.M.), rapportandoli a quelli offerti a contrasto dalla difesa.
Si tratta
di un anticipato giudizio nel giudizio di merito, con evidenti
conseguenze.
Si ritiene, pertanto, che male non sarebbe che anche questo
aspetto del problema fosse sottoposto al giudizio della Corte
Costituzionale.
[1] Cfr. Corte Cost. N. 66 8.2.1990
[2] Corte Cost. sent. N. 81 del 15.1.1991