Un altro diritto per i soggetti deboli

L’amministrazione di sostegno e la vita di tutti i giorni
 
di Paolo Cendon

 

 

SOMMARIO 1.  Contributi della scuola genovese alla protezione degli infermi di mente - 1.1.  Il convegno di Trieste -  2. Paternità dell’amministrazione di sostegno  - 3. Tappe del cammino -   3.1.  Lieto fine -  4. Passaggi essenziali  -  5.  Incontri, seminari -  6. La parte alta delle locandine -  7. Notai e avvocati -  8. Voci dal  territorio  - 9.  I   giudici  tutelari   - 10. Operatori, volontariato  - 11. Riforme mancate  -  11.1.  Testamento e donazioni  -  12. Amministrazione di sostegno e  approccio esistenzialista -  12.1. Quotidianità e responsabilità  - 13. Nuovo linguaggio, angeli custodi -  13.1. Tentazioni   neo-manicomiali - 14. Il fondale delle grandi riforme  -   15. Nozione di  “persone deboli” -  15.1. Carenze dei Servizi sociosanitari -  16. Dall’alto, dal basso - 16.1.  Mancata segnalazione al giudice  e responsabilità civile - 17. L’idea di “salute” nelle impostazioni dell’O.M.S. -  18. Paese che vai Tribunale che trovi -  19. Mai interdire,  possibilmente - 19.1.  Eccezioni - 19.2.  Perché la mancata abolizione - 19.3. Addolcimenti trascurabili - 19.4.  Empirismo, duttilità, - 20. Riluttanze dei Servizi: il problema della pubblicità nei registri – 21.  Un tavolo di lavoro istituzionale - 22. Sostenere senza  (necessariamente) incapacitare  - 22.1.  Tante  “procure vigilate”  - 23. L’immagine trainante

 

 

1. Contributi  della scuola genovese alla protezione degli infermi di mente

 

Vorrei sottolineare,  in apertura,  l’importanza del ruolo svolto da Giovanna Visintini, fin dagli anni ’80,   per l’affermarsi di una nuova sensibilità  quanto ai  rapporti  tra infermità psichica e diritto privato, in Italia.

Non sono pochi in verità i  riconoscimenti da tributare, su  questi argomenti,   agli studiosi  - anche cioè ai penalisti, ai medici legali, agli studiosi di antropologia criminale (oltre che ai civilisti) -  di Genova nel suo insieme. E’  nella città  della lanterna che sono stati messi a punto, in  passato,  alcuni  fra i  più significativi contributi  circa i diritti soggettivi  dei disabili psichici “deistituzionalizzati”.

Una dimostrazione di civiltà e di maturità che è iniziata, ricordiamo,  già a ridosso dell’approvazione della l.  180. Basterebbe menzionare, nell’ambito del diritto civile,  alcuni  scritti di Guido Alpa e di  Massimo Dogliotti, all’incirca vent’anni fa; oppure certe prese di posizione di Tullio Bandini (da sempre favorevole a una modifica, attenta e sostanziosa, per gli istituti tradizionali di “protezione stabilizzata”).  L’abolizione ufficiale dei manicomi era ancora cosa  recentissima.

L’apporto scientifico di Giovanna Visintini è stato  prezioso, in particolare,  per   il diffondersi   di nuove linee di lettura  in merito a un  settore centrale della materia, quello della nozione di capacità/incapacità  d’agire,  e dei suoi rapporti generali con l’infermità di mente.

Sin dai primi anni Ottanta -  tempi in cui  io, personalmente, non avevo ancora riflettuto seriamente sui risvolti inerenti  al c.d. “lato attivo” dell’infermo di mente (mi occupavo allora del “prezzo della follia”: l’essere umano come bersaglio di  aggressioni ingiuste, dolose o colpose, non necessariamente dirette contro l’integrità fisica della vittima, e   destinate  prima o poi a produrre,   come risultato, l’insorgere nel destinatario di malesseri più o meno gravi  di carattere psichico) -  sin da allora fu Giovanna  a rimarcare con energia, nell’ambiente italiano,  la necessità che  venissero  messe in  seria discussione le impostazioni  risalenti,  in punto di nessi  e corrispondenze tra “disturbi psichici” e “incapacità legale”.

Si organizzarono a tal fine  -  talvolta con la partecipazione del suo illustre padre (il prof. Fabio Visintini) -    vari seminari interdisciplinari di studio. Fra le riunioni più riuscite,  ne ricordo alcune tenute nell’accogliente e ombreggiato giardino di casa Visintini, a Tuscolano  sul  lago di Garda.

 

1.1.  Il convegno di Trieste

 

Fu  ben presto palese, in quelle occasioni,  il grado di   sintonia emotivo/culturale  – per un verso preesistente, e collaudata, per l’altro sempre più viva nel corso delle discussioni -    fra il gruppo degli psichiatri e quello dei giuristi.

Per meglio dire:   intese e consonanze fra  una serie di terapeuti dei centri italiani di igiene mentale, non soltanto di Trieste,  e  taluni fra i nostri studiosi di diritto privato. In special modo,  affinità fra il linguaggio parlato dagli  “eredi” di  Franco  Basaglia (A.Pirella, F.Rotelli, P.Dell’Acqua,  tanti altri)  e gli orizzonti che erano propri di alcuni civilisti italiani (già in passato A. Falzea, poi P.Rescigno e  P.Perlingieri, più tardi scrittori come L.Bruscuglia  e R.Pescara).

E’  questo  - aggiungerei – l’humus  in cui verranno delineandosi   le premesse di un evento che sarebbe stato,  altrimenti,  difficile da realizzare; e mi  riferisco al (progetto di) Convegno triestino sull’infermità psichica  che  si terrà poi,  nel  1986,  “Un altro diritto per il malato di mente. Esperienze  e soggetti della trasformazione” (v. anche infra, § 3 e § 19). Incontro cui  ebbe a partecipare, come  molti ricorderanno, il fior fiore della civilistica italiana di quegli anni, insieme a politici, medici, giornalisti,  importanti  maitres à  penser,  esperti e docenti  di vari comparti.

In tal senso, non posso dire di considerarmi addirittura il “padre”, come  ogni tanto qualcuno sostiene,   della legge sulla amministrazione di sostegno. Il mio ruolo è stato, più che altro, quello di un assemblatore di idee e di testi, italiani ed europei (infra, § 19.2.), una sorta di paziente scrivano/collettore  -  quello cui  toccava (anche per ripagare il fervore che tanti illustri maestri avevano dimostrato venendo a Trieste, a discutere di temi  tutto sommato inconsueti e non proprio facilissimi)  di  verbalizzare   le suggestioni  emerse, via via, nei dibattiti e negli scritti  precedenti.

 

 

2. Paternità dell’amministrazione di sostegno

 

        D’altra parte, sarebbe  impossibile concepirsi come  genitore - nientemeno -  della legge sull’A.d.S., nel momento in cui si interviene  (in cui si è consapevoli di aver preso parte fin dall’inizio) a  tantissimi incontri di tipo interdisciplinare. Più ampiamente, a  innumerevoli appuntamenti e scambi d’opinione, per vent’anni di fila,   con le famiglie dei malati di mente, con psichiatri e infermieri dei  Servizi sociosanitari,  con gli amministratori pubblici, con i disabili in prima persona, col mondo del volontariato, con le cooperative di solidarietà.

Occasioni che sono state,  ripeto,  assai copiose nel corso di questi  ultimi decenni, infittendosi sempre più dopo la fine degli anni ’80.

Viene da richiamare - anche se il gioco delle parti non è  ovviamente paragonabile -     quello che, secondo una diffusa “leggenda metropolitana”,  avrebbe affermato Pablo Picasso dopo avere   dipinto il quadro  Guernica (la cittadina basca  bombardata dagli aerei nazisti durante  la guerra spagnola degli anni  ’30). Nello studio del pittore spagnolo, a Parigi, era  entrato a un certo punto un ufficiale nazista,  il quale scorgendo il grande  e rivoluzionario dipinto, da poco ultimato, aveva/avrebbe  chiesto minacciosamente  a  Picasso: “Siete voi che avete fatto questo?”; e quest’ultimo “No, siete voi che avete fatto questo!”.

Lo stesso potremmo forse  ripetere -   fatte le debite proporzioni (e al di là, beninteso, di qualsiasi minacciosità di tono) -  con riguardo al caso oggi in esame.

Anche  a me cioè – allorché, durante gli incontri con gli psicoterapeuti, con i Servizi sociali, con le associazioni,   capita che qualcuno degli astanti  sollevi l’interrogativo: “Siete stati  voi (del Dipartimento giuridico di Trieste) a redigere il testo di  questa legge?” -  viene spontaneo rispondere: “Non noi; siete voi  piuttosto che avete fatto questo”. E così direi che  è andata,  in effetti. Sono gli uomini della 180,  se vogliamo usare questa espressione,  i quali hanno  aperto, non solo sul terreno della  medicina sociale,  la strada contro le rigidità omologanti e custodialistiche del passato.

 E’ il gruppo di quegli anni che ha dissodato il terreno, per tutti  quanti gli interpreti, di ogni disciplina, pronunciato  dal fondo del palcoscenico i “no” e i “sì” più importanti,  anche rispetto ai menu al civilista. Orientando dall’alto l’impianto e l’atmosfera complessiva della riforma di cui ora discorriamo.

Nei suoi passaggi così  duttili,  aperti alla varietà dei possibili impacci,  non solo biologici,   per l’essere umano; nel continuo riferimento a (tipologie di) misure  di salvaguardia ben lontane dalle compiaciute,    spesso  miopi  geometrie del codice civile del ‘42. Nell’attenzione  per i mutevoli risvolti e le infinite sfumature delle soluzioni  cui far capo, operativamente;  nello scandire ad  ogni riga uno stile  (paradigmatico) circa il  modo di impostare, in generale,  pacchetti di riforma e interventi  di settore riguardo alle persone sfortunate. In tutto ciò, il provvedimento legislativo  di oggi tradisce nient’altro che i passaggi  del confronto (ininterrotto) svoltosi durante la discussione precedente,   i bagni innumerevoli nel “sociale”.

L’avvento della piccola/grande novella del 2004 si deve anzitutto alla ricchezza degli incontri - contagiosi, illuminanti -  con i malati di mente e  con le loro famiglie, con i Servizi socio-sanitari, all’interno e all’esterno  dei Centri di salute mentale.

 

 

        3.  Tappe del cammino

        Certo il  percorso  è stato lungo. Che il  nostro parlamento riuscisse a completare l’iter  legislativo -   il voto favorevole della Camera si è avuto il 15 ottobre 2003, quello del Senato il 22 dicembre dello stesso anno;  la pubblicazione sulla G.U. è avvenuta il 9 gennaio 2004 -    era  apparso  in verità sempre meno probabile,    via via che il tempo passava, durante i  primi dieci  mesi del 2003. Tutto anche stavolta, dopo  un esordio  promettente (di due anni prima il rilancio solenne del progetto, con un recupero al Senato del testo già accolto nella precedente legislazione),  sembrava destinato a sfumare nel nulla; il   solito  copione di speranze  e delusioni alternate,  tante volte sperimentato negli ultimi  lustri.

In particolare.

(α)  Ad ogni debutto di legislatura  -  subito dopo le elezioni politiche - l’avvio di congrue iniziative  di riforma,  in  materia di  salvaguardia  civilistica degli infermi psichici.

 Proposte avanzate da singoli parlamentari oppure  da gruppi interi, alla Camera o   al Senato;   testi vecchi,  nuovi o rifatti,   più o meno complessi e  trasversali come provenienza partitica. Disegni promossi, talora, pure a livello di Governo, già alle riunioni d’esordio del Consiglio dei Ministri; qualche volta, l’approvazione ufficiale ad opera di un ramo del Parlamento.

(β) Come riflesso di   ciò,  nel tessuto diffuso della “società civile”  -  soprattutto presso le  famiglie dei disabili, tra le associazioni di settore, nei giri del volontariato; un po’  anche fra gli operatori socio-sanitari,  presso i   giudici addetti ai lavori, tra gli studiosi di “debolologia” (ambito nel quale il  cammino di riforma era iniziato;  la  redazione della  bozza originaria, come s’è detto,  aveva avuto luogo  a Trieste,  durante l’estate/autunno  del 1986, al termine di un convegno di tre giorni, largamente interdisciplinare, incentrato   sui rapporti  fra psichiatria e diritto privato: retro, § 1.1) -   un crescente  dispiegarsi  di appelli e sollecitazioni, nei confronti del Parlamento o del Governo.

 Raccolte di firme,  delegazioni di utenti alle volte della capitale. Mozioni congressuali fatte girare in ogni sede, udienze conoscitive a Roma,  fax e messaggi di posta elettronica a raffica. 

(γ)   Da un certo momento in poi  (contro ogni aspettativa,  senza troppe spiegazioni)  un calo visibile di atmosfera e di fervore - a livello politico, comunicativo, sul terreno ufficiale delle istituzioni. Impegni rallentati all’improvviso in  Parlamento,  disinteresse progressivo nel governo: rinvii continui del dibattito, ordini del giorno rovesciati all’ultimo momento, sedute a vuoto o inconcludenti.

Emendamenti presentati non si sa se per migliorare il testo o per seppellirlo,  vanità di parlamentari/giudici non adeguatamente rintuzzate dalle presidenze. Relatori  della legge reticenti o introvabili, stagnazioni  nelle varie commissioni, black-out generale.  

 

 

3.1.             Lieto fine

 

Stavolta è andata in maniera diversa -   il  “bene” è riuscito,  un po’  miracolosamente, a  prevalere. 

Il ruolino di marcia di un fronte (culturale e parlamentare)   da  tempo bipartisan e ormai  concorde circa  i  vari  aspetti del provvedimento,  subirà intoppi bensì nel  corso del 2003, ma   per  non più di qualche mese. Sventato in particolare il  pericolo -  che si era annunciato a un certo punto,  una volta emersa  la scarsa plausibilità di una riforma a costo zero -     di una rimessione dell’intero  pacchetto in aula, alla Camera:  con correlative possibilità di stravolgimenti nel testo,   e con   rischi di  progressivo  oblio e impaludamento.

 Circostanze di varia natura, tra cui la fermezza di alcuni parlamentari, il prestigio dei modelli europei all’intorno, la coincidenza dell’anno del disabile, le incessanti pressioni a Roma dei gruppi del volontariato, un paio di colpi di fortuna nel calendario dei lavori, sono valsi durante l’autunno/inverno del 2003 a  spianare (accanto ad altri fattori propizi) la strada del successo conclusivo.

 

 

  1. Passaggi essenziali

 

Chi dubiti   che l’Amministrazione di sostegno sia divenuta, oggigiorno, legge  ufficiale dello Stato (e  un pizzico  d’incredulità non sarebbe  fuori luogo, dopo tante incertezze e dilazioni)    non avrà che da aprire il   testo  del codice civile  -  poco importa sotto quale veste  grafica; purché si tratti dell’ultima  edizione,   quale  apparsa in libreria nel 2004 (e annate successive).

Non è più  come nell’anno precedente - qualcosa è cambiato davvero nel  corpo del  1°  libro del c.c. All’art.  404 e ss.  non corrisponde più  una serie  di recipienti numerici vuoti, privi di sostanza  normativa: siamo dinanzi, ormai,  a un  susseguirsi di   rubriche  e  di prescrizioni di legge  in senso  proprio -    disposizioni brevi, medie e lunghe; di tenore  più generale o  più specifico; precettivamente autosufficienti o  con   rinvii ad altre norme  del c.c.  -  ciascuna rivolta  all’illustrazione dei  momenti  disciplinari  del neo-istituto.

In particolare.

 All’art. 404  vengono   enunciati  i principi cardine della  riforma: dinanzi a una “infermità” o ad “una menomazione fisica o psichica” -   che sia tale da causare l’ “impossibilità, anche parziale e temporanea, di provvedere ai propri interessi” -  la persona sofferente potrà “essere assistita da un amministratore di sostegno”. 

L’art. 405  si sofferma su alcuni  aspetti  di natura procedimentale. Il giudice tutelare deve provvedere entro sessanta giorni  dalla data del ricorso, e la decisione avverrà con “decreto motivato immediatamente esecutivo”: potranno adottarsi anche d’ufficio provvedimenti urgenti, di natura personale o patrimoniale;  sarà possibile far luogo alla nomina di un amministratore provvisorio. Infine,  l’indicazione di ciò che il decreto di nomina dell’amministratore deve, di regola,  contenere -  con    precisazioni  varie circa i profili  pubblicitari dell’atto.

 Nell’art. 406  viene indicato quali siano i soggetti abilitati a proporre il ricorso:  l’interessato stesso, le  varie figure  di cui all’art. 417 c.c.,   più i responsabili dei servizi sociosanitari. L’art. 407 indugia, subito dopo,  su   taluni  passaggi di natura procedurale e istruttoria:  contenuto necessario del ricorso,  colloquio  diretto fra giudice  e persona interessata, eventuali attività volte ad assumere informazioni, decisioni che possono assumersi anche d’ufficio dal g.t., partecipazione del pubblico ministero. 

La norma successiva fissa i criteri da seguire per la scelta dell’amministratore: possibilità di designazione (formalizzata)   - anche in via preventiva -  ad opera del   soggetto bisognoso; conferibilità dell’incarico da parte del g.t. ai familiari più stretti, compresi quelli di fatto, oppure a colui che sia stato indicato dal genitore superstite;   eventualmente ad altri soggetti (non però agli operatori sociali  che siano coinvolti direttamente  nella cura  dell’interessato),  magari a una persona giuridica.

 Segue  l’ art. 409 -  intitolato agli effetti dell’amministrazione di sostegno – ove  si      precisa che  il beneficiario conserverà   in linea di principio la capacità d’agire,  specificando come  ciò sia destinato a valere, senza eccezioni, per quanto concerne gli atti della vita quotidiana.

L’art. 410  tratta dei doveri  gravanti sull’amministratore. Necessità che costui tenga, in particolare, conto dei “bisogni” e delle “aspirazioni” dell’interessato;  obblighi  di informazione circa gli atti da compiere,    e ciò tanto   nei confronti del beneficiario, quanto  (in ipotesi di dissenso) verso il giudice tutelare. La norma stabilisce che sarà  quest’ultimo -   nell’eventualità di  dissidi, errori, inerzie dannose, etc.  -  ad adottare  gli opportuni provvedimenti.

 L’art. 411 elenca  poi quali regole,  fra quelle dettate in tema di tutela dei minori,  siano applicabili all’amministrazione di sostegno; e altri rimandi  hanno per oggetto, subito dopo,   disposizioni  varie in tema di testamento o di donazione. Segue  una clausola di vasto respiro,  nell’ultimo comma,   che riserva  al g.t. il potere di estendere  al caso considerato – ogniqualvolta ciò appaia opportuno -  taluni  “effetti, limitazioni o decadenze” di cui alla normativa sull’interdizione  e inabilitazione.

Ecco  ancora  l’art. 412, con le disposizioni inerenti alla patologia negoziale: annullabilità, in particolare,  degli atti  che siano stati compiuti  - dall’amministratore -  in violazione di legge, o in eccesso rispetto ai poteri conferiti dal giudice; soluzione  non diversa relativamente agli atti  che vengano posti in essere  - dal beneficiario -  in contrasto con  quanto stabilito nel decreto del g.t. Termine per l’azione:  cinque anni, in ambedue  le ipotesi,  con decorrenza   dal momento in cui il regime di amministrazione di sostegno sarà cessato.

Infine  l’art. 413, che fissa la disciplina concernente  la revoca dell’amministrazione di sostegno, nonché le regole in tema di  sostituzione dell’amministratore: possibilità rimesse entrambe - dietro istanza del beneficiario o di altri soggetti, e dopo le correlative istruttorie  - alle valutazioni del g.t., il quale  potrà provvedere anche d’ufficio.

 

 

5. Incontri, seminari 

 

Una trama  di disposizioni assai  ricca,  come si vede,  punteggiata   di motivi ambiziosi,   fortemente innovativa rispetto all’impianto ereditato dal 1942.

  Né  - occorre dire - è soltanto un fatto   di evidenza letterale,  sul terreno positivo o  cartaceo. Anche a tener conto delle impressioni  che il provvedimento è venuto  suscitando, presso la “pubblica opinione”,   a partire   dal momento dell’approvazione, il consuntivo appare incoraggiante.

Un primo segnale,   in proposito,  di natura organizzativo/culturale: il  bilancio dei convegni  e seminari che sono  stati promossi in Italia, dall’inizio del 2004, a scopo di presa di confidenza e ricognizione/esegesi orientativa circa  il  neo-istituto.

E’ sintomatico in effetti   il  confronto tra  (a)   l’accoglienza  -  viva, interessata   – che risulta tributata all’amministrazione di sostegno, in molte  fra le zone geografiche del paese   e  (b)  le reazioni  che solleva d’abitudine, presso i cittadini, l’apparire di una nuova legge (la collettività ben poco  se ne accorge, alle tavole rotonde   i relatori sono spesso  più del pubblico).

Né  è appena  questione di conteggi quantitativi, di raffronti  tra sedie vuote e piene in sala. Il punto,  ben più  significativamente, sono le  caratteristiche  strutturali/qualitative degli incontri di studio che si sono tenuti, fin qui,    intorno alla neo-figura codicistica.

Vale a dire: tanti  qua  e là  gli appuntamenti, folto (o straboccante) il pubblico, numerose di regola le autorità presenti; e soprattutto   però: 

(i)    assai composito,  nella maggioranza  dei casi,  il ventaglio degli enti e dei soggetti che volta per  volta - in riunioni di studio  indette separatamente,  nella stessa città;  oppure, attraverso incontri  promossi  una tantum da un insieme congiunto di presenze  - figurano avere assunto la veste di   organizzatori;

(ii)   non meno vario, abitualmente, il quadro delle relazioni  previste nelle locandine, ossia  la rosa degli uffici, delle discipline  e delle competenze  che –  specialmente nella seconda  ipotesi (più iniziative   in una medesima città, durante la stessa stagione); spesso però anche nel primo caso (un unico evento convegnistico nella zona, tutti  quanti insieme allora) – appaiono chiamati a  intervenire sul  tema.

 

 

6. La parte alta delle locandine

 

Accenti  di vario genere,  che si susseguono via via alla tribuna.

(I) Parlamentari, anzitutto. Ossia senatori e deputati  prodigatisi, secondo i casi,    a seguire i  lavori preparatori fin dall’inizio;  a sottoscrivere personalmente le proposte, ad assumere  talvolta le funzioni di relatori in commissione. E che illustrano  man mano,  a chi ascolta, quali  fossero i materiali di partenza, che tipo di orientamenti abbia guidato la rifinitura dei testi;  ripercorrendo minutamente l’alternarsi delle strategie in sede politica, l’apporto degli alleati  aggiuntisi durante il  tragitto, il perché delle  legislature giunte al termine senza un nulla di fatto  - e poi   la natura degli scogli  più insidiosi,  affiorati lungo il percorso,  gli  emendamenti  cui ci si è dovuti rassegnare, i ritocchi  invece più  opportuni e indovinati, che cosa si è perduto   e   che cosa guadagnato nell’insieme. E così avanti.

 (II) Professori di diritto, in secondo luogo -  civile e processuale soprattutto.  I quali non mancano (neanche gli autori più inclini a  scorgere  nel  neo-istituto qualcosa di “politico”; un prodotto calato  un po’ dall’alto, frutto di compromessi vari, con qualche pecca sul terreno  dogmatico) di esprimere  apprezzamenti intorno a molte fra le scelte compiute dal legislatore.

 Il tenore della dichiarazione generale d’intenti, ad esempio ( “…tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire …”):   la decisione di esplicitarla a chiare lettere, in un passaggio all’inizio  dell’articolato; la modifica adottata per la rubrica del titolo XII del primo libro, più ampiamente il sistema delle legittimazioni e dei poteri attribuiti al beneficiario.  O, ancora, l’addolcimento  delle regole in materia d’interdizione (infra,   §  19.3), la sottolineatura circa gli  scambi di binari  tra le varie alternative, l’insistenza su alcuni doveri di fondo dell’amministratore, la duttilità complessiva dell’impianto apprestato. Si potrebbe continuare  a lungo.

(III)  Docenti di altre discipline,   inoltre,   dentro e fuori il  settore giuridico.

 Psichiatri e medici legali, in primo luogo. I quali si prodigano  nel rimarcare la vetustà/inadeguatezza delle impostazioni in tema di infermità mentale, dominanti presso il  legislatore del ’42;   così come  attestate dalle risposte stesse del codice.

In particolare, la visione  di un’umanità spezzata in due   tronconi  netti  -    i capaci da una parte e   gli  incapaci dall’altra,   i sani di mente di qua e i “matti” di là.

Relazioni che non  mancano, subito dopo, di evidenziare (non senza compiacimento)  la ben maggiore sintonia ravvisabile fra le  linee  del  neo-modello  codicistico e, dall’altro canto,  la  sistematica  del linguaggio istituzionale  e degli  approcci   - tanto più articolati nella nomenclatura, fluidi tra casella e casella, amanti dei larghi orizzonti, curiosi di ogni distinzione, alieni  da ogni forma di manicheismo – che si ritrovano nelle scienze  mediche  e naturali  interessate,  oggigiorno, ai problemi del   disagio  psichico.

(IV) Luminari di neurologia,   di geriatria, di traumatologia, di immunologia, di medicina generale, ancora.  Studiosi  i quali non esitano a   proclamarsi, anzitutto,   sorpresi (felicemente) dalle caratteristiche di apertura ricognitiva, di morbidezza,  di sapienza metodologica proprie della riforma del 2003;   pronti a enfatizzare, per parte loro,   i risvolti  empatico/grammaticali   di  tutto ciò rispetto ai settori specifici di competenza. 

Scienziati  il cui contributo alla discussione culmina proprio,  non di rado, nella fornitura di un inventario a tutto campo,  in merito alle  forme  vecchie e  nuove di fragilità  umana  - ad es., sofferenti del morbo di Alzheimer, sclerotici, dementi senili, traumatizzati vari, leucemici, grandi invalidi, spastici, epilettici, persone con tic significativi, anoressici, bulimici gravi, malati terminali, autistici leggeri, oligofrenici, vittime di ictus grandi e piccoli, parkinsoniani, dializzati, portatori di handicap sensoriali, grandi incidentati, e così via  (v. anche infra,  § 17) -   che  non avrebbero in linea di principio,  poiché non tali da attingere soglie  di  infermità mentale abbastanza estreme, potuto ambire a nessun tipo di difesa stabilizzata, sotto il vecchio regime  (pur essendo le vittime dei correlativi disturbi impossibilitate,   via via,  a fronteggiare  adeguatamente  tutta una serie di  emergenze). 

(V) Ancora:  sociologi, antropologi, esperti della devianza, fenomenologi, psicologi. In genere cultori delle  scienze umane e sociali: un universo  disciplinare dove  a  spingere chi parla verso  conclusioni non dissimili (nel raffronto tra   vecchie e   nuove risposte del c.c.) mostra di essere  piuttosto,  ai convegni,  la fedeltà  verso i motivi classici  del “realismo debolo-logico”  -  dunque il conforto per la ben maggiore centralità che risulta accordata,  nella disciplina sull’amministrazione di sostegno, a   stilemi  come quelli della  “quotidianità” e dell’”effettività”.

 Con l’ammonimento  rituale -   rivolto agli operatori chiamati a far camminare la legge, e non meno però ai giuristi legati all’accademia e alla tradizione -    a cimentarsi sempre più in  futuro (piuttosto che negli interrogativi  circa l’esatta   natura  delle sindromi  incontrate) nel censimento delle modalità lungo  cui l’agenda   dell’interessato si svolge/vorrebbe svolgersi, giorno per giorno, lungo i diversi frangenti dell’esistenza.  Ciò che  la persona   “fa” e “non fa”, in particolare,  a paragone di ciò che vorrebbe o che potrebbe -  anche sotto il profilo giuridico (v. anche infra, § 12 e § 19).

Gli studi intrapresi e interrotti, allora, le persone care  e che le rendono visita, le assemblee di condominio, i ratei d’imposta, le riparazioni   indispensabili dell’appartamento; e poi le bollette in scadenza, i rapporti di vicinato, l’abbonamento alla pay tv, le transazioni troppo a lungo rinviate, il cagnolino smarrito da cercare; oppure gli hobby messi da parte sfiduciatamente, le smobilizzazioni  finanziarie,  i conti in rosso,   i sogni perduti, i  lavoretti in nero da riprendere.

 

 

7. Notai e avvocati

 

Il mondo del  notariato, ancora:  la sottolineatura  (e l’encomio) per le regole, dettate in materia di  amministrazione di sostegno;  da cui emergono -    riguardo allo svolgimento della professione in  futuro, entro l’area delle umane debolezze – fondali non più dominati dalla vischiosità, dall’imbarazzo.

La presa d’atto, liberatoria,  della fine di  un certo  passato, di scenari e di contrasti domestici:   non si sa se più ingrati tecnicamente  o più delicati per la coscienza della categoria. Mai  più  - in avvenire - uffici professionali da prestare, senza vie d’uscita  appropriate,  in contesti   di clienti sospesi a mezz’aria fra lucidità e disagio mentale; sullo sfondo di operazioni giuridiche urgenti,  nella cerchia di familiari  magari voraci o indigenti.  Con sottoscrizioni e rogiti tanto essenziali ai fini pratici,  quanto  formalmente arrischiati, impresentabili.

Mai  più, per il notaio,   occhi da tenere  mezzi aperti e mezzi chiusi  - fra protocolli, capezzali, omertà, ufficiali giudiziari, estreme unzioni, verbali di pignoramento, ipocrisie   e stanze d’ospedale -    accanto a psichiatri riluttanti o ammiccanti;   con invalidità negoziali  spesso in agguato, responsabilità disciplinari e civili dietro l’angolo, lacerazioni  fra  buon cuore e prudenza di mestiere.

 

Il punto di vista  degli avvocati, infine. La rassegna (esperienza professionale  alla mano) delle situazioni umane connotate  da  spiccata complessità -  personale, patrimoniale, familiare  -  nell’universo degli svantaggiati. La tendenziale impossibilità,   per   il giudice come per gli assistenti sociali,  di  spingersi  in sede di istruttoria   oltre  certi  livelli di minuziosità tecnica,  di  ponderazione e/o  diplomazia.

L’opportunità, per converso,   di far rifluire quanto più possibile -  del quadro economico, affettivo e sofferenziale dell’interessato -  entro il decreto istitutivo dell’amministrazione, come pure nei provvedimenti successivi:  evitando a chi li emana il disagio di interventi monchi, soprattutto valutazioni  approssimative, destinate spesso a rivelarsi più dannose  che utili.

 La necessità  in definitiva - nonché il suggello  cui pervenire in via di massima,  al di là di  certe evasività della legge -   del  possibile ricorso a un’assistenza legale (pur non obbligatoria, beninteso!),  rispetto a individui del genere. La disponibilità degli avvocati a fornire i correlativi patrocinî,  non importa verso che   tipologie di interessati, dinanzi  a quali grovigli casalinghi.

 L’orgoglio  di categoria per l’importanza/nobiltà delle funzioni assolte così,  in veste  di difensori,  lungo un’inedita frontiera del diritto privato    - tesa a reagire contro  vissuti  di ostracismo e di degrado.

 

 

8.            Voci dal territorio  

 

Notazioni  più auliche, abbiamo detto.

Poi  per l’appunto  (accanto alle sintesi  di maggior respiro,  svolte comunque in chiave  di principio)   gli interventi  operativi/territoriali  nei convegni. Cronache attente al versante gestionale,  rendiconti  legati  ai percorsi caratteristici del circondario;  quelli dell’area in cui si svolge l’incontro,  in parte  i luoghi e le pratiche  di  ogni città e campagna possibile  -  ovunque esistano individui da sottrarre all’emarginazione.

Discorsi  che si ascoltano, d’abitudine, nella seconda parte degli  incontri di studio; personaggi con il  nome  nella parte bassa dei cartelloni, rappresentanti di sigle o di acronimi talvolta oscuri, paesani.

Grana oratoria diversa, allora,  storie di vita vissuta. Esemplificazioni,  note autobiografiche magari,   cenni a metodologie   di lavoro - buone o cattive - sperimentate durante gli ultimi anni (un po’ con tutti i referenti sul campo). Titoli di studio e valenze professionali d’altro genere; minor  familiarità con il microfono (ma non è detto!),  accenti improntati a un senso di  forte immediatezza,  preoccupazioni  circa i risvolti  funzionali  e finanziari della riforma.

 

 

        9.  I   giudici  tutelari  

 

        L’immagine del  presente e del futuro che si fronteggiano, allora;  la consapevolezza del “già fatto” e del “da farsi” giorno per giorno,  come tramiti  inscindibili fra loro.

        L’angolo visuale dei giudici tutelari,  per cominciare -    con  osservazioni  attente quasi sempre sia ai profili di carattere  “generale” (quelle della procedura soprattutto)  sia alle vicende  e agli interscambi  “locali”.

Dichiarazioni di sollievo in primo luogo: elogi per l’ostracismo decretato nel 2003 rispetto a  (ogni  futura necessità di) forzatura applicativa, in merito all’interdizione e dell’inabilitazione. Mai più,   nella prassi degli uffici, sottrazioni di diritti soggettivi come  pedaggio per   l’attribuzione   a qualcuno di una pensione d’invalidità, o quale prezzo per  il riconoscimento di  benefici sul terreno  sanitario –  entro la fascia delle persone   non prive di ombre, sul terreno psichico, ma  in condizioni tutto sommato accettabili.

 Le leggi di settore da riformare o  reinterpretare anch’esse, una per una.

Gli apprezzamenti sul terreno processuale, ancora.  Bene  l’aver puntato   - da parte  del legislatore, rispetto al nuovo istituto -  sul  giudice tutelare quale  figura chiave per la conduzione di ogni fase  del rito  (unica linea rispettosa della vastità della casistica umana, in materia; coerente, d’altronde, con la relativa semplicità amministrativa di tante vicende personali e  con la frequente necessità di scelte rapide, poco costose, deformalizzate: v. anche infra, ). Bene  l’esplicitazione  entro il c.c. di   una serie di decisioni,  attinenti al beneficiario,   quali passaggi  suscettibili di compiersi pure  in via d’ufficio, ad opera del magistrato  - scongiurandosi  altri pericoli   di negligenze e  ritardi.

Bene il non essere più costretti a ricorrere, così, all’una o all’altra delle   scappatoie che mostrano di esser  state coltivate  - negli ultimi decenni, dai  giudici  di varie sedi italiane (sempre  con una certa precarietà)  - al fine di  “proteggere senza interdire” questo o quel disabile.

Ad es.,  la via di cui all’art. 3, 6° comma, della legge 180,  rifluito poi nel 6° comma dell’art. 35 della legge 833/78:  possibilità  per il g.t.,  in caso di necessità, di adottare  i  provvedimenti urgenti  indispensabili per la conservazione e l’amministrazione del patrimonio dell’infermo di mente sottoposto a trattamento obbligatorio. Oppure le strade  poggianti sul richiamo agli artt. 361  (emissione, da parte del g.t., dei “provvedimenti urgenti che possono occorrere per la cura  del minore per conservare e amministrare il patrimonio”), 419  (nomina  di  un tutore provvisorio all’interdicendo o di un curatore provvisorio all’inabilitando) e  424 c.c. (applicabilità all’interdicendo e all’inabilitando delle norme stabilite in materia di  tutela dei minori). 

 Bene  poi  - quanto al secondo profilo,  in  ambito locale -  i consuntivi circa le pratiche di intesa/collaborazione avviate al di fuori del  palazzo di giustizia,   sin dai tempi della  legge 180, con le risorse pubbliche  e private del circondario: centri di salute mentale,  SERT, residenze protette, volontariato, cooperative sociali, etc. Linee di dialogo e confronto da riprendere oggigiorno,   si rileva,    pur al di là dei contesti  di legge sopra menzionati;  e da  approfondire anzi    lungo moduli inediti  di  consultazione e di scambio (infra, § 21),  fra tutti  quanti  gli attori del procedimento - secondo gli espliciti  richiami  della  neo-disciplina del c.c. 

 

 

                10. Operatori, volontariato  

 

        Il comparto sociale  ancora,   le esperienze  e  i promemoria   dei vari protagonisti, individuali e collettivi.

(x)  I servizi psichiatrici delle Aziende Sanitarie Locali  anzitutto. Con due   motivi intrecciati strettamente fra di loro. 

Sotto il profilo disciplinare: la percezione delle concordanze  fra  il verso  lungo cui muove  il lavoro degli operatori,  nei centri di salute mentale,  e il  linguaggio   che pervade complessivamente l’amministrazione di sostegno. I “no”  pronunciati o avvertibili  - su ambedue i crinali -  rispetto alla rigidità delle caselle diagnostiche, nei confronti delle logiche meramente assistenzialistiche. I “sì”  alla valorizzazione del dialogo, del feed-back:,  la scommessa sulle risorse  del self help

 In chiave di politica del diritto, poi: i motivi della    contrattualità  recuperata, della “libertà come terapia”; la bandiera dell’empowerment  per   ogni singola persona, l’accentuata considerazione per  le ricadute di   ogni  assetto civilistico sul terreno della legislazione psichiatrica (infra, § 13).

(y)  Le associazioni dei familiari, i gruppi di volontariato.

Due,  fra i motivi in gioco,  quelli che più spesso affiorano. Esultanze, in primo luogo,  per l’avvenuto ridimensionamento dell’interdizione/inabilitazione -  come uniche vie d’uscita possibili a favore dei non autosufficienti.

Sentimenti, per un verso, alimentati dalla memoria delle tante situazioni di spaccatura fra coscienza di dover fare qualcosa di utile,  a beneficio di un parente in difficoltà ormai maggiorenne,  e paura di una cattiva pubblicità nei registri, di velenosi contraccolpi d’immagine  (infra, § 19). Per l’altro verso, poggianti sul riscontro dei margini di stigmatizzazione  infinitamente minori che appaiono legati, sulla carta, alle nuove risposte (infra, § 23). 

Disponibilità  dichiarata  in secondo luogo, sul piano personale,   quanto alla  futura copertura del ruolo di amministratori di sostegno; orgogliosa consapevolezza, sul terreno “autobiografico”, di una pratica/maturità ben collaudata in tal senso -  unitamente alla coscienza circa la necessità di scongiurare  il rischio di vuoti,  nell’intermedio, al desiderio di riversare sull’istituto un’esperienza talvolta già ricca.

(z)   I servizi assistenziali del comune, ancora.

La  presa d’atto allora, a livello  di “ente  pubblico”,   dell’ingresso dell’amministrazione di sostegno entro l’ordinamento italiano; l’istituzione municipale, sin  dalle prime battute,   non all’oscuro del   valore politico della  posta  in gioco  –   per i cittadini svantaggiati, per i loro parenti,  più ampiamente  per l’intera comunità. 

La consapevolezza degli stretti  rapporti  intercorrenti  fra piano dei “diritti  soggettivi individuali” e piano delle risposte  affidate, in  concreto,  all’opera  dei “servizi sociosanitari”.  L’impegno degli assessorati a  riorganizzare questi ultimi  in vista di una maggior  efficienza e continuità, specie sul fronte dell’assistenza domiciliare.

 L’accettazione  (dichiarata)  della “ sfida” a   fare del governo cittadino il polo trainante,  qui come altrove,    di  un complesso lavoro di coordinamento  amministrativo  - anche nella prospettiva di un riassetto fra i  pubblici settori di assistenza,  così come sollecitati dall’avvento della legge 328.

Le reazioni di tipo “individuale” in secondo luogo -  le modalità con cui i  singoli  addetti ai servizi vivono il superamento dell’interdizione, dal proprio punto di vista. Sentimenti di vario tipo allora; soddisfazione   per un mansionario che  viene (di fatto) ad alleggerirsi  da ogni gravosità e insidiosità burocratica, grazie all’avvento del  nuovo istituto.  Compiacimento per la cessazione  o il rarefarsi  dei presupposti  della negotiorum gestio, nelle agende di lavoro: consolazione per un certo limbo del “non diritto”  che esce di scena,  definitivamente.

Mai più assistenti sociali spinti, dalla necessità e dalla misericordia,    a custodire periodicamente denaro altrui  con dubbie autorizzazioni; a fare acquisti e pagamenti con procure fantasma, etc.  Dileguati  finalmente gli spettri di responsabilità  civile  rispetto a possibili  imputazioni di abuso, nella cura  di  tanti microcosmi -     dinanzi a  eccessi di zelo o a  errori di condotta sempre incombenti.

 

 

11. Riforme mancate

 

Detto ciò,  non va dimenticato -  nel bilancio dei rapporti fra problematiche dell’infermità di mente  e disciplina privatistica -   il vasto capitolo delle perdute occasioni di riforma:  delle materie  che non sono state  cioè,  un po’ improvvidamente, oggetto di alcun ritocco ad opera del legislatore del 2003.

  (a)  Non erano mancati suggerimenti, in particolare,  riguardo alle modifiche da attuare  sul terreno dell’art. 428 c.c.

Ecco invece  un settore  che  è rimasto, alla fine,   esattamente come prima,  ossia uguale  rispetto alla versione del 1942. Con al centro della fattispecie -   per dirla in breve -   non già,  come sarebbe opportuno che fosse, il momento oggettivo della “svantaggiosità” o meno del contratto   per l’incapace;  bensì  il requisito  - doppiamente fuorviante su un terreno di politica del diritto (troppo protettivo  da un lato: con rischi di ostracismo e “ingessamento” preventivo per il disabile; troppo disinvolto da un  altro lato:  con aree di pericolosa scopertura, ad esempio in ordine alla stipulazione dei contratti a distanza) -   della buona o mala fede della controparte.

 (b)  Restano altre questioni statutarie, malaccortamente inevase nel 2003,  di cui non c’è  ora il tempo di parlare approfonditamente -  ma che andranno un giorno pur riprese (v. anche infra, § 19.2).

 Per  esempio, il punto della (necessità di) modifica dell’art. 2046 c.c., in merito ai fatti illeciti posti in essere da un incapace naturale. Come suole  giustamente ripetersi:  un vaso da fiori lasciato cadere sulla testa di un passante,   da un condomino il quale abbia compiuto un gesto irriflessivo sul davanzale, al quinto piano del palazzo,   non farà  più o meno danni,   a pianoterra,  secondo che  vi fosse lassù una persona nel pieno possesso, oppure no, delle sue facoltà mentali.

Stesse considerazioni per quanto concerna (responsabilità soggettiva) le corse e gli investimenti di un coinquilino, lungo le scale di casa; oppure  gli urti e gli spintoni  a un passante su e giù per i ponti di Venezia;  o, piuttosto, il rubinetto della vasca da bagno lasciato aperto per ore,  al piano disopra. O ancora   il lancio a casaccio di un sasso al giardino pubblico,  oltre  la siepe;  magari una sigaretta dimenticata accesa in un bosco (e destinata a non  spegnersi  da sola, anzi!).

 Ed è alla vittima che occorre guardare soprattutto,  nel campo dell’illecito extracontrattuale.

 Detto altrimenti. Preoccuparsi delle difficoltà psichiche del convenuto   può,   in linea di principio,  andare  bene; non, tuttavia, al punto da  escludere ogni possibile   responsabilità   aquiliana.  Al massimo, delle compromissioni  mentali  che il danneggiante accusasse al momento del fatto, si potrà tener conto sul terreno del quantum respondeatur  - in vista di un’attenuazione della somma  da risarcire; secondo una valutazione  svolta  dal giudice in via equitativa, variabile caso per caso.

Senza togliere  però al disabile (ecco il punto) la “proprietà”  e “responsabilità” di quel gesto  - ciò che sarebbe  non di rado controproducente, si è  osservato, pure dal punto di vista terapeutico, ammonitore.

 (c)  Ancora,  restando in ambito di danni,  il nodo della responsabilità contrattuale del malato di mente.

Dopo l’acuta relazione a Trieste di Giovanni Cattaneo, nel 1986, direi che  non  è stato più scritto/prospettato  granché di importante  in proposito; e si tratta, invece, di un segmento rilevante della materia    - a parte le spinte  a domandarsi,   quando si accenna a siffatti capitoli,    come mai non  esista pressoché giurisprudenza in argomento.

Vorrà dire che i sofferenti psichici sono tutti quanti adempienti, puntuali quali debitori contrattuali? Che fanno, non fanno, firmano, consegnano tutto ciò che dovrebbero? Improbabile. Oppure che i portatori di disturbi del genere non esistono più in Italia o che non stipulano mai contratti significativi? Risposte insoddisfacenti anche queste. O non, piuttosto, che tanti creditori esitano a citarli in giudizio? E in tal caso perché?  E dovremo, comunque,  considerare  rassegnazioni del genere come un bene o come un male?

 

 

     11.1.  Testamento e donazioni

 

Altro  nodo non secondario, sotto l’angolatura dello ius condendum: quello dell’opportunità di abbassare, riguardo ad alcuni frangenti negoziali, il tasso di solitudine e  “scopertura” giuridica  nella realtà quotidiana delle persone  (i) afflitte  magari da turbe di tipo mentale, e (ii) non abbastanza malestanti da vedere incrinata  (più di tanto)  la propria capacità naturale -   l’equilibrio della ragione  e dei sentimenti.

Oggi, malgrado la nuova legge sull’amministrazione di sostegno, sono molti i disabili i quali, beneficiarî o meno che siano di qualche “protezione organizzata”,  figurano  lasciati  al proprio destino,  quando ambirebbero (x)  a fare testamento, oppure (y)  a compiere una donazione -   e possono fin dall’inizio supporre che l’atto da essi posto in essere sarà/sarebbe  impugnato, con l’80% di probabilità,  da qualche parente tanto avido di denaro   quanto poco rispettoso,  comprensivo.

Occorreva in proposito immaginare  (e nella bozza  triestina dell’86 si era tentato di farlo)  il  meccanismo di un soccorso protocollare,  ad testandum, prestato  da qualche “microgruppo istituzionale” -    formato, diciamo, da uno psichiatra, da uno psicologo, da un notaio (o figure analoghe).

Un’entità  o un “commando” di consulenza/supporto,  nominato in sede giudiziale, e  capace di aiutare la persona in difficoltà a redigere una specie di testamento pubblico;   ultime volontà che da quel momento   - stante il vaglio e   l’imprimatur  fornito dagli esperti,  circa la sussistenza, nell’autore, di un minimum di  consapevolezza e lucidità -    non sarebbero  state più annullabili  per ragioni di (in)capacità.

Questo spunto innovativo non è stato coltivato dal legislatore del 2003; è un suggerimento rimasto per intero  sulla carta. E il risultato è che oggigiorno, a prescindere dal regime civilistico di salvaguardia in corso,  chiunque

-          ritenga di avere (non a torto)  pochi  anni o pochi mesi da vivere;

-          sia intenzionato  a  fare testamento;

-          non ignori di avere intorno a sé, o da qualche parte nel mondo, dei “parenti-serpenti”;

-          si renda conto di essere  vagamente appesantito, annebbiato nella mente;

sa che quasi certamente: (i) o si deciderà a non fare nessun  testamento, oppure redigerà un atto  esattamente come lo vogliono i suoi eredi legittimi, i  quali  sono lì pronti a gettarsi sui beni  in questione; (ii)  o sceglierà  invece  di fare un negozio di ultime volontà  così come aggrada a lui, e allora (può  ben prevedere che) quell’atto  verrà quanto prima impugnato  e finirà per essere verosimilmente invalidato, stante la pressione giudiziale dei rapaci congiunti  – il tutto senza possibilità di “antidoti” istituzionali.

 

 

        12. Amministrazione di sostegno e  approccio esistenzialista

 

Una  fra le chiavi di volta della neodisciplina, è stato sottolineato,    appare quella inerente al taglio prettamente esistenziale -   accolto/da accogliersi, oggigiorno,   nelle materie  del diritto civile.

L’approdo a prospettive tese a mettere, cioè, in primo piano gli spazi della quotidianità,  le diverse  scansioni dell’agenda giornaliera. In particolare, il sistema dei rapporti familiari, affettivi, sociali, di  scuola e cultura; le relazioni  di svago, di vacanza, di sport, di partecipazione politica e sociale, di espressione artistica e letteraria (v. anche retro,  § 6; infra. § 23 ).

La realtà spicciola di tutti i giorni insomma; il fare/essere della normalità,  della routine fisiologica, delle banalità ricorrenti di ogni tipo (miserie e splendori inclusi). Ecco ciò   che richiede di essere assunto sempre più,  dall’interprete,  nella trama corrente del  diritto privato -  qui  come riferimento a una serie  di “faville” individuali da rinvigorire,  a  rigogli  partecipativi da ordinare/ripristinare, presso chi beneficia  dell’amministrazione di sostegno.

Si tratta di un punto di vista non poco innovativo, tra l’altro,  rispetto alle secche della vecchia cultura giuridico/psichiatrica -    abbarbicata, di solito,  ai fantasmi di ciò che sta  dentro e intorno al diritto penale,  ai fatti di sangue che sono  stati  o potrebbero venir  commessi da chi stia male psichicamente. Assorta comunque, pur  storcendo il naso,   nella  contemplazione perenne delle catene,  delle inferriate, delle (sopravvissute) contraddizioni dell’ospedale psichiatrico giudiziario.

La legge n. 180 prima, poi il provvedimento di cui oggi parliamo, appaiono  destinati a – dovevano/dovrebbero  - cambiare notevolmente il panorama: obbligando lo studioso “psi” ad accorgersi che così non è, non dovrebbe essere, per la grandissima parte dei sofferenti mentali.

  Ai medici e agli infermieri  viene  oggi ricordata l’esistenza di un versante che essi ben   conoscono, in teoria,  ma che sovente finisce -  grazie  a una curiosa schizofrenia archivistica  (da cui pochi guariscono: si continua a dire  che i “matti” non uccidono,  che non fanno male  a una mosca; e si parla  però in continuazione di processo penale, di contenzione, di porte sbarrate) -    per restare in un angolino separato.

 La verità è che anche  rispetto agli infermi di mente (questo il dato di novità) il sistema-base dei comandi giuridici è ormai diventato,  sul terreno della quotidianità,  quello del diritto civile. Il diritto penale è abbastanza eccezionale: farà  notizia,  talvolta commuove, suscita magari discussioni, procura audience in TV;  ma di rado entra in gioco nella cronaca reale delle persone.

A contare davvero, come s’è rilevato all’inizio,  sono invece  - per tutti - le  questioni  che attengano ai segmenti privatistici: quelle della famiglia, dei rapporti associativi, del lavoro,  delle successioni a causa di morte; oppure i problemi della banca, dei rapporti di vicinato,  delle vacanze, della cooperativa, delle cambiali, delle scommesse, delle assicurazioni, del condominio (v. anche retro, § 6).

La vita di tutti i giorni, uguale – almeno in parte – per tutte quante le persone, bene o male che esse  stiano psichicamente.

 

 

        12.1. Quotidianità e responsabilità

 

Si tratta  - complessivamente  - di un universo che esce  oggi “allo scoperto”  (attraverso la nuova legge del 2004) come un quid assai meno insolito che nel passato, rispetto all’esistenza delle creature in affanno. Soprattutto assai meno  tecnico, astruso e lontano.

E la psichiatria più recente sta anch’essa accorgendosene  - sia  pur nel  modo distratto  e intermittente di cui sopra.

 L’amministrazione di sostegno  non parla,  in effetti,  un  gergo granché diverso da quello del danno esistenziale. C’è    poca differenza, a ben guardare,  fra il verso e il fondale di questi due settori, del 1° e del 4° libro del c.c. -  anche se va detto come Genova, riguardo alla neo-voce del danno non patrimoniale,  non ci stia dando propriamente un  aiuto. Mette anzi  qualche volta i bastoni tra le ruote.

Non tutta la città magari, diciamo una parte della Genova accademica;  dotata tuttora di peso e di influenza però. 

Mi sarei aspettato in Liguria un sostegno maggiore rispetto alle nuove linee di lettura, nel campo del danno alla persona: questo  appare, a ben vedere,  lo stesso soffio antropologico e costituzionale che ha ispirato  - torno a dirlo - le leggi degli ultimi decenni sulla follia (retro, § 1; infra  §§ 14 e 19.2).  Speravamo di più.

Invece,  l’impressione è che chi ha  contribuito a inventare  il danno biologico,  trent’anni fa, risulti oggi  infastidito da un riflettore che ha l’effetto di  spostare altrove, culturalmente e strategicamente,  l’attenzione principale del giudice, del lettore, dell’avvocato  -   che lascia in ombra coloro i quali si erano abituati a stare al centro della scena (e pensavano, magari,  che così sarebbe durata per sempre).

 

 

        13. Nuovo linguaggio, angeli custodi 

 

         Nella riforma che oggi celebriamo, la qualità del “soffio antropologico” – occorre aggiungere -  appare suggellata/esaltata anche sotto il profilo linguistico. Si tratta anzi di uno dei passaggi che,  a prima vista, colpiscono   maggiormente l’interprete.

          (a)  Dentro ai nuovi articoli sull’amministrazione di sostegno incontriamo,  in effetti,  verbi e  sostantivi  in  larga parte estranei al testo primigenio del codice civile. Per certi versi  formule bizzarre -   termini  alquanto sociologizzanti,  più  o meno avvolgenti ed eretici.  

        Espressioni come: “richieste”, “interessi ed esigenze di protezione della persona”,   “aspirazioni”, “con la minore limitazione possibile”, “espletamento delle funzioni della vita quotidiana”.  Oppure: “bisogni”,  “interventi di sostegno temporaneo o permanente”,  “responsabili dei servizi  sanitari e sociali”, “necessario per assicurare la loro adeguata protezione.  E ancora:  “condizioni di vita personale e sociale”, “atti necessari a soddisfare le esigenze della propria vita quotidiana”, “autonomia”,  “interessi morali e patrimoniali del minore o del beneficiario”  (v. anche retro, § 4).

          E  il combinarsi di tutto ciò, l’intreccio complessivo delle frasi -  il modo stesso  di presentare le regole,   da parte del legislatore:   tutto ciò  si  dipana ancor più nel segno  della morbidezza prescrittiva, dell’autentico “diritto mite”.

(b)  E’ questo un tratto da rimarcare con forza,  e che apre subito la  strada,  va rilevato,   alla riflessione su altri aspetti-chiave della neo-disciplina.

In sintesi. L’amministratore di sostegno è una presenza  da concepire, sulla carta,  come qualcosa di non  molto distante da una sorta di  fratello maggiore (un po’     manager  e un po’  tuttofare casalingo). Secondo qualche autore,  da avvicinare  alla figura infantil-natalizia dell’”angelo custode”  (certo in salsa  laica/territoriale;   non a caso si è evocato il personaggio quasi-alato del film “La vita è meravigliosa”  di F.Capra).

Pazienza,   si prosegue,     se colei o colui che è stato prescelto  per colmare i vuoti operativi - pensionistici, condominiali, fiscali, alimentari, cerimoniosi, sanitari,  colloquiali - di un disabile   potrà dimostrarsi,    qua e là,       cultore non eccelso  o poco professionale    di cose giuridiche;  e se ciò  poteva mettersi,  anzi,     in conto fin dalla nomina.

L’importante è che si tratti  di un individuo equilibrato, disponibile “come testa  e come gambe”. Possibilmente  una creatura generosa, non troppo impaziente, con  doti spiccate di buon cuore -  una presenza  attenta alle esigenze, al limite ai capricci, comunque alle  (cangianti) necessità materiali e spirituali della persona “amministranda”.

(c)  Allorché le questioni di stretto diritto da risolvere, nella vita di quest’ultima,  si annuncino come particolarmente  intricate, sofisticate:  bene, potremo pensare   sia miglior partito puntare -   per la copertura di quel  ruolo  - su qualcuno di  sagace tecnicamente, versato a sufficienza nelle pandette.

Altrimenti no, non è detto. Tenendo presente che  potrebbero ben esservi,  di regola,  come guida per il lavoro minuto dell’amministratore,  le tracce offerte via via dal giudice tutelare (certo, una volta che gli organici del tribunale fossero adeguatamente rinforzati); oppure  che potrebbe essere attiva, nelle città più sensibili e organizzate, la risorsa consulenziale di qualche servizio o “tavolo inter-istituzionale” (cfr. infra,  § 21).

L’importante è che ad orientare  ogni fase del tragitto (nella individuazione a monte del designando, come in ordine ai comportamenti da suggerire  all’amministratore) siano ragioni di affettuosità, di premura.

Capacità d’immedesimazione, garbo comunicazionale, mancanza di pigrizia nella conduzione degli affari -   queste le qualità da incoraggiare,  in tutti i momenti inerenti alla  neo-figura.

 

 

        13.1. Tentazioni   neo-manicomiali

 

Un vicario/assistente, s’è detto,   pronto a prendersi cura delle istanze della persona, globalmente intese, oltre che delle necessità obiettive  del patrimonio. E che possa all’occorrenza  diventare, con riguardo precipuo ai  sofferenti mentali,  un diffuso baluardo contro ogni ipotesi di restaurazione gius-psichiatrica – in merito a questo o quel versante disciplinare  della legge  180.

Più precisamente: uno strumento  attraverso  cui argomentare il “no”  tendenziale a proposito dei vari progetti e sub-progetti,   oggi  pendenti al parlamento,  circa l’introduzione in futuro dei  c.d. manicomietti - delle residenze sanitarie cioè di medio calibro, concentrate in qualche luogo del  territorio, infarcite di posti letto.

Da tutti gli operatori “illuminati” del paese,  le proposte avanzate negli ultimi tempi da alcuni deputati della maggioranza sono   state valutate, sotto  questo punto di vista,  come non poco temerarie:  una  prospettiva scopertamente nostalgica,  panmedicalistica della sofferenza mentale -  non di rado favorevole  anche alle letture mono-biologiche, con forti aperture di credito nelle virtù degli psicofarmaci, nelle terapie del sonno, nella felicità e autosufficienza dei reparti,  nelle porte senza  maniglie, nella contenzione notturna.

C’è al fondo di quei disegni una più o meno sotterranea ideologia anti-180, prebasagliana;    con i trattamenti sanitari obbligatori (TSO) molto allungati, diminuite garanzie per la persona. Tutte indicazioni  con sapori di oggettivo ripristino, per l’appunto,  di ottiche filo-segregative, inframurarie  -  a parte il sospetto di un favore  concesso, puramente e semplicemente,   alla lobby dei gestori di case di cura private.

Per la verità,  anche il governo e i gruppi della maggioranza sembrano essersene accorti: la cosa è stata per il momento bloccata. Non si sa tuttavia come potrebbe finire la prossima volta: e occorre invece “vigilare” contro ipotesi del genere,  che appaiono quanto mai subdole.

 In effetti: quasi ogni giorno i quotidiani o la TV  segnalano la scoperta da parte della polizia o dei carabinieri, in questa o in quella città, di qualche ospizio o clinica lager - in cui i degenti vengono trovati legati, malnutriti; in condizioni di  igiene precarie, spiritualmente regrediti,  incupiti,  dimenticati da Dio e dagli uomini.

 

Ogni ipotesi legislativa di tipo neo-istituzionalistico, tenuto conto anche della difficoltà dei controlli amministrativi e di pubblica sicurezza,   ha l’effetto di favorire il moltiplicarsi di scenari del genere. Ma l’elenco dei rischi  è ben più folto.

Ecco allora -  proprio su un terreno di   politica del diritto e della medicina - l’utilità di  una nuova figura difensiva per il disabile,   di un baluardo  sbocciato sul terreno del diritto civile.  Un punto-luce vicariale (sottolineano per primi i terapeuti dei Centri di salute mentale),   solerte quanto occorre come contabile, ragioniere;  formica o cicala secondo le necessità e i desideri: in grado di capire al meglio i bisogni che si affacciano, di ritrovare i bandoli più fruttuosi presso l’interessato, sul terreno biografico -  di indovinarne anche le attese, e le fantasie,   meno esplicite.

Tutto ciò renderà ancor più chiari l’anacronismo e l’incongruenza di qualsiasi linea di intervento drastico -  maschio, normalizzatore   -  da parte del legislatore psichiatrico del prossimo futuro. L’amministrazione di sostegno è anche in funzione (si rimarca)   di  simili  paletti “contro-istituzionalizzanti”.

 

 

14. Il fondale delle grandi riforme

 

Altro passaggio, quello  del richiamo (da tanti interpreti compiuto,  sin dalle prime discussioni su diritto e psichiatria) ad approfondire i  collegamenti tra, da un lato,  la filosofia generale dell’amministrazione di sostegno e, dall’altro lato,  il sistema delle “grandi leggi”  di riforma dei diritti della persona  -   quelle che sono valse,  negli ultimi trent’anni,  a liberare la comunità da  secolari disuguaglianze  e soprusi.

L’invito è, in particolare, a prendere le mosse dall’elenco delle fondamentali modifiche degli anni Sessanta e Settanta (come non ricordare le più importanti?):  il provvedimento sul licenziamento per giusta causa, l’adozione c.d. speciale, lo statuto dei lavoratori, il divorzio, la legge sulla maggiore età a 18 anni, la riforma del diritto di famiglia, il testo sull’interruzione di gravidanza  - si potrebbe continuare a lungo.

Ancor più (parlando di nuove protezioni soffici, interdisciplinari)    le leggi rivolte specificatamente ai “soggetti deboli”: la 180, la 104, le normative sui ciechi, su certe altre disabilità; il collocamento obbligatorio, i provvedimenti sul volontariato, sulle cooperative di solidarietà, i provvedimenti regionali sull’handicap;    per tanti versi la stessa l. 328, che ha di recente riformato la trama    dei servizi socio-sanitari.

Vi è in questa successione di novità e trasformazioni, per chi  sappia coglierlo, un disegno ben preciso di affrancamento dell’uomo (un “metodo” direbbe quel personaggio dell’Amleto): l’obiettivo  della restituzione/implementazione, soprattutto al cittadino in affanno,  delle sue prerogative fondamentali, l’ideale della costituzionalizzazione piena  del diritto privato.

Dare a ciascuno congrui margini di espansione del suo essere – il tutto in chiave quanto più possibile  espansiva, promozionale.

 

 

15. Nozione di  “persone deboli”

 

Ecco  così   gli spunti ricompositivi  portati avanti  in letteratura,  durante questi anni, sul terreno dei c.d. soggetti deboli.

Persone non già “intrinsecamente fragili”, si è sottolineato, quanto  piuttosto “disilluse”  dall’esterno  -  frustrate dalla mancanza di  qualcosa che dovrebbe esserci, all’intorno,  e che non c’è mai stato invece. O  che  esiste magari,  nei meandri della  città o del  territorio,  ma non abbastanza corposamente, rigogliosamente.

 

(i) La verità è che ogni essere umano è portatore -  si  ricorda -   di un  proprio “progetto di vita”:  più o meno limpido o  ambizioso.  Chiunque si alzi la mattina e inizi   una nuova giornata  (anche chi non può fisicamente mettersi diritto)  vuol dare alla propria  esistenza un qualche significato, grande o piccolo che sia.

Durante il corso degli eventi,  di giorno o di notte, ciascun individuo continua a tessere piani, a disegnare l’immediato; magari a correggere qualche errore degli ultimi mesi: “affitterò una casa, farò l’università, troverò un lavoro, tenterò quel certo concorso, rimetterò quei debiti, mi  abbonerò alla stagione teatrale, cercherò altri spazi, mi riconcilierò, proverò ad adottare un bambino, rifarò l’operazione agli occhi, andrò in  vacanza”.

E poi,  chissà:  lo sport, i libri,  i saldi, il pensiero degli amici  vecchi e nuovi da incontrare (donne, uomini, bambini);  e ancora i fumetti, la sala corse, un ciclo di conferenze, le collezioni, la borsa, i fondi pensione, gli annunci sul giornale, la musica -  magari niente; comunque un “niente” non imposto al 100% dalle circostanze, dalla disgrazia: non un ozio purchessia, una qualsiasi partitura di vita.

 

(ii) Ecco  allora la  “combinazione esistenziale” (questa una delle locuzioni impiegate talora in dottrina). Il tratteggio che ciascuno effettua   cioè,  più o meno confessatamente, degli obiettivi avvertiti come propri.  La presa d’atto di alcune pulsioni e ambizioni di fondo, dei  respiri emersi con lo scorrere del tempo -  l’insieme dei gesti che si vorrebbero, da quel momento, al centro dell’agenda.

 Uno slancio a fare,  forse a cambiare, magari a riprendere qualcosa; anzi, di solito,   a fare e  insieme ad essere (se stessi) -  questi i verbi che si intrecciano fra loro,  in misura costante, pure nei discorsi relativi al danno esistenziale.

Il  soggetto svantaggiato è  pure lui così,   si sente come gli altri, come tutti quanti; il suo ronzio non è diverso, né speciale: le differenze a quel livello non contano,  neppur sussistono anzi.  Aspira anch’egli,   essenzialmente,  a  “realizzare” se stesso – dentro e fuori.

Però, ecco il punto,  non ci  riesce completamente, non  da solo. Un qualche impedimento di base (di carattere fisico, psichico, sensoriale, istituzionale, anagrafico, logistico, etc.)   glielo vieta parzialmente o  contingentemente.  In qualche modo lo attanaglia, lo trattiene altrove contro la sua volontà.

 Non farcela è il verbo chiave della nuova legge. 

 

(iii) Quest’ultima dunque.

Si tratta di un articolato da scorrere (è stato detto)   in chiave prettamente antropologica,  “demedicalizzata”. Non di sola salute vive l’uomo -    e non sono unicamente i guasti all’integrità psicofisica che valgono a pregiudicare l’ indipendenza delle persone.  

Esiste, bisogna ammetterlo,  qualche passaggio della novella che pecca, sotto questo punto di vista,  di eccessi di patologizzazione -   che tradisce risonanze positivistiche, per certi versi “lombrosiane”. Forse l’art. 404 c.c.  non è stato abbastanza coraggioso, al riguardo,  c’è  qua e là troppa accentuazione (semplificatoria)  rispetto ai momenti dell’infermità, della menomazione.

Sorge più di un sospetto di  inconciliabilità  descrittiva rispetto ad  altri passaggi della riforma (ad esempio per quanto concerne il primo articolo, o la nuova rubrica del titolo XII del libro primo: retro, §§ 4 e 6).

 

(iiii) Il cuore del provvedimento del 2004 allora – le indicazioni da tenere presenti  sopra tutte le altre.

Si tratta delle voci intonantisi, ripetiamo,  all’idea del non riuscire, del non farcela da soli. Uno scacco che appare spesso,  però,  a “macchia di leopardo”: questo contratto no e questo sì, quell’altro negozio un po’ meno. Quell’altra tipologia solamente nei giorni dispari; queste determinazioni invece mai, sin dai vent’anni -  quegli atti magari sì con l’aiuto di qualcuno.

E non è questa la sede per domandarsi fino a che punto la nuova nozione di “fragilità negoziale”  - introdotta  a quella stregua  entro il c.c. (tanto più frastagliata rispetto alle vecchie accezioni di incapacità, legale e  naturale;  tanto meno incentrata rispetto ad esse  su  momenti di ordine  clinico,  e assai più invece su   versanti di tipo schiettamente gestionale/esistenziale)   - sia destinata a interferire col significato dei vari riferimenti all’incapacità.

 Ad esempio, su  terreni come quelli dell’annullamento contrattuale, dell’estinzione della proposta contrattuale, dello scioglimento dell’affitto o del mandato,  in materia di circolazione dei titoli di credito, con riguardo all’esercizio dell’impresa commerciale, in  campo aquiliano, e così via.

 

 

 15.1.  Carenze dei Servizi sociosanitari

 

 Per quanto qui interessa, allora.

Chiunque non  sappia (per effetto di qualche deficit)  in che modo condurre in porto le operazioni messe in cantiere, o comunque immaginate. Qualunque essere non riesca -  poiché  trattenuto  da qualcosa di più forte    - a portare avanti questa o quella fra le sue iniziative,  che pure  dovrebbero stargli a cuore.  Ebbene, costui potrà  aspirare ad essere coperto attraverso l’intervento dell’amministratore.

 

(a) “Inadeguatezza gestionale” -  si è detto -  spaesamento/riluttanza sul terreno burocratico; passività indotte dalla sfortuna, scarsa tempestività nel reagire,  diffidenza cronica verso le istituzioni. 

 Sfiducia nelle proprie risorse di scaltrezza, incrostazioni  da ricondurre alla solitudine, alle delusioni della civiltà. Lasciare  che tutto continui come prima,  non guardare  abbastanza in faccia la propria realtà  affettiva, locomotoria, contabile. Buttare via fatture e bollette senza aprirle,  stancamente,  non dire mai né di sì né di no,  infischiarsene se il terrazzino crolla.

 Diffidare di chiunque suoni il campanello  o, per converso,  aprire la porta a tutti i finti esattori e benefattori, a chiunque si presenti  in divisa oltre lo spioncino.

Non rispondere al telefono se non di notte, passare tutti i pomeriggi in chiesa, o al parco con qualsiasi tempo,  riempire la casa di gatti, fare nient’altro che solitari con le carte, non aggiustare da mesi la stufa elettrica. Aver smesso di mangiare e di bere, saltare gli appuntamenti col dentista, ordinare ventisei vestaglie di raso azzurro, sentire sempre più delle voci. Evitare di lavarsi,  dimenticare il proprio nome, vedere nemici dappertutto, continuare a rimirare  per ore il punto in cui la parte si congiunge col soffitto (v. anche retro, § 5).

 

(b)  Si è concluso allora in dottrina:  vi sono al mondo - tutt’intorno  - non già soggetti deboli,  bensì persone indebolite, mantenute  sottotono dalla mancanza (dalla poca efficienza) dei servizi  socio-sanitari  che potrebbero armare o rinfrancare quei progetti, quei lieviti.

 Questa la chiave di volta. I diritti “sociali” dell’individuo -  la cura, l’assistenza, il trasporto, la scuola, la formazione professionale, l’abitazione, la rieducazione, la salubrità ambientale, etc. - : voci del genere hanno, soprattutto per chi è in affanno,  bisogno di qualcosa che le faccia camminare col ritmo giusto,  che puntelli ogni   passaggio a livello pratico.

Agli sportelli, firmando i moduli, chiedendo il servoscala,  coi bollettini giusti.  Facendo un piano di giornata, decidendo le priorità:  in giro per le stanze, lungo il circondario. sottoscrivendo i ricorsi,  incassando, protestando, presso gli uffici competenti.

E qualora tutto  ciò manchi, la “combinazione esistenziale”  del disabile (di cui sopra)  diventa presto irrealizzabile -  minaccia di restare  sulla carta.

 

(c) Basta  chiedere  a un soggetto c.d. “fragile”, di qualsiasi tipo,  se  si viva davvero come tale; risponderà quasi sempre di no, che non è vero. Non ha quelle caratteristiche lui;  altri sì forse, ma non lui.

 Comunque un tempo (precisa) non era così,  e se le cose sono cambiate non è colpa sua; basterebbe poco comunque per tornare come prima.

Dicono gli operatori:  è stupefacente la distanza fra il “poco” che servirebbe dal lato delle istituzioni,  e il “tanto” di energie personali che verrebbero rimesse in circolo.

Quanto all’interessato: se dicesse di sì, se piangesse o maledicesse, quello sarebbe un sintomo che tanto in balia delle cose il nostro uomo, forse,  non è.

 

(d) Come è stato detto allora. Esistono nella gran parte dei casi  persone (non già   deboli, bensì) indebolte  dall’assenza dei  necessari supporti d’ordine sociosanitario -  pubblico o privato.

Dalla neghittosità, secondo i casi,  degli assessorati regionali, dalla confusione amministrativa, dall’inflazione dei sentimenti, dal clientelismo nell’assunzione del personale. Dalla scarsa organizzazione del volontariato, dalla cecità del governo centrale,  dalla disinformazione sullo stato delle cose,  dalla corruzione di qualcuno. Dal finto pathos delle trasmissioni televisive, dalla mediocrità dei corsi di formazione, dalla riduzione degli orari nei consultori, dalle scelte della comunità locale di investire altrimenti le proprie risorse.

 E  qualora accada invece -  per tornare al piano delle vicende singole -    che quel  presidio difensivo  non manchi,  che venga di fatto ripristinato; nel momento in cui i corrimano che occorrono alla persona verranno installati  e funzioneranno davvero:  allora le conclusioni circa la (pseudo)fragilità  dell’interessato potranno magari rettificarsi.

 

 

16. Dall’alto, dal basso

 

Una concezione promozionale,  insomma,   un lessico “da floricoltore”. Che guarda ai c.d. soggetti deboli  come ad esseri  intenzionati e spesso decisi (non diversamente da quanto  tutti vorrebbero)     a realizzare se stessi:  diventando ognuno,   il più possibile,   ciò che  era stato architettato all’origine.

E  un tipo di legge -  sotto l’aspetto   politico/grammaticale -    assai nuova, differente;    in cui figurano ripresi i motivi di altri provvedimenti normativi, simili a questo. Rilanciandosi   a 360°  uno stile   privo di rigidità, ricco di principi, consapevole dell’irripetibilità di ogni storia umana; senza nulla di scontato e ossificato.

Un taglio laboratoriale destinato a espandersi, con tutta probabilità, pur al di là dell’occasione di oggi.

(I)  Più precisamente: si è parlato di un diritto costruito “dal basso” invece che “dall’alto”;  di un’offerta di risposte  mobili entro il sistema,   in cui il ruolo giocato dal formante giurisprudenziale  appare – volta a volta - decisivo.

Il contrario dell’ interdizione, sotto vari aspetti.

Non cioè un pacchetto monolitico, distillato presso qualche ufficio legislativo al vertice,  concepito una volta per sempre.  Non una gabbia   fatta per applicarsi a tutti i  cittadini nello stesso modo, insuscettibile di variazioni, col medesimo labirinto statutario.

Piuttosto un diritto stabilito  dal basso;  un decreto  personalizzato,  fatto per riguardare soltanto la creatura oggetto di ascolto - che le scolpisce intorno un “vestito su misura”.

Singolare e plurale: di “interdizione”  può essercene una soltanto, come forma e sostanza; di “amministrazione di sostegno” tante versioni quanti sono i beneficiari possibili.

(II)  Un po’ come nella fiaba dei fratelli Grimm.

Quando Gianni il porcaro, ecco il racconto,   va a corte per chiedere la mano della principessa, pronto a sfidare il destino. E,    dopo che tre principi sono stati decapitati, per non aver saputo rispondere alle domande della bella,  si sente chiedere da  quest’ultima (pronta a sposarlo se lui supererà la prova, e a passarlo al boia se no): “Dimmi quante sono le stelle in cielo”. 

Al che  Gianni replicherà: “Datemi un foglio di carta grande come un lenzuolo, una penna,  un calamaio, ventiquattr’ore di tempo”.

Con tutto quel che segue.  Gianni che scompare in una stanza per un giorno intero, uscendone col foglio di carta arrotolata, che viene porto alla principessa, la quale lo spalanca al cospetto della  corte, scoprendolo riempito tutto i puntini di inchiostro;  e  sentendo  poi Gianni che le sussurra: “Conta tu stessa; tanti sono i puntini sul foglio, tante le stelle in cielo”.

(III) Così  i soggetti deboli -   quelli in giro per le strade  o dentro  casa. Tanti e  differenti tra loro; fatti anch’essi,  come Gianni e la principessa, per  guardare le stelle e per non contarle,  per vivere “felici e contenti”.

 Ecco le parole chiave dell’amministrazione di sostegno, allora. Sapere – il giudice,  il p.m., gli operatori  sociosanitari -   ascoltare quanto occorre l’interessato, mirare a conoscere  in primo luogo i suoi bisogni. E,  sulla base di quella presa d’atto,  confezionare  poi un assetto irripetibile di sostituzioni, di affiancamenti,   di momenti curatoriali.

 

 

16.1.  Mancata segnalazione al giudice  e responsabilità civile

 

Le sanzioni per  la pubblica amministrazione, allora.

Vi è nella legge in esame –  ricordiamo – la presenza di una  spada di Damocle,  dal peso non trascurabile:  là dove si dice che i dirigenti dei Servizi sociali, laddove a conoscenza di una situazione tale da giustificare l’attivazione del provvedimento, sono tenuti a “proporre al giudice tutelare il ricorso di cui all’art. 407  o a fornirne comunque notizia al pubblico ministero” (art. 406, ult.co., c.c.).

Nel progetto triestino di 18 anni fra era stata aggiunta -  può ricordarsi -  un’appendice di tipo  rimediale: prefigurandosi  apertis verbis    la  condanna dei Servizi assistenziali (nel caso di mancata segnalazione)   in relazione al danno subito  dall’interessato,   a causa di quell’omissione.

Il Parlamento del 2003 ha ritenuto,   verosimilmente,  che una precisazione siffatta fosse troppo fiscale (o superflua?);  e l’ha eliminata dal testo.

La sostanza non cambia però. Ovunque si verifichino situazione di vuoto, di disfunzione territoriale e amministrativa, vi saranno ex lege Aquilia gli estremi per una responsabilità  del dipendente (quanto meno in caso di dolo o colpa grave). E comunque i presupposti per una condanna  risarcitoria della pubblica amministrazione  - la quale abbia mancato  nel raccogliere il “guanto di sfida” lanciato dalla neo-riforma (o da altre  leggi consimili);   stavolta anche nell’ipotesi di colpa lieve.

C’è in ogni città  (le variazioni non sono significative) una quota fisiologica di cittadini bisognosi, non autosufficienti;    individui i quali appaiono destinati -  qualora un amministratore di sostegno non intervenga al loro fianco -  a vivere peggio e a morire prima di quanto potrebbero.  Il fatto che i ricorsi al giudice tutelare possano figurare,  qua e là,  meno numerosi di quanto la matematica vorrebbe, non sarà certo da salutare come un buon segno.

Come sempre, si tratta di un obbligo risarcitorio da valutare anche, o soprattutto,  in chiave preventiva.

Ci si può  chiedere in effetti: converrà a un Comune o ad una ASL,  di Genova  o di una qualsiasi altra città,    trovarsi costretta a pagare (ogni dodici mesi) una  certa somma  globale   a titolo di risarcimento - per i pregiudizi subiti da  queste o quelle categorie di persone deboli,    le quali si  siano viste abbandonare a se stesse,  a causa dell’assenza o dell’ inefficienza dei servizi?  o non converrebbe piuttosto (a quelle stesse amministrazioni)  investire diversamente le proprie risorse,  organizzando a monte un sistema di Servizi adeguati? così da scongiurare la stessa possibilità di quegli oblii,  e da evitare, grazie alla risocializzazione delle persone, le correlative chiamate in giudizio?

 

 

17. L’idea di “salute”  nelle impostazioni dell’O.M.S.

 

Alcuni punti vanno ancora sottolineati.

Il primo riguarda, come già si diceva,  il target  applicativo della legge. Occorre pensare, in astratto,  a diverse categorie di destinatari: non soltanto i menomati o gli infermi fisicamente o psichicamente; bensì anche tutti coloro che per qualsiasi motivo accusino difficoltà di accesso (non futili o capricciose) alle leve del diritto civile –   più ampiamente,  ai gangli della “vita organizzata”.

C’è stata a un certo punto alla Camera,  riguardo al testo dell’art. 404 c.c.,   l’eliminazione del riferimento diretto agli anziani: modifica suggerita da alcuni nostri giuristi, e  che il Parlamento ha ritenuto infine di accogliere (in realtà, nessuno pensava già prima a  “nonni” in buona salute -   ma può darsi che qualche rischio vi fosse, con una menzione del genere, tenuto conto della  triste realtà di certi  focolari, nell’Italia di  oggi).

In generale, però: occorre non essere, come sempre, frettolosi sulla committenza. Vale  in linea di massima  il   principio secondo cui “è il bisogno a creare  l’organo” Ossia né troppo né troppo poco come raggio applicativo:  né cioè inclusioni minacciose già sulla carta, né  - soprattutto - esclusioni prioritarie di categorie destinate a frequenti prese in carico assistenziali.

Decisivo sarà, volta  a volta, il riscontro per le  difficoltà effettive della persona -  impossibilitata,    per qualsiasi ragione,  ad andare in banca a pagare, a mantenere contatti con l’assicurazione, a  fare le volture per l’acqua, il gas, la luce, il  telefono;  a partecipare all’assemblea di condominio, a pagare le tasse, ad accettare un’eredità,  ad addivenire a una transazione, etc. (retro, § 6;  infra, § 19).

Ovunque affioreranno impacci comunicativi o reattivi, anche solo sul terreno burocratico, là potrà  intervenire - proficuamente  - l’amministrazione di sostegno.

Una lettura in definitiva,  se si pensa  anche al testo dell’art. 414 c.c.,  non molto distante da quella concezione di “salute” fisica o psichica su cui   da anni   insiste l’ Organizzazione Mondiale della Sanità. Sta male chi non riesce, in sostanza, a fare le cose e  a reggere i  tramiti sociali di cui avrebbe bisogno per ottimizzare il proprio livello di benessere.

 

 

18. Paese che vai Tribunale che trovi

 

Altro nodo importante quello dell’interdizione.

I  nostri giudici tutelari appaiono al riguardo - bisogna dire – non di rado esitanti, intimoriti;  alcuni sembrano presi in contropiede e si direbbero disposti a continuare a (dichiarano quantomeno di non poter fare a meno di)  interdire. Magari contro le loro convinzioni più segrete. 

Tanti sono i rilievi addotti in tal senso. Ad esempio: “Poteva pensarci il legislatore! Dovremmo cavargli noi le castagne dal fuoco? Se l’interdizione è rimasta nel c.c. una ragione ci sarà. Siamo o no tenuti ad applicare la legge? Non è questo che il paese ci chiede?”.

Oppure: “I grandi principi di civiltà, la dignità delle persone, la Costituzione europea? Non spetta ai pratici  sventolare vessilli del genere -  sino a forzare l’interpretazione della norma scritta. Se c’è una raccolta di firme che girerà nel paese, potremmo anche non dire di no;  come magistrati però   l’interdizione (sinché in vigore formalmente) resta sacrosanta. Pronti noi per primi a sollevare un’eccezione di incostituzionalità, se capiterà l’occasione; ma intanto è  così che  deve continuare la law in action”.

Vale a dire: “Gli psicotici gravi, i soggetti in coma, quelli con ictus profondi, i cerebrolesi di ogni sorta, gli anziani oltre una certa età, gli Alzheimer consolidati; tutti quelli insomma che stanno male sul serio:  per loro non è cambiato assolutamente niente dopo il 2003. Chi dice il contrario fa demagogia e basta. Non è questione di maramaldeggiare o meno. Esseri inermi, senza possibilità di replica? Non bisogna lasciasi andare ai sentimenti: il  diritto deve saper conservare la sua fermezza, non guardare in faccia nessuno”.

Ancora: “In casi tanto gravi cosa potrebbe capire   l’interessato? Non è in grado di rendersi  conto di nulla; se ne farebbe ben poco della possibilità di sposarsi, di testare: qualsiasi regola per lui sarà lo stesso, tanto vale  essere - noi tecnici - un po’ coerenti, formalisti. L’amministrazione di sostegno,  chi versa in quelle condizioni,  non sa neanche dove stia di casa. Potrebbe guarire? Da certi mali non si esce più, gli psichiatri ottimisti sono degli illusi o dei bugiardi”.

E poi: “La Cassazione dice che il danno morale va risarcito pure a chi sia incapace al 100%? Non vuol dire, quello è un altro discorso. Il punto è che l’amministrazione di sostegno postula comunque un dialogo possibile;  ossia un disabile che sappia formulare richieste, dichiarare aspirazioni: e chi è colpito dal destino oltre una certa misura non parla, non reagisce alle domande, non si esprime. Qualcuno obietta che  è solo questione di voler ascoltare? Che ogni creatura umana, anche se non distingue fra un biglietto da 10 e da 20 euro,  “dice”  in realtà qualcosa a chi la sappia guardare, aspettare?  Non sono discorsi  per i giudici, questi, né per gli amministratori di sostegno, coi tempi che viviamo!”.

A ciascuno il suo: “Ci si consiglia di allungare la fisarmonica al 100%, per i casi più gravi, assumendo quale contenuto del decreto la totalità degli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione. Ma ciò equivarrebbe - è palese -  a promuovere un’interdizione sotto mentite spoglie; il che diventa niente meno che un imbroglio. Austriaci e tedeschi fanno esattamente così? Quei giudici se lo possono permettere, non avrebbero altra strada loro del resto. Rimarrebbero fuori comunque,  da una “amministrazione totale” in Italia,  gli atti di natura personale? Troppo poco per fare la differenza”.

E’ per il bene del nuovo istituto, in fondo: “Se si vuole che l’amministrazione non diventi anch’essa fonte di stigma, occorre non attribuirle un raggio esteso a 360°. Altrimenti rifluiranno su di lei gli stessi vapori negativi dell’interdizione. Il gioco essenziale sarebbe quello che avviene comunque sui nomi degli istituti, sulle etichette, così insegna la sociologia? Non si può chiedere ai giuristi di farsi carico di sfumature simili! L’immagine guida del neo-istituto? Basterà postulare: le ombre che le amministrazioni a tutto campo getterebbero su quelle piccole,  si annunciano più temibili delle luci sdemonizzanti  che le piccole riverserebbero sulle grandi”.

Alcuni giudici  tentano addirittura di auto-persuadersi,  nelle ordinanze o  in qualche commento generale: “In fondo l’interdizione non è tanto sbagliata,  anche sul piano mass-mediale, immaginifico; ci sono troppe calunnie  sul conto di questo istituto, non è poi così cattiva come risposta: esistono pure esperienze felici nella realtà,  non è vero che la famiglia pensa solo alla pensione d’invalidità, che  i tutori sono tutti spilorci o derubano sempre i soggetti tutelati;  la gente dovrebbe persuadersi che l’istituto ha i suoi vantaggi”.

 Subito dopo: “Vorrà dire che,  quando interdiremo, cercheremo di fare in parallelo una lezioncina gratis di diritto e di psicologia ai congiunti riottosi, e magari al neo-interdetto: spiegando loro che hanno torto nel temere una  soluzione del genere, la quale è invece una via d’uscita conveniente,  felicemente collaudata da   secoli, imposta comunque dalla gravità della situazione – gravità che non si può far finta di non vedere”.

Che dire? Un ricordo d’infanzia. Mia madre,  quando avevo  nove anni,  mi dava ogni sera  un cucchiaio di olio di fegato di merluzzo, con un goccio di limone;  e voleva convincermi che ciò che ingurgitavo era buono, buonissimo, al di là delle apparenze. Debbo dire che  non c’è  mai riuscita.

 

 

19.  Mai interdire, possibilmente

 

        Non dimentichi allora dell’ostilità che palesano apertamente  verso l’interdizione, ad esempio, tanti genitori di ragazzi down giunti alla soglia dei diciott’anni  - e sentimenti del genere si direbbero ancor più intensi oggigiorno,  dacché vige la nuova legge (è possibile fare altrimenti, ormai!) -   si tratterà di sottolineare una serie di punti.

 

(I) Il primo fra tutti essi è un  “no”,   da pronunciare in modo  categorico,   dinanzi a qualsiasi ipotesi  di  ripristino/valorizzazione della  misura in esame.

Ciò per varie considerazioni,  di tipo sia teorico che pratico -  ben note del resto alla gran parte degli interpreti, soprattutto agli “addetti ai lavori” (volontariato, operatori sul campo, fondazioni di settore;  chiunque frequenti i centri di salute mentale). Ragioni  in parte rinvenibili,  sinteticamente,  nella stessa formulazione del nuovo art. 414 c.c.  

Fra i  motivi essenziali allora:

- eccesso (come si evidenzia) degli impedimenti anche non patrimoniali nascenti per  chi è interdetto: immagine da morte civile della figura, taglio complessivamente pietrificante per chi la subisce, punitività, fondali sulfurei;

- mancanza di valore terapeutico, enfasi solo economicistica, costosità e scarsa trasparenza delle procedure;

- impostazione tutta “dalla parte dei familiari e dei terzi”, frequenza statistica  dei casi di sciacallaggio, eccesso di preoccupazione per le opportunità del traffico;

-          inevitabilità della pubblicità, sapore manicomiale e istituzionalistico;

- scarsezza di garanzie formali e politiche, complessità delle revoche e delle modifiche,  etc..

 

(II) Anche storicamente, del resto.

 Non c’è stato -  alla base dell’ideazione dell’amministrazione di sostegno, vent’anni fa  circa -  soltanto il proposito di riempire il “grande vuoto” dell’ordinamento italiano: l’intento cioè,  di sottrarre all’abbandono  le persone non abbastanza disastrate da potere essere interdette, e in condizioni psichiche non abbastanza buone, d’altronde, da  potersela cavare  dinanzi a frangenti di una  certa complessità (rapporti bancari  e assicurativi, accettazioni di eredità, appalti, contratti d’opera non irrisori, assegni e cambiali, assemblee di condominio, denunce penali, vendite e locazioni di immobili, pegni e ipoteche, fideiussioni, transazioni  costituzioni di servitù, azioni risarcitorie, etc.).

C’è stata altresì, secondo del resto i moniti dell’Europa,     una spinta d’ordine più strettamente ideale, politico: intrecciata però a una scelta tattica -  ossia con tempi più lunghi di lavoro.

 La scommessa cioè sui meriti di  un neo-strumento generale,  suscettibile di estendersi,    grazie alla sua intrinseca elasticità,   a una molteplicità  anche vasta e illimitata  di atti negoziali -  e ciò riguardo a tutti i disabili possibili (“..persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana...”,  art. 1 della l. n.6/2004; “…impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi..”, art 404 c.c.).  Così da determinare, progressivamente,  una sostanziale abrogazione dell’interdizione  a livello della prassi.

 

 

19.1.  Eccezioni

 

Unica eccezione   al “no” perentorio che s’è indicato,  quella rappresentata da una situazione per certi versi al limite -  ritrovabile là dove siano presenti alcuni elementi ben precisi (ciascuno dei quali indispensabili ai fini della sentenza). Ossia  allorquando:

i)  il patrimonio del soggetto da proteggere non sia di fatto insignificante, anzi  corrisponda a una entità piuttosto ricca,  cospicua; tale comunque da giustificare il ricorso a una modalità giudiziale la cui messa in opera si presenta (abbiamo detto) così impegnativa, onerosa finanziariamente,  con la necessaria presenza dell’avvocato, ardua da mettere in moto e difficile da revocare;

ii) gli atti patrimoniali da compiere, nel pacchetto affidato al vicario,  necessitino  via via di autorizzazioni così  problematiche, frequenti   e sofisticate da far preferire  di gran lunga (costi quello che costi) il tipo di sindacato che verrebbe svolto da un organo collegiale com’è quello del Tribunale (sempre che la prassi sia  davvero questa, però, e non  invece  – al di là degli orpelli - quella di un vaglio  svolto in realtà da un solo dei tre giudici,  e rispetto al quale gli altri due  membri non aggiungano,  all’ultimo momento,  che un’approvazione formale), rispetto a una valutazione compiuta in solitudine dal giudice tutelare;

iii)  la persona stia davvero malissimo, anzi si presenti del tutto “schiantata” nel corpo e  nella mente -  e ciò in via perenne, definitiva,  essendo ogni possibilità di luce e di reattività del tutto assente, senza possibilità di  futuri recuperi;

iiii) l’interessato non appaia,   per come si presenta e continuerà a stare,  in condizioni di  paventare minimamente gli effetti mortificanti di un’etichetta come quella dell’interdizione -   che è (abbiamo detto) un quid intrinsecamente portatore di stigma,  tale da mettere  in gioco col suo solo nome l’idea della pazzia;  con i vari fantasmi intrinseci a quest’ultima, le maledizioni, il background ancestrale, i riccioli letterari  e teatrali, l’odiosità mefistofelica, la paura (infra, § 19.2);

iiiii) infine – e si tratta di un passaggio fondamentale, se è vero che le ombre in questione di rado atterrebbero solamente alla persona, toccando pressoché  sempre anche la  cerchia domestica -  mai potrà farsi  luogo all’interdizione qualora una  tale misura mostri,  hic et nunc, di risultare sgradita ai congiunti di quell’interdicendo. Di apparire come un’onta, una vergogna per il gruppo intero.

Dovunque il giudice abbia la percezione che il ricorso a un mezzo simile innescherebbe,  presso i parenti,  meccaniche di tipo avvilente, mortificatorio,  ebbene, la soluzione cui far capo dovrà essere necessariamente un’altra.

Il male non è soltanto il buio intrinseco, nell’universo che viviamo; viene anche dalle forme attraverso cui l’immaginario collettivo  fa suo quel guasto e quel dramma, lo cristallizza  – nella percezione ufficiale delle cose.

Altrimenti, occorre ritenere,   ci si troverebbe dinanzi ad un atto giudiziale abusivo. Un provvedimento materialmente illegittimo, in quanto portatore di dolori per lo stesso interdetto “vegetalizzato” -  sia pure in maniera obliqua (se è vero che potrebbe non saperlo mai lui!). Idoneo comunque a innescare  effetti depressivi entro la casa,   al limite spinte suicidarie; in ogni caso tentazioni di chiusura,  di fuga silenziosa dal mondo.

 

 

        19.2.  Perché la mancata abolizione

 

Non abbiamo avuto in Italia – questa la verità – il coraggio e la lungimiranza  che hanno dimostrato austriaci e  tedeschi;  i quali, nell’introdurre entro i  loro sistemi gli istituti della Sachwalterschaft e della Betreung, rispettivamente, non si sono dimenticati i doveri della linearità e della coerenza: e hanno  tirato sull’interdizione  e sull’inabilitazione un  rigo di  penna.

Altri paesi europei sono stati anch’essi meno irresoluti, o appaiono comunque più avanzati a livello applicativo. E nessuno di essi, a quanto risulta, ha rinnegato quelle decisioni o mostra  di rimpiangere il passato.

Svogliatezza tutta italiana, pigrizie  ingegneristiche del nostro Parlamento? Forse.  Superficialità, contraddizioni rispetto a un giudizio pur negativo pronunciato da tanti deputati e senatori,  in passato, nei confronti dell’interdizione? Senza dubbio.

 Peccato originale, colpe dei confezionatori della prima bozza di riforma? Anche probabilmente.

 

(i) Le spiegazioni  dell’accaduto sono abbastanza note.

Durante il Convegno triestino del 1986,  erano stati  manifestati dalla tribuna –  senza mezzi termini, da civilisti  fra i più illustri della penisola – giudizi di ferma  riprovazione per la scelta degli austriaci (compiuta nel 1983)  di eliminare addirittura dall’ABGB ogni traccia dell’interdizione.

 Per chi - in Italia – si accingeva a mettere in cantiere,  quell’estate,  il progetto di riforma relativo agli istituti del primo libro del c.c., tutto si complicava un bel po’.

Ogni ipotesi di lavoro aveva le sue controindicazioni, scegliere era difficile: “Meglio sfidare – ci si interrogava - quella che  appare un’opinione forse generalizzata fra i  nostri giuristi (nemmeno dei più conservatori!), e mettere in cantiere un progetto che prescinda dal richiamo all’interdizione;  con tutti i  rischi di insuccesso che un tale radicalismo potrebbe comportare? O meglio  puntare sulla soluzione più drastica,  maggiormente rispettosa delle ispirazioni  all’origine della 180, e imperniare  l’intera disciplina del 1° libro sul nuovo istituto di protezione, cancellando per sempre tutto il resto?”.

 

(ii) Quanto alle ragioni di quei sentimenti filo-interdizione, palesati al microfono triestino: ebbene,  non si può dire che ci si fosse dilungati più di tanto (da parte degli interessati)  nell’esplicitarle. Non quanto  - almeno - sarebbe stato opportuno, tenuto conto dell’importanza della posta in gioco. 

Sembrava darsi   per scontato,  in sostanza,  che l’interdizione proteggesse “di più” e con maggiore energia, severità. E non si chiariva tuttavia  dettagliatamente  il perché di un assunto simile -  né si  argomentava la supposta minor  pregnanza difensiva, con riguardo all’Austria,    di una Sachwalterschaft estesa dal giudice competente (all’occorrenza) al 100% degli atti da compiere.

 Né si dava notizia di particolari lamentele o disfunzioni emerse nel comparto psichiatrico dell’Austria, di fatto, durante i primi anni di applicazione dell’istituto.

I motivi reali, più profondi,  allora? Erano altri verosimilmente -  forse non del tutto consapevoli. 

Con tutta probabilità: una visione del disturbo di mente come patologia sconosciuta, ardua da contenere e impossibile da curare -  forse per molto tempo ancora.  La follia  come  simbolo stesso del male: qualcosa  dagli sviluppi spesso incontrollabili,  dalle origini talvolta sinistre, mefistofeliche, con margini sempre possibile di violenza tutt’intorno.

 Per la santabarbara del diritto privato, dunque:  una realtà da fronteggiare nel modo più roboante, stentoreo;  da arginare tecnicamente senza mezzi termini, avviluppandolo entro una sorta di camicia di forza disciplinare -   espropriativa di ogni capacità negoziale.

 

(iii)  Quanto diffusi  fra i giuristi italiani    potevano ritenersi sentimenti del genere?

Abbastanza - si sarebbe detto  quell’estate,  a Trieste, all’interno della sala del convegno. Non ci furono in effetti confutazioni  significative,  al microfono, perlomeno fra i privatisti presenti.

Fuori dell’aula chissà; del tema – in fondo - si parlava ancora abbastanza poco nell’accademia. I civilisti, per educazione congenita,  fanno raramente discorsi de iure condendo; e i  comparatisti  non si erano ancora avvicinati in forza all’argomento (come sarebbe poi successo). Agli psichiatri interessavano soprattutto i problemi applicativi della 180. 

Un sondaggio era difficile da organizzare.

Fu scelta in definitiva la via  della prudenza:  l’interdizione, seppur alleggerita di qualche spina,  restò nel progetto dei  mesi successivi.

 

(iv)  Qualora si fosse fatto diversamente – se l’interdizione  fosse stata tolta in radice dalla bozza, già alle prime battute  – la riforma di cui oggi parliamo sarebbe passata ugualmente? Il  Natale del 2003 ne avrebbe visto l’approvazione?

E’  difficile dirlo. Quindici anni fa probabilmente no. Oggi forse sì, magari a maggioranza dei voti invece che all’unanimità (com’è in effetti successo). Ma non è detto poi.

 E’ significativo  in fondo che nessun deputato o senatore,  nel Parlamento,  abbia assunto iniziative di rilievo per cambiare progetto in questi anni, per caldeggiare una soluzione all’austriaca o alla tedesca (paura di rovinare tutto, di rompere il giocattolo miracoloso? Sì, ma appunto!).

Nella law in action:  poi: di giudici  i quali guardino preferibilmente  al passato, che prendano tutto quanto alla lettera, che abbiano  esaminato nella loro vita soprattutto cose di diritto, che non siano mai entrati in un Centro di salute mentale -   che tutt’oggi difendono l’interdizione e dintorni -   quanti ce ne sono in Italia?

 

(v)  Forse non vuol dire,  però. Mai disperare in fondo: basta talvolta che un certo stendardo venga issato con sufficiente fierezza, convinzione, invece che timidamente come in passato,  affinché la battaglia – se è giusta in sé -  possa essere vinta.

Non diminuisce in nessun caso la gioia per l’amministrazione di sostegno che  è  stata approvata nel 2003.

Così funziona probabilmente il mondo; e l’interdizione non fa eccezione alla regola.  Quanti fra coloro che difendono oggi il secolare istituto,  de iure condito - e  mostrano di applicarla a cuor leggero, senza titubanze -  non sarebbero magari in prima fila, all’ indomani,  in una battaglia  de iure condendo per abrogarla?

Potrebbe bastare un referendum. Oppure una proposta formale di abrogazione,  magari  nella prossima legislatura;  e non è detto che a redigerla non potranno essere gli stessi  interpreti che si erano mossi, la prima volta,  nell’estate di 18 anni fa.

 

 

        19.3. Addolcimenti trascurabili

 

       Quanto all’oggi,  comunque. E’ sufficiente aver frequentato - come si diceva – qualche assemblea di famiglie di ragazzi down,  per rendersi conto in che modo vadano le cose nel 95% dei casi.

I parenti disdegnano pressoché sempre l’interdizione; piuttosto,  si rassegnano a inaugurare/perpetuare, nei fatti,  sequenze d’altro genere, decennali o sempiterne -   tessute di firme false, di procure invalide, di fughe dal notaio, di messinscene e sotterfugi di ogni tipo (v. anche retro, §§  7 e 19).

        Con i parenti dei malati di Alzheimer,  tutto poi è ancora più evidente. Piuttosto che chiedere l’interdizione del proprio compagno di vita, sino a ieri gentile  e vigoroso, una moglie - alle soglie magari della quarta età - è  pronta  a fare qualsiasi cosa. E lo stesso vale nel caso inverso.

Né va dimenticato che,  se  pure l’interdizione è stata addolcita dal legislatore del 2004 in un paio di passaggi (l’art. 414 c.c. è stato cambiato un pochino; un altro articolo, il 427,  consente oggi di far ricorso allo schema curatoriale per qualche atto da compiere), è rimasto in vigore  per il l’interdetto  invece il “no” al matrimonio, e così pure  il “no” al testamento, il “no” alla donazione, il “no” al riconoscimento del figlio naturale, e così via.

        Di fatto,  l’interdizione è rimasta quella di prima, anche nel nome. Il pedigree è quello di sempre.  E  il Tribunale non può fare nulla per ammorbidirla, neanche se vuole: è mancato nel nuovo testo l’inserimento di una previsione  speculare rispetto dell’art. 410, ult.co., c.c. -  ossia una norma volta a permettere ai giudici di tenere indenne il disabile, nel momento in cui lo si interdice, rispetto qualcuno degli impedimenti sopra indicati.

O tutto o  niente, prendere o lasciare.

 

 

        19.4.  Empirismo, duttilità

 

Va tenuto presente, d’altro canto: l’accertamento da effettuare,   rispetto   ai problemi di un soggetto svantaggiato – di quello specifico individuo (inconfondibile rispetto ad ogni   altro: per sesso, età,  provenienza geografica, tenore dei disagi patiti, censo, grado d’istruzione, etc.) -,    non è  davvero quello di un Giudice Supremo. Di un’autorità che debba cioè pronunciarsi,  in un sol botto,  rispetto alla vita intera della persona; definitivamente, irretrattabilmente.

 Minimalità degli approcci, discrezione: ecco  le misure da seguire rispetto a chi necessiti di appoggi. Toni leggeri, senso delle proporzioni, delicatezza; la persona  da sostenere è  ancora viva,  il calendario è quello, paradiso o inferno sono lontani.  Sutor ne ultra crepidam

Al centro della valutazione vi è soprattutto un’attività circoscritta, spicciola dell’interessato; un puntello  gestorio che si tratta di introdurre, spesso con sollecitudine, in vista di migliori standard stagionali.  E a tal fine l’amministrazione di sostegno basta e avanza nel 100% dei casi. 

Spesso  si tratterà di un solo affare da condurre in porto; talvolta di due o tre operazioni immobiliari, finanziarie, notarili, sanitarie. E comunque l’oggetto della decisione –  nell’ambito di una disciplina che si atteggia come flessibile, con un massimo di modificabilità/revocabilità, pure in via d’ufficio – sarà  spesso ristretto,  anche alla luce del ricorso presentato,  a spazi e a tempi  ben  precisi.

E’ il fare/non fare immediato che comanda: perché affannarsi nell’inventario  e nella disciplina - che sarebbe poi spesso ablazione o divieto – relativamente ad atti che la stessa impotenza del beneficiario (poniamo) garantisce non poter essere compiuti,  da lui, entro limiti di tempo ragionevoli? e che neppur si annunciano quali  appuntamenti significativi,   fra  le partite rimesse all’amministratore?

“State contente umane genti al quia”: la chiave per il decreto è niente più che quella dell’opportunità,  microcosmica/microeconomica; della corrispondenza fra emergenze da spuntare  e caratura d’insieme del provvedimento.

Tutto il dinamismo e la meticolosità che occorreranno, quindi; ma nulla in più: e se qualcosa andrà cambiato entro tre o sei mesi, si provvederà.  Ogni altra pretesa  - di elevare in partenza quel fuoco a dimensioni di  esaustività, di assolutezza   - soddisferebbe   forse   appetiti di melodramma, o di protagonismo; calpestando però  il significato materiale del petitum.

Diceva  G.B.Shaw "Sono vegetariano,  e  mi rallegro al pensiero che dietro la mia bara, dopo morto,  verranno ad accompagnarmi tutti gli animali che  da vivo  non  ho mangiato". Così anche ogni bravo Giudice o P.M.: a  consolarlo un poco –  degli  imbarazzi scaricati sul suo ufficio da una legge tanto ambiziosa – può essere il  pensiero che al  suo funerale parteciperanno, in fila, tutti i “diversi” che   in vita lui ha evitato di interdire, di inabilitare, di incapacitare senza motivo.

 

 

20. Riluttanze dei Servizi: il problema della pubblicità nei registri

 

C’è un rischio  da segnalare comunque, di natura diversa, che  si coglie nei dibattiti  sull’amministrazione di sostegno.

 Il discorso è complesso (v. anche retro, § 16.1). I servizi sociosanitari, soprattutto quelli psichiatrici,  si dichiarano talora preoccupati da quel passaggio della nuova legge in cui è stabilito che essi “sono tenuti” ad avvertire il giudice   - possibilmente con vero e proprio ricorso – circa l’esistenza di ogni situazione delicata di cui siano venuti a conoscenza (art. 406, ult.co., c.c.).

Il timore dichiarato è: “Se decidiamo di informare della cosa il giudice tutelare o il p.m.; e se poi arriva, in effetti, il provvedimento che introduce l’amministrazione di sostegno:  ebbene, tutto ciò  dovrà per forza essere annotato nel registro  di stato civile,  nonché entro il neo-costituito registro dell’amministrazione di sostegno. Questo  significa - ed è un male - dare pubblicità alla circostanza che qualcuno soffre di disturbi mentali. E noi operatori sociali detestiamo le  grancasse, le etichette;  vorremmo  evitare un risultato  simile,  sproporzionato e  non di rado poco terapeutico”.

Ecco il pericolo allora. C’è, così ragionando,    la possibilità che  in tutta una serie di ipotesi  - mettendo su un piatto il vantaggio di evitare situazioni  di inerzia, di coprire vuoti gestionali tramite il vicario;  e, sull’altro piatto della bilancia, il rischio per la persona “protetta” di andare incontro al disdoro di una pubblicità a tutto campo -  l’assistente sociale scelga di non avviare nessun procedimento. A costo di incorrere in qualche responsabilità.

L’individuo in difficoltà non avrà così, dalla sua, alcun amministratore che lo sostenga;  ma nessuno  al mondo (ecco il vantaggio)  saprà che lui non sta bene.

 Sin qui certi psichiatri.  Ed è palese che le due frasi possono però invertirsi. Nessuno verrà a conoscenza  - è pur vero -   che l’interessato accusa   guai  d’ordine amministrativo/esistenziale;  ma  accadrà che  un essere il quale ne avrebbe, in realtà,  bisogno resterà senza il tocco di qualcuno che lo assista.

 

 

21.  Un tavolo di lavoro istituzionale

 

E’ questo un punto  abbastanza importante.

Inutile sottolineare - quando si parla di istituti di protezione stabilizzata -     come la pubblicità rappresenti un passaggio difficilmente evitabile, per il diritto. La forma prescelta  al riguardo potrà anche essere la più discreta, succinta; il  principio generale resta però quello che s’è detto. Le esigenze di informazione/tutela dei terzi non possono trascurarsi più di tanto;  e il primo a soffrirne sarebbe del resto l’interessato (si indovina  dall’esterno che qualcosa zoppica,  vacilla, non c’è scritto però da nessuna parte che cosa sia permesso, fattibile).

 Per cominciare allora:  cento saranno di qui in poi -  per chi abbia a cuore il successo della riforma -   le iniziative da assegnare al territorio;   ma l’indicazione più importante  appare quella di lavorare affinché   in ogni città venga allestito un “tavolo di lavoro istituzionale”.

Un’aggregazione  - può subito osservarsi – di tipo  permanente, con valenze di coordinamento territoriale:  idonea  a collaborare soprattutto  con il giudice tutelare per i profili inerenti l’A.d.S.

Un tavolo composto, essenzialmente,  da rappresentanti del Tribunale, dagli uffici sociali del Comune, da enti della Cooperazione sociale,  dagli uffici del Dipartimento di salute mentale della A.S.L., dal volontariato, dalle famiglie dei malati di mente o comunque delle persone anziane, dei portatori di dipendenze, degli inabili. E i cui compiti sarebbero  soprattutto:

- predisposizione dei moduli/formulari  per la formulazione del ricorso  (griglie ben dettagliate nell’indicazione del perché si ricorre; nonché  precise quanto all’indicazione degli atti gestionali di cui al futuro decreto);

         -  tenuta e aggiornamento periodico  dell’albo, chiamiamolo così, degli amministratori di sostegno;

         -  organizzazione semestrale, città per città, di corsi di formazione per amministratori di sostegno:  in cui si discuta convenientemente di   diritto privato,  di   burocrazia moderna, di psicologia (stile di approccio, linguaggio, bisogni della persona,  fronteggiamento di necessità, modalità di comportamento il vicario),   di  organizzazione degli organi giudiziari, di tipologie dei servizi sociosanitari,  di cause del disagio  (demenze, Alzheimer, Down, disturbi del carattere, alcolismo, tossicodipendenze,  depressioni, schizofrenie, oligofrenie, sordomutismo, cecità, abuso di psicofarmaci,  suicidio, etc.: v. anche retro, § 6);

- monitoraggio periodico circa l’applicazione dell’amministrazione di sostegno  in quella certa città (quante pratiche, quali richieste iniziali, quali provvedimenti finali, quali tempi medi del procedimento, quanti deboli,  quali nomine, quanti anziani, quanti alcolisti, quanti tetraplegici, quanti assistenti, che tipologie di beneficiari,  quante decisioni assunte  d’ufficio, quante revoche e modifiche, eventualmente quante interdizioni e inabilitazioni, etc.);

         -  mappa delle “disinterdizioni” e delle “disinabilitazioni” da pianificare;

- gestione dei rapporti con banche e assicurazioni cittadine, messa a punto di schemi omogenei di allocazione depositi, investimento di beni  e proventi dei soggetti beneficiari;

         -  strutturazione di un sistema informatizzato  locale che gestisca, con  e a beneficio degli amministratori di sostegno locali (infra, § 23),   le pratiche periodiche/computerizzabili: riscossioni, pagamenti, pensioni, ratei di imposte,  etc.;

         - servizio di consulenza  gratuita (medica, psichiatrica, civilistica, penalistica, pensionistica, bancaria, assicurativa, psicologica, etc.) a beneficio degli amministratori di sostegno della città;

- rapporti  con strutture consimili di “tavoli/comuni”,  sia in  quella regione che nel resto d’ Italia.

 

 

22. Sostenere senza  (necessariamente) incapacitare

 

Va tenuto conto poi, sempre con riguardo ai rischi della pubblicità,  di un’altra serie di considerazioni.

(a) In primo luogo. Non c’è nulla,   nella legge in esame,   che impedisca al  giudice tutelare  - autorità cui spettano  le direttive base in materia -  di  pervenire, ogniqualvolta manchino nella vicenda  controindicazioni determinanti, alla prospettazione  di  una amministrazione “non incapacitante”.

Sarà doveroso anzi  per il giudice, ove quelli siano gli estremi fattuali, operare/concludere  in tal senso.

In effetti: è facile accorgersi,  nella trama della neo-disciplina,  come alcuni spunti testuali più severi - che a prima vista sembrerebbero far pensare alla impresentabilità di un simile assetto - risultino  oggettivamente bilanciati,  ed anzi sopravanzati,  da una serie di riferimenti  i quali  spingono in senso opposto (v. ad es. l’art.1).

E  le considerazioni  da svolgere sul terreno politico/ideale, poggianti a loro volta su ben precisi passaggi lessicali,  appaiono tutte, in generale, nel segno della inopportunità (dell’adozione) di una misura  con cui si tenda a qualche deminutio non giustificata dell’autonomia dell’interessato  - basta pensare all’art. 3 della Costituzione.

Qualsiasi diverso provvedimento  del giudice sarebbe quindi - occorre sottolineare - abusivo; e ogni lettura in senso opposto della legge esporrebbe i passaggi meno felici, da questo punto di vista, a una pronuncia di incostituzionalità.

 Concretamente: all’attribuzione di determinate facoltà al vicario, in sede di decreto,  non dovrà affatto corrispondere -  non necessariamente almeno -   una speculare ablazione presso il beneficiario. Potranno ben esserci  (così come  accade con la rappresentanza volontaria)   operazioni  suscettibili di venir  compiute,  indifferentemente, dall’uno e dall’altro dei soggetti. Magari,  chissà, tutti  quanti gli atti  che sono contemplati nel decreto; o invece quelli economicamente  più innocui:  oppure una parte limitata di essi.

Sarà il giudice  a stabilirlo: unica stella polare  per  la decisione essendo quella del presidio della  massima dignità/sovranità, rispetto all’individuo. In futuro poi:   là dove tracce eloquenti mancassero  fra le righe del decreto (su ciò che può essere fatto da  uno solo o da tutti e due i soggetti), si tratterà di interpretare  nel modo più accorto quest’ultimo – via via che la questione si ponga.

(b) Non va, in secondo luogo, dimenticato come sia  l’interessato a poter sollecitare, ove lo desideri,  l’adozione del provvedimento in esame. Lui in prima persona, senza filtri o intermediari di sorta.

Persino l’interdetto ha,  con la nuova legge,   facoltà di chiedere di essere “dis-interdetto”  - oppure l’inabilitato “dis-inabilitato” - e assoggettato eventualmente al regime più morbido oggi vigente (art. 406, 1° co. c.c.).

 In molti casi (tanto più spesso quanto più i risvolti mortificatori  appaiano, di fatto, trascurabili; c’è qui un gioco di influenze vicendevoli da mettere in conto: quanto più il nuovo strumento verrà dimostrandosi – nella prassi  - come una realtà  scevra di risvolti infamanti,  tanto più è probabile che chi ne ha bisogno sarà incoraggiato ad attivare sua sponte la  procedura; e quanto più iniziative simili verranno moltiplicandosi,  in concreto, tanto più l’istituto sarà  destinato a perdere connotazioni negative)  è plausibile che sarà  l’interessato a  prendere, direttamente,  l’iniziativa.

 (c) In terzo luogo: è  lo stesso svantaggiato che  ha facoltà,  se lo desidera, di indicare il soggetto da nominare come amministratore: chiarendo  via via al giudice – e già oggi l’esperienza avverte come ciò capiti tutt’altro che raramente – chi può,  a suo avviso,  andare bene e chi  invece male per  quel compito; e perché così dovrebbe  essere, e come il tutto è cominciato, in che modo è andata sin lì e  che cosa converrà in effetti decidere.

Sono le richieste e le aspirazioni del beneficiario, d’altro canto,  a costituire la traccia principale lungo cui si articolerà, sotto il profilo contenutistico,  l’intera attività dell’amministratore: pena reclami, sostituzioni o responsabilità sempre possibili.

 

 

22.1.  Tante  “procure vigilate”

 

 La conclusione è che ci troviamo, frequentemente,   nell’ambito di una (figura basata su una) sorta di delega, di mandato unilaterale; con in più un pizzico di controllo -  tanto o poco penetrante -  da effettuarsi ad opera del giudice tutelare. 

 Il vaglio da parte di quest’ultimo appare indubbiamente necessario, sulla carta -  troppe essendo le eventualità in cui l’interessato (non autosufficiente com’è per definizione)  potrebbe fare un uso cattivo dei  suoi poteri. Ecco uno  dei motivi  chiave della legge.

Non siamo però, statisticamente o dogmaticamente,  in presenza di un tratto idoneo addirittura  a stravolgere  - sul piano  identitario,  nei casi in cui quel timore sia giustificato -   il significato complessivo del procedimento. Si è calcolato che lo zoccolo pesante dei beneficiari non superi, in prospettiva, il 10% della clientela potenziale. 

E non a caso il campionario delle risposte in altri paesi dell’Europa  prevede, ogniqualvolta il tasso di negozialità/sovranità si profili abbastanza alto (perché così permettono le condizioni dell’assistito), che  il nulla-osta si articoli  all’esterno in chiave prettamente amministrativa, più che non giurisdizionale.

 Il riferimento prevalente cui far capo   (tanto più fondatamente quanto più verrà rafforzandosi l’affluenza in Tribunale della clientela leggera, compos sui) è allora  - si potrebbe riassumere – quello di una specie di  “procura vigilata”. 

C’è  un soggetto in difficoltà,  il quale domanda a chi è in grado di darglielo  (o qualcuno lo fa in  sua vece) un soccorso gestionale. Non è detto che alla base di quel  disagio vi siano ombre di tipo psichiatrico.  Si tratta di un cittadino che sarà certo vulnerabile,  sotto questo o quell’aspetto; ma  che intende   mantenere  fra le sue  dita gran parte delle briglie -  almeno sul piano informativo, spesso anche su quello decisionale - per ciò che lo riguarda.

Nessun serio  stigma sociale o culturale,   quindi,   quello destinato a incombere sull’amministrazione di sostegno. Nessun “artiglio” del sistema che cali dall’alto, come per l’interdizione,   opprimendo da ogni lato il beneficiario.

Nessuna preoccupazione eccessiva,  quindi,  per la pubblicità destinata a svolgersi nel  registro di stato civile.  E’  il diretto interessato che pilota, nella sostanza,  il 90% o più di se stesso,  non diversamente  da quanto accade a tutti -  come anche lui faceva quando  stava meglio.

 

 

        23. L’immagine trainante

 

Ecco allora l’amministratore di sostegno quale figura spesso atteggiabile, in definitiva, sub specie  di  un attento  “segretario particolare” (v. anche retro, § 13).

Una guida  fraterna,  da  supportare magari attraverso gli input  e  le (provvidenziali) risorse di  un computer ben organizzato, da parte del Comune di competenza.  Una banca dati -  si è detto -    da  allestire  preferibilmente in qualche stanza dell’Assessorato alle politiche sociali: in vista di una gestione dei frangenti più automatici, meccanizzabili, dei  cittadini indifesi.

Versamenti di imposte, mensilità associative, riscossioni, abbonamenti, mutui, vicende solutorie stagionali, cedole,  bollettini, elargizioni ricorrenti, quote condominiali, riscontri aziendali, pagamenti istituzionali. Tutto questo affidato all’elettronica.

Il resto invece al vicario/gestore:  chiamato a  fronteggiare -  come si vede -   soprattutto  le necessità sorgive,  le voci senza automatismi cronologici: istanze che  si  affacciano una tantum  nell’agenda, in maniera estemporanea, “sorprendente”.

 

Uno strumento di protezione dunque (quello introdotto nel 2004 entro il c.c.) fortemente  imprintato sul versante applicativo;  l’opposto di un robot, però: utile  per una manutenzione premurosa, attento all’avvenire immediato del beneficiario, sotto ogni punto di vista. Comunque un mezzo deputato a svolgere  ruoli d’interfaccia, in gran parte contingenti e secolarizzati -  seppur nella luce di una decisa  “fragranza” antropologica.

Ricordo quasi venti anni fa (retro  § 19.2.), allorché  ci si chiedeva: “Come chiamare la nuova creatura del primo libro?”. “Amministrazione di sostegno”,   fu il suggerimento  accolto infine; affinché apparisse enfatizzato anche verbalmente,  pazienza se con una locuzione alquanto commercialistica,  il nocciolo mondano del problema.

Avente a che fare – sottolineiamo  - non già con quanto si  muova “dentro” (nella testa, nei viluppi  corporei di qualcuno: se ne occuperanno altri operatori  o scienziati), bensì attinente a tutto ciò  che si collochi – sul terreno patrimoniale  e non patrimoniale  -  al di “fuori” dell’individuo. Toccando i  rapporti da istituire o da risanare con gli oggetti, con le persone care, la cura del benessere quotidiano,  talora il gusto  verso un (ritrovato) esercizio dei propri diritti soggettivi.

 

 


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