Introduzione al Trattato "Persona e Danno"
(editore Giuffrè)

 

 

di Paolo Cendon

 

Professore ordinario nell'Università di Trieste

 

 

 

1. In pochi altri  settori del diritto privato si è assistito -  durante gli ultimi anni -   a uno sviluppo  così  rapido e  impetuoso  degli orientamenti,  presso la  giurisprudenza di  merito e di legittimità,  quanto  nel campo del danno alla persona. E non sempre gli studiosi della responsabilità civile mostrano (si ha l’impressione)   di sapere esattamente  in quale direzione si sta andando/si dovrebbe andare.
Le recenti pronunce nn. 8827 e 8828 del 2003, della Cassazione, hanno sancito,  insieme alla sentenza n. 233 del 2003, della Corte costituzionale, un importante giro di boa   quanto alla sede in cui collocare la disciplina della materia. Qualche ombra    non manca,   tuttavia,    in queste  pur vigorose decisioni della primavera/estate.
Ci troviamo dinanzi  a testi alquanto laconici, di pochi capoversi  (timore,  da parte degli estensori,  di aver frainteso qualcosa della dottrina?  prudenza dinanzi a certe arditezze e/o divisioni letterarie dell’ultimo periodo?);     spesso a notazioni  approssimative  nei contenuti, con passaggi alle soglie dell’evasività o della reticenza. Come allorché,  da un lato,   si ricordano  al lettore le varie specie di  danno non patrimoniale raccolte, di qui in poi,  sotto l’egida  dell’art. 2059 c.c.,  dall’altro si  afferma che ogni distinzione fra l’una e l’altra figura,   entro il cerchio della norma in questione,   sarebbe  divenuta ormai inutile o  poco  opportuna (con le varie perplessità che tutto  ciò può suscitare: in che modo  esaudire, a quella stregua,  l’invito della S.C. ad evitare duplicazioni risarcitorie tra le differenti voci? come evitare di sovrapporre nei conteggi ciò  neppur sarebbe  consentito, sulla carta,  di nominare/analizzare partitamente?).
E’ soltanto un esempio.
Anche se  poi  nella trattazione delle controversie  i  tribunali,  di primo come  di secondo grado,  mostrano di procedere   in maniera  tendenzialmente equilibrata, rispetto ai nodi specifici  del danno non patrimoniale (senza  particolari timidezze,   lungo linee di crescente protezione per la vittima, sotto il profilo sia dell’an che del quantum respondeatur).  Anche se  - grazie alla maggiore importanza che assume abitualmente,  in sede di  decisione,   la logica di giustizia del caso concreto, più che non la preoccupazione circa il contenitore  numerico da preferire  nel c.c. -   è  alquanto  improbabile  che i modi di operare delle  corti muteranno  significativamente, nel prossimo avvenire. Rimane complessivamente, a  livello di scuola,   la sensazione di un intrecciarsi eccessivo di  parole  d’ordine,  comunque di una congerie di lemmi e indicazioni gestionali a  varie (troppe?) uscite.


2.
Molti  i passaggi,   in effetti,    con più esiti tecnico/prospettici  fra cui optare -   ciascuno in contrasto più o meno acuto rispetto agli altri. E la scelta in  prima istanza può non essere  facile.
Funzione afflittiva piuttosto che compensatoria del danno morale, ad esempio: oppure categoria del “fare” in contrapposizione con quella del  “sentire”. Opportunità di un ricorso allo schema nominale del danno-evento, invece che a quello del danno-conseguenza  (vantaggi e svantaggi  dell’uno e dell’altro assetto).  Attualità e significatività dei rapporti fra diritto penale e  diritto civile; pregi e difetti di una linea volta a  traslocare il danno biologico,  nonché il danno esistenziale,   sul terreno dell’art. 2059 c.c.
Tecnica del “rinvio” piuttosto che  della “riserva” di legge, entro l’art. 2059 c.c.; danni bagatellari  veri e finti, vecchi e nuovi, sopravvalutati o  sottovalutati. Ricostruzioni in termini patrimonialistici oppure no  per il danno biologico.  Tabelle e non tabelle  per la quantificazione giudiziale  -  quali, come,  dove, fino a che punto vincolanti, quanto autosufficienti.
E così avanti: correttezza o meno di un appello alla categoria della prevedibilità quale limite al risarcimento,  in ambito extracontrattuale; diritti violabili e inviolabili (calpestati) come condicio sine qua non della tutela;  valore chiuso oppure aperto dei richiami alle norme della Costituzione. Significato e portata della fascia  “idiosincratica”  della persona  e del  risarcimento. Ammissibilità o meno di un richiamo, di qui in avanti,  a categorie come quelle dei danni “di riflesso”, “di rimbalzo”.
Si potrebbe continuare   a lungo.


3.
  Quanto all’atteggiamento della  dottrina, nel corso dell’ultimo periodo.
Un  tratto che colpisce particolarmente,  rispetto anche ad autori non particolarmente familiarizzati con l’istituto della responsabilità, è la prontezza e disponibilità  a cimentarsi,  senza troppe ritrosie,    nel vaglio di ogni inquadramento tecnico che si affaccia sulla scena. Pressoché ognuno,  allorché il tema è quello del danno  non patrimoniale,  si sente abilitato a entrare dalla porta e improvvisare ad alta voce il suo parere sull’episodio -   poco importa  si tratti di tortmen navigati,  talora nemmeno di civilisti di professione, qua e là neppure di giuristi in senso stretto. 
Nessun confronto, da questo punto di vista,  con la prudenza e l’umiltà che si riscontrano  d’abitudine – presso gli accademici italiani -  in materia di contratti, di proprietà,  di diritto societario, di trascrizione, di famiglia persino.
Bene, male? La prima risposta,  verosimilmente; chissà però: e, in ogni caso,  uno dei passaggi centrali per spiegare una certa qual condizione di fragilità  (grammaticale, identitaria)   da cui finisce per restare avvolto, periodicamente,  l’intero  comparto extracontrattuale -  se è vero che l’effetto di tanti umori e fantasmi messi  in circolo è,  presso i  lettori meno accorti,   un ricorrente disorientamento  circa  il serio e lo scherzoso, una  scarsa distinguibilità  tra vero e finto delle  diverse sistemazioni;  intorno ai  termini stessi della posta  in gioco.


4.
  Propensioni,  retroterra biografici di chi interviene nel dibattito? C’è  un po’ di tutto  - si indovina - negli stili di riscontro e/o di commento, e nel   pedigree  accademico-professionale,  degli scrittori più  insistenti in  questi anni. 
Sullo sfondo di alcuni di essi. Il forte peso  della geografia liceale e universitaria, della culla primigenia di formazione:  la difficoltà  - per chi non rinuncia a pronunciarsi sul punto - di scordare anche per un attimo elementi quali la devozione al gruppo  di lavoro da cui si proviene, i doveri di fedeltà verso i maestri, i gusti e i desideri dei  capiscuola (più o meno esigenti e permalosi).
Per non pochi  esperti dell’illecito “a tempo definito”, comunque, impegnati su più fronti di lavoro, all’interno e all’esterno dell’università. L’impossibilità  di accantonare, nelle decisioni circa il campo scientifico in cui schierarsi, il pensiero circa il proprio status complessivo -  in primis le cause da sostenere, dentro e fuori al tribunale,  le consulenze, gli arbitrati in agenda,  gli affari, i pareri  imminenti. La  consapevolezza (inevitabile)  degli uffici  pubblici e privati ricoperti: gli impegni finanziari in corso,  le commissioni da coltivare o da presiedere, le attese e intese con le compagnie assicuratrici;   il risvolto dei vari tramiti mondani e civili in cui si è immersi.
Per molti interpreti, soprattutto professori e magistrati,   giovani e meno giovani.  Un vago spaesamento, emotivo ancor prima che culturale, una sorta di  imbarazzo (non sempre confessato)   dinanzi  a un mondo che sembra andare  troppo in fretta. Che non sta fermo un secondo.  La fatica di decifrare quanto  accade, allora,   talvolta la  riluttanza  a cogliere il senso di tante istanze e controversie,  a misurare il  rapporto con quelle precedenti -  con le parole chiave che non ci sono più, con quelle che trent’anni fa non esistevano, con tutte le altre destinate  a sopravvivere  (o  che  paiono avviate a   ritrovare un nuovo slancio).
A monte, ancora, nel passato di certi privatisti: la difficoltà quotidiana, per chi  sia (“vissuto”)  immerso in Facoltà  universitarie particolarmente dure, assorbenti, di sperimentare con pienezza,  al tempo giusto,  la realtà circostante, dolce o amara non importa. Il frequente radicarsi, sin dall’inizio, di una sorta di mitologia della rinuncia,  del sacrificio -  di un cupio dissolvi nelle pandette.
La diffidenza o il fastidio per le vittime  (quali danni concretamente?) viste come creature  per metà lamentose e per il resto profittatrici, incontentabili (con tutto quel che ne può  seguire, sul terreno delle citazioni o dei ricordi: il “Mercante di Venezia”, l’”Uomo che ride”, Totò salvato da Gino Cervi, il richiamo ai “benefici secondari” della malattia o della  disgrazia,  l’”Enrico IV” di Pirandello). L’idea comunque della necessità, per ognuno, di resistere con le proprie forze alle  avversità della vita, all’occorrenza il gusto di espiare -  il monito a chinare il capo di fronte ai torti subiti.


5.
  I riflessi immediati di tutto ciò allora,   le tentazioni o inclinazioni sul terreno del metodo,  anzitutto.
Un concentrarsi di interessi, nella letteratura dominante, intorno ai nodi dell’an respondeatur. Il primato della teoria, della dogmatica aquiliana; un risalto concesso in  via esclusiva,  nelle   sentenze,  alla parte iniziale dell’inchiesta -  quella inerente alle (scelte circa)  le prerogative formali da tutelare.
I  misteri dell’antigiuridicità   come questioni pressoché uniche,  in sede sia concettuale che pratica; i rovelli della causalità esaminati  ogni volta dall’alto, con schemi di sapore ottocentesco, in chiave prettamente formalistica. Un diritto salomonico, epurato da ogni scoria impura, antropologica; un sapere ostinato nel predicare l’equidistanza assoluta fra le parti, tanto sensibile alla tradizione  quanto affascinato dalle geometrie.
La realtà effettiva e giornaliera della vittima -  soprattutto rispetto ai  crinali di tipo non economico -   accantonata (o almeno sbiadita) sotto il pensiero delle reti di protezione esterne, dietro la costruzione nominale dei baluardi.


6.
  Degli interrogativi che si affacciano   sono molti   così   a non trovare   subito  – a non aver ottenuto finora  - una  soluzione appagante,  largamente condivisa.
Meglio,  ad esempio,  dovendo prestare  ascolto ai tempi che cambiano,    la  strada che punta a scandire formalmente l’incostituzionalità dell’art. 2059 c.c.? O  meglio   orientarsi  piuttosto,    come è stato fatto ultimamente dalla S.C., per un  mero ritocco in via interpretativa  (sia pur risoluto, dirompente) dello schema disciplinare  ivi congegnato? 
Ancora: come conciliare la formula di una  pretesa “tipicità” del risarcimento   in merito  alle ipotesi di  danno non patrimoniale,   con  il richiamo,  sempre più diffuso e inevitabile,  a clausole di sapore assai vasto, quali gli artt. 2 e 3 della Costituzione? Possibile,   in particolare,       che  nel sovrapporsi tra momenti quali “ingiustizia” di cui all’art. 2043 c.c.  e “lesione di interessi di rango costituzionale inerenti alla persona” ( rilevante ex art. 2059),  residui  una zona prescrittiva scoperta?    un’area entro cui risulterebbe  sempre garantito il ristoro dei pregiudizi patrimoniali, restando escluso invece quello delle poste di carattere non patrimoniale?
Così avanti: avrà senso concepire danno biologico e  danno esistenziale, di qui in poi,    quali categorie separate fra loro? Non sarebbe più accorto pensare alla fusione dell’un riferimento e dell’altro  entro un insieme generale -  intitolato (al di là del riscontro per qualche sub-differenza, sul terreno genetico e applicativo)  all’avvenuta compromissione per le “attività realizzatrici” della persona?
O se no: possibile  atteggiare tutt’oggi il danno biologico -  in quanto entità sostenuta da una perizia medico-legale -  quale dato che acquisirebbe per ciò stesso valenze “oggettive”, incontrovertibili;  mentre le voci del danno esistenziale, poco o nulla medicalizzabili come sono,  sarebbero  condannate a restare un quid  “soggettivo”, aleatorio?  E quand’anche: cosa  pensare (del tasso di volatilità)  di certe ipotesi, per la verità  ai primi posti  in qualsiasi classifica delle sfortune o delle cattiverie,  nonché assai diffuse nella prassi, di danno pur nominalmente “biologico”  -  quali le ripercussioni collegate alla perdita della capacità   di procreare, al danno estetico,   alle menomazioni del  gusto o dell’olfatto,  in generale alle lesioni  della salute psichica?
 Più ancora: qualora  la scelta fosse di perpetuare  l’accennata distinzione (tra corpo e non corpo),   non sarebbe logico fare altrettanto  sul terreno del “danno patrimoniale” -   contrapponendo  tra loro, in vista sia del danno emergente che del lucro cessante,   il gruppo delle situazioni  in cui il pacchetto aquiliano in gioco  coincide con la salute fisica   o psichica;  e il gruppo di quelle  in cui  il momento calpestato corrisponde invece   a beni o diritti d’altro genere, quali l’onore, la riservatezza, il nome, il buon funzionamento del processo, la correttezza nei comportamenti della pubblica amministrazione?  
E non si dovrebbe anzi,  giunti a quel punto,  fare altrettanto per il “danno morale” in senso stretto,   distinguendo fra loro, da un canto,   il dolore e le sofferenze di chi  sia stato  (poniamo) ferito o sfregiato al viso,  o sia impazzito per colpa di un altro -  e, dall’altro canto,  il dolore e i malesseri di chi si  veda toccato  nella sua reputazione,  oppure  nelle sua libertà,  o magari nelle sue prerogative di  scolaro, di lavoratore, di cittadino?


7.
  Così avanti con le domande.
Bisogna  credere che i  “cambiamenti” della primavera/estate  dell’anno 2003 abbiano comportato un rilancio effettivo,  e una conferma di sovranità disciplinare, per l’art. 2059 c.c.?  o  la verità non sarà  piuttosto  che si è finito per dar corso,  in quel modo,   a una sostanziale detronizzazione della norma in questione, a una sua riduzione a mera  appendice dell’art.2043 -   una scatola priva  di contenuto originale e di seria utilità  precettiva?
Ancora: meglio (continuare ad) accontentarsi di una nozione di danno non patrimoniale tratteggiata in termini  puramente frontali, negativi? o meglio puntare invece sul gioco di  una “scansione tassonomica”, in proposito,  che ricalchi  quella offerta dalle letture più moderne sulla responsabilità civile,  e che individui in maniera compiuta  - e non dilemmatica, tutta contrappositiva,  oracolare   - i distinti segmenti riportabili a quella locuzione?
Più in particolare, sui singoli terreni. Fino a che punto  sarà concepibile un risarcimento anche in zona endo-familiare -   ossia nei casi in cui   a subire la lesione sia   il membro di un  certo focolare domestico; autore del fatto  ingiusto risultando  non già un terzo estraneo, bensì  un soggetto  appartenente  anch’egli  a quella cerchia  casalinga? Quanto sul serio prendere i vari spettri di libertà minacciata e di burocratismo, che figurano agitati occasionalmente, da qualche autore, per legittimare la tesi  di una piena autosufficienza, anche rispetto ai profili del danno, delle norme di cui al primo libro del c.c.?
Lungo altri scenari applicativi. C’è da pensare che uscirà rafforzata o indebolita, dopo i recenti cambiamenti,  l’ipotesi di un risarcimento del  danno non patrimoniale per gli enti collettivi? E, sul terreno del quantum respondeatur: agganciare o sganciare il quantum del danno morale rispetto alla  misura stabilita per il danno biologico? Nella definizione delle cifre, poi: collegare  tra di loro -  al limite con formule di automatismo aritmetico -   la soglia riparatoria del danno morale e quella del danno esistenziale?
Di nuovo in generale: impostare in termini perentori - anzi ultimativi  - la scelta fra questa e quella funzione della responsabilità, con riguardo al risarcimento di questo o quel tipo di danno?  o postulare, al contrario,  che  la tutela aquiliana obbedisca pressoché sempre a un complesso di funzioni distinte, evocate e messe in campo allo stesso tempo (quella reintegratoria,  quella preventiva, quella sanzionatoria, quella distributiva, e così via), e solo intrecciantisi l’una con l’altra secondo diverse modulazioni, a seconda del torto messo in causa? 
Come strategia di fondo,  contabilmente e/o idealmente: fare della  ”gravità dell’offesa” arrecata alla vittima,  in via trasversale,   un presupposto necessario per l’accesso alla protezione aquiliana in campo non economico?  O ritenere, al contrario, che una soluzione del genere non appartenga alle tradizioni e alla realtà profonda del nostro  sistema -   osservando magari che un limite siffatto, qualora lo si volesse introdurre, dovrebbe  valere comunque per  tutte quante le figure di danno non patrimoniale, e magari a 360°?


8.
  Nuovi orizzonti di lettura poi -  sull’eco dei quesiti più specifici -  sfide ermeneutiche  o ricompositive di tipo inedito, che mostrano di schiudersi all’interprete.
Sempre più spesso viene  fatto riferimento così, da certa dottrina, all’idea di un  diritto alla “realizzazione personale” -   prerogativa che andrebbe  (si dice) riconosciuta ad ogni soggetto, accanto ai  classici diritti della personalità. E gli autori sottolineano  al riguardo:  
(a)
l’imprescindibilità, dal punto di vista della nomenclatura, di una messa dell’art.  3 Cost.  al centro delle  riflessioni anche  del civilista;
(b)
l’opportunità di un riassorbimento,  entro il nuovo stemma,  di ogni faglia portante della quotidianità - quella affettiva, familiare, procreativa; quella culturale, scolastica, scientifica, artistica;  quella lavorativa, politico-sociale associativa; quella dello svago, dell’ambiente, del gioco,  della vacanza;
(c)
la necessità, pensando a quanto possa intralciare   quel cammino,  di una congrua distinzione fra impedimenti  “giusti” e “ingiusti”;  enfatizzandosi nel contempo la multiformità degli strumenti di  tutela/rimozione  che sono previsti   dal legislatore,  a beneficio della vittima, pur al di là del  momento risarcitorio in senso stretto.

Che dire rispetto a tutto ciò?
Si tratta (ha sottolineato anche di recente Giulia Tornesello)   di una proposta  non poco suggestiva  sulla carta;  ed è  palese come più d’uno siano, però,  i  nodi complessivi da sciogliere. 
Dobbiamo credere di trovarci innanzi  - ecco un primo interrogativo -  ad un riferimento davvero originale, destinato a occupare una propria casella  entro la nomenclatura dei diritti?  o non piuttosto a  una  sintesi  dei  risvolti,   in chiave  proiettivo/teleologica,  delle varie posizioni tradizionali della persona?
Ammessa  la  prima (e più ardita)    configurazione: gli  ostacoli la cui mancata rimozione dovrebbe mettere in moto profili  di tipo preventivo o sanzionatorio saranno,   entro il sistema, soltanto quelli relativi ai soggetti “fragili”? O ci si vuol invece riferire con indicazioni  del genere, nella forma o nella sostanza,   anche ad individui  “forti”?  E  se è così: quando all’interprete  sarà lecito parlare  di un vero e proprio “diritto” (alla realizzazione personale/collettiva), quando invece di un semplice “interesse” - quali tecnicamente  i contorni e i limiti  del modulo in questione?

Applicativamente poi  - soprattutto nei   riguardi di  certe categorie di persone, in particolare per quanto concerne le fasce deboli. Guardare all’individuo oppure  al  gruppo,  come al centro portatore di una valenza di tipo generale, comprensiva di tutto quanto? o pensare invece a una  sommatoria  di  specifiche intraprese, per la vita futura, al combinarsi di singoli filoni relazionali, a una geometria complessa e variabile?  E quale  il  rapporto di somiglianza fra i diritti  “borghesi” tradizionali (quelli reali, quelli personali)  e i c.d. diritti “sociali” - soprattutto riguardo alle evidenze che sono ravvisabili sul terreno della libertà, della dignità,  dell’uguaglianza, ai diritti di accesso, alle categorie degli interessi diffusi, collettivi, legittimi?
 E d’altro canto: quale   il  posto di un (tragitto di) inveramento concepito, un po’ all’incontrario,   come ricerca di nient’altro che del silenzio, del marmo non scritto, del naufragio -   di una modellistica  tutta improntata  al culto del  non essere,  della mera contemplazione?


9.
Molte   le suggestioni che forniscono poi,  sul terreno metodologico,  i nuovi trend giurisprudenziali.
Prima fra  tutte,  in generale:  l’inclinazione (o comunque l’invito, per chi il diritto lo studi davvero)  a volgersi ai materiali della responsabilità  civile muovendo “dal basso”,  più  che dall’alto,  della vita e della scienza. 
Non tanto -  insomma   acrobazie nella rifinitura dei concetti, a livello di esegesi o di sistema; non già la Costituzione  intesa come archivio  di luoghi istituzionali da salvaguardare, asetticamente, nel lindo di una specie di santuario.   Piuttosto l’attenzione che viene orientandosi,   quasi in modo impudico  per il giurista, verso i  singoli filamenti individuali, familiari, relazionali,  da cui il mondo  della vittima appare contraddistinto.
L’appello ad inventariare allora,  per accoglierli entro il repertorio civilistico,   i risvolti lesivi di tutta una serie di reati - i vissuti specifico del contesto:  maltrattamenti, violenze, estorsioni, truffe, abusi e concussioni, minacce, droga, sequestri di persona, usura.
L’invito d’altronde -   ai lettori,  agli studenti -  a visitare occasionalmente    i fondali cronicizzati e i luoghi “popolari” del disagio. La spinta  a constatare cosa possa diventare (da dove provenga) talvolta il danno extracontrattuale: ospedali, quartieri degradati, centri sociali, luoghi di segregazione, comunità di recupero.
E  l’ascolto  dovuto,  comunque,  ai   racconti spontanei del danneggiato. Controllare il buon fondamento dei nessi eziologici, distinguendo la peculiarità delle voci esistenziali dalle altre,  evidenziando  i possibili momenti di tipo idiosincratico. Cogliere la filigrana  giornaliera, inseguendo la parte lesa dietro ogni angolo verso cui spinga  l’istruttoria, in tutte le pieghe  che   il curriculum (e la sua voce beninteso, anche non espressamente)  segnali   al giudice  della quantificazione.
Non scordando di misurare, beninteso,  la rilevanza delle partite  negative anche dal punto di vista dell’ingiustizia – nel dubbio  che le “attività realizzatrici” accampate potrebbero, qua e là,  non corrispondere a  segmenti meritevoli di tutela.


10.
La lex Aquilia  del terzo millennio allora - allorché messa in gioco, lungo i processi grandi e piccoli che si rinnovano -  come   una sorta di  laboratorio/filtro,   spesso di emergenza (null’altro  era stato tentato prima, niente potrebbe più attivarsi nel frangente, quale  reazione contro l’accaduto),   rispetto  a territori mai lambiti in precedenza dall’onda del diritto. Nel segno di un ordinamento  che  si presenta in evoluzione sottile, continua.
Il tribunale come luogo  in cui,  periodicamente, vengono a distillarsi (dinanzi  a certi misfatti, più o meno inediti, qualificabili  in termini di   illecito civile)  alcune  faglie iniziali di giuridificazione.
Risposte  limitate, occorre dire,  ferme  all'offerta di una somma di danaro,  quando il  conflitto  è ormai scoppiato,  causando perdite a qualcuno. Sanzioni  pronunciate  a botta  calda,   da un giudice che ha dovuto “inventarsi” alcuni tramiti (scompostamente magari) della fattispecie o della regola. In ogni caso  sorprese nei  verdetti, colpi di teatro, svolte disciplinari annunciate -  per le parti e per il pubblico.
Materiali comunque poco familiari  nel lessico ufficiale dell'ordinamento; esiti cui le riviste di  giurisprudenza  daranno presto  risonanza -  talvolta con reazioni vibranti, di  compiacimento o di scandalo,   fra  chi si impegna a commentarli.
Dal che poi  le colmature successive,   le varie integrazioni architettoniche,  attraverso il lavoro dei “formanti” interessati,   legislazione  e  giurisprudenza  soprattutto. Col  saldarsi progressivo di  statuti più ampi,  intorno a quel nucleo,   espliciti man mano  intorno al   momento   petitorio, possessorio,  successorio,  inibitorio, pubblicitario, poi a  quello recuperatorio, assicurativo, processuale, e così avanti: le ricadute medico-legali, quelle  forensi, i registri amministrativi,  tributari, penali, internazionalistici.
Talvolta,   si  constata,   con effetti di  ritorno   nella direzione primigenia degli assetti aquiliani -   donde la ricomparsa (a un certo punto)  di neo-figure  ormai adulte, mature,   lungo un gioco di chiusura  del  cerchio: sino  a nuove partenze verso  ulteriori circuiti  di  rifinitura, concettuale  e  operativa,  fuori e dentro  il  territorio  della responsabilità.


11.
Così  anzitutto - volendo offrire qualche esempio - per quel che concerne l’universo della famiglia: dove accade  frequentemente che norme già concepite dal legislatore in chiave solidaristico/partecipativa  si vedano riconsegnate all’istituto-madre, dopo soste più o meno tempestose  nel bagno aquiliano, con il corredo di nuove scale di lettura, sensibili al vissuto quotidiano e spoglie da ogni velo tecnicistico.
Lo stesso nel campo dei diritti della personalità:  dove è agevole  misurare quanto spesso, in vista della concessione di provvidenze ulteriori  e diverse dal risarcimento (sequestro, rettifiche, inibitorie, pubblicazione sui giornali, pene private, astreintes),  i torti e gli sgarbi del danneggiante vengano ad essere   apprezzati, grazie ai   riscontri   che il passaggio aquiliano può offrire,  misurandosi l’effettiva restrizione di orizzonti mondani che la vittima si trovi, via via, ad accusare.
Così  per quel che attiene, ancora, alla responsabilità in ambito medico: terreno ormai segnato dalla consapevolezza circa l’importanza  decisiva  del rapporto medico/paziente,  in ogni passaggio organizzativo del rapporto -  rispetto a qualsiasi versante suscettibile di venire in risalto: salvaguardia dell’identità del malato, libertà di autodeterminazione, igiene personale, delicatezza dei contatti, consenso informato, privacy, rapporti con l’esterno, adeguatezza dei servizi.
Così poi nel settore della malpractice psichiatrica; dove sempre  più mostrano di ricevere ascolto - dentro e fuori le mura delle cliniche (non ultimo per le suggestioni che esercitano una serie di condanne,  avvenute sul terreno della responsabilità penale e aquiliana)   -  le voci che si intonano a precetti di civiltà e umanità:  farmaci non distruttivi, allora, centri di salute mentale nei quartieri, convivenze e appartamenti sorvegliati, day hospital, terapie familiari e dinamiche, e poi collocamento orientato per i meno abili, scuole professionali, cooperative sociali, progetti di incapacitazione circoscritta e meno drastica.
Oppure -  restando sempre al campo della sofferenza umana -   per l’insieme dei frangenti in cui la vita viene declinando, ossia riguardo alla situazione dei malati terminali;  capitolo   segnato anch’esso (via via  che il  tempo passa)   dal soffio di approcci  medici, sociologici, legislativi,  sempre  meno alienanti o compiaciuti,  sempre più attenti alle valenze esterne di ogni gesto:   principio del consenso, living will, riservatezza, hospices,  dubbi sul senso di un’ostinazione terapeutica quando la soglia esistenziale mostri di scendere verso lo zero,  insofferenza verso ogni lentezza farmacologica (oppiacei, stupefacenti),  visioni non manichee della capacità, valorizzazione delle  residue faville di negozialità.


12.
  E’ sembrato opportuno -  in vista di una miglior comprensione dei mutamenti che sono in corso in Italia, nell’ambito del danno alla persona -   raccogliere   entro un ampio lavoro collettaneo  una  serie di  contributi  di vario genere, provenienti  da alcuni fra i   tortmen italiani.  
Qualche dettaglio allora.
 Nota comune  a ciascun studioso, fra quelli che hanno partecipato all’impresa, è l’accentuata  sensibilità  per i temi di ricerca cari  da qualche anno (fra l’altro)    ai civilisti del Dipartimento Giuridico dell’Economia dell’Università di Trieste.    Basta uno sguardo all’Indice-sommario per accorgersi,   ad ogni modo,  quanto il risultato si presenti  vario e composito,  sotto  il profilo quantitativo non meno che qualitativo. 
 La struttura complessiva, anzitutto: quasi un centinaio di capitoli, raccolti  in quindici parti intermedie,  distribuite a loro volta in cinque volumi,  per  un totale di oltre cinquemila  pagine.
 I tratti biografici/curriculari degli autori, poi: molti  gli universitari, con svariate graduazioni di lignaggio accademico;  e folta anche la presenza dei magistrati, degli avvocati, dei giuristi di altro tipo. Ognuno dei partecipanti  - all’interno delle  varie professioni – di  diversa provenienza geografica,  età, formazione di base, esperienza  di lavoro.
Particolarmente ricca e  qualificata la rappresentanza femminile.


13.
  Ampio  il ventaglio  dei temi affrontati – sotto ogni angolo  visuale.
Vi sono capitoli di più vasta portata (gli illeciti della pubblica amministrazione, ad es.,   oppure la categoria del danno non patrimoniale, i diritti della personalità vecchi e nuovi),  quelli di   media taglia (il danno ambientale, l’ingiusto licenziamento,  i rapporti fra disagio psichico e risarcimento), quelli di tenore più ristretto (la responsabilità. del locatore sotto l’angolo extra-patrimoniale, i danni da ingiusta detenzione, l’uccisione dell’animale d’affezione, i diritti di visita).  Si  parla   - in alcuni pezzi - di inconvenienti legati alle fasi d’inizio della vita  (inizi quasi sempre difficili, com’è nelle abitudini del diritto: le nascite indesiderate, allora, le malformazioni del feto), altrove di dolori e prerogative dei malati terminali (il diritto di non soffrire, il nodo della sospensione dei trattamenti,  l’eutanasia). Talvolta  i discorsi toccano in via diretta l’universo della sanità. (la responsabilità civile del medico, delle strutture, i servizi territoriali di salute mentale, l’assicurazione), altrove quegli aspetti appaiono solo sfiorati  o non c’entrano per nulla (la pubblicità commerciale, il bambino e la società dei consumi, la diffamazione a mezzo stampa). 
Si incontrano – a seconda di chi scrive -  approcci di tipo più culturale/metodologico (ad es. l’incertezza nel processo,  i criteri di ricerca per il giurista),  altrove il registro  è più applicativo, pragmatico (la prescrizione dell’azione risarcitoria, l’inversione dell’onere della prova, lo statuto del danno patrimoniale, le modalità di quantificazione del danno biologico). Compaiono  qua e là riferimenti poco consueti (ad es., i beni a valenza esistenziale),   alternati con tematiche  che sono nuove solo in parte (il mobbing, il c.d. danno da pericolo,  l’informatica e le minacce all’individuo); troviamo  titoli  consolidati   in letteratura,  sempre al centro però delle discussioni (la nozione di danno biologico, il maltrattamento dei  minori), e poi istituti tradizionali ma da poco rinnovati nella disciplina (l’usura, le immissioni, il danno morale in senso stretto),  o magari voci inedite in giurisprudenza (la responsabilità aquiliana. fra coniugi, l’illecito legislativo per violazione degli obblighi comunitari), o nella  stessa legislazione (l’amministrazione di sostegno per i disabili psichici).
Così avanti. Profili  o argomenti marcatamente tecnici o di scuola  (ad es., la dequalificazione professionale del prestatore di lavoro, l’ingiustizia del danno esistenziale),   o  questioni d’ordine più liquido-affettivo o sociale (i diritti  e i doveri dei nonni, la lesione della riservatezza tra coniugi, le molestie sessuali sul posto di lavoro).  Trattazioni  poco o nulla significative  in chiave di politica  del diritto (la responsabilità in materia di condominio), e titoli  invece con forti cariche  promozionali, politicamente delicati da affrontare   (l’attività contrattuale dell’incapace, le riforme legislative sul danno alla persona). 
Problemi fatti per intrigare  chiunque  dal punto di vista emotivo  o morale (ad es., gli abusi sessuali sui bambini), o  questioni povere invece di  risvolti  del genere  (la lesione dell’immagine degli enti pubblici, i prodotti dimagranti,  le voci del verbo fare).  Argomenti che, dal punto di vista interdisciplinare,  appaiono assai coinvolgenti (in che modo guardare alla follia, come proteggere le vittime di un plagio),  oppure  temi di scarso rilievo su quel terreno (la prova del danno),    o di risalto extragiuridico pressoché  nullo  (il dolo e causalità giuridica, la disciplina previdenziale del danno).   Materie tristi o  drammatiche per chiunque (la sieropositività e l’AIDS, il suicidio), altre invece  più leggere (lo statuto del turista, la disciplina dei beni d’affezione), o addirittura grottesche e  tragicomiche (la  responsabilità. del terzo complice nell’adulterio).



14.
   
Assai variegata,  sotto l’aspetto formale, la tipologia  dei capitoli.
 Quanto alla mole, anzitutto: vi  sono  -  nel trattato  - scritti brevi e   talora  brevissimi (limitati magari alle questioni di una sola sentenza);  altri di medio calibro, o   abbastanza lunghi, e in certi casi di notevole estensione (oltre le cento o centocinquanta pagine). Taluni pezzi prevedono un corredo di note,   a fine capitolo, altri invece constano solo del testo; qualcuno dei saggi ospita brani altrui in corpo piccolo, con cui l’autore dialoga man mano,   altri scorrono in un unico corpo dall’inizio alla fine. Le citazioni seguono talora i criteri normali,  in certi casi sono invece in Harvard style  (non manca allora  l’indice bibliografico,  a fine  capitolo). 
A ciascun autore in definitiva - al di là di pochi vincoli redazionali, utili a  conferire omogeneità al lavoro (paragrafi brevi, niente note a pie’ di pagina) – è stata lasciata libertà di fare come preferiva.
Anche l’occasione e la provenienza variano  secondo i casi. Molti  capitoli sono stati scritti appositamente per la presente opera; taluni costituiscono rielaborazioni,  più o meno profonde, di relazioni a convegni recenti. Vi sono pezzi che erano già stati pubblicati e  che - ritenendosi che il  tempo intercorso non ne avesse scalfito l’attualità,  che la difficoltà di reperirli nelle riviste fosse notevole;  che la spiegazione di alcune soluzioni  odierne  trovasse in essi una chiave significativa – si è pensato di riproporre  qui, con poche o pochissime variazioni. Altri  contributi,  già apparsi in qualche rivista,  o in  sedi diverse, sono stati  aggiornati e adattati (più o meno consistentemente) alle necessità  del trattato.
La gran parte dei pezzi è stata scritta a due mani. Pochi  quelli firmati da una coppia di autori.
Una certa varietà  vi è anche nella sostanza: qui domina un intento rassegnistico, documentativo,  là si tratta invece di  lavori più critici; certi saggi si mantengono a un livello generale, altri riguardano una categoria specifica di soggetti. Ciò non toglie che l’insieme delle pagine    si presenti come un quid compatto, armonioso; fra i tratti unitari più evidenti: la spiccata attenzione per la giurisprudenza (talvolta anche straniera).  l’inclinazione a letture non conformistiche, l’interesse per  ciò che è vivo nel diritto, il  rendiconto dei materiali accompagnato sempre dalla loro valutazione, la messa in primo piano dei bisogni e della secolarità delle persone; e poi l’idea degli istituti civilistici come entità poco autocratiche, un attento riguardo per gli esseri umani più indifesi e meno fortunati,  il collegamento fra nuovi danni e nuovi diritti, l’attenzione costante per il momento processuale.
Quanto all’accorpamento entro le varie sub-parti, hanno pesato motivi di contiguità tematica,  ma anche la finalità di semplificare la consultazione  - per il  lettore  interessato (poniamo)  all’analisi delle categorie di danno,  piuttosto che alle questioni di sistema,  all’ ultimo grido in Cassazione, alle ipotesi di riforma legislativa, ai versanti della prova e del quantum, e così via.
Pur collegato agli altri,  ognuno dei cinque volumi   possiede una propria autonomia funzionale (Indice sistematico all’inizio e Indice analitico alla fine  di ciascun tomo, entrambi per le materie specifiche).
I ringraziamenti infine. Tante sarebbero, in una pubblicazione così vasta,  le persone da ricordare: i singoli autori, chi ha dato una mano per la messa  a punto degli indici, lo staff Giuffré, e  così via. Mi limiterò ad un’unica menzione: senza la fervida collaborazione di Enrico Pasquinelli   - non solo nella veste di scrittore -   quest’opera non avrebbe mai visto la luce.
 


Paolo Cendon

 

 

 

 




 


 


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