Vincitori
e vinti
(… dopo la sentenza n. 233/2003 della Corte costituzionale)
Paolo Cendon - Patrizia Ziviz
1.
Il nuovo incontro avvenuto tra art.
2059 c.c. e Corte costituzionale, a metà dell’anno 2003,
non sembra candidarsi tra gli eventi indimenticabili della storia del
diritto italiano.
Nel complesso percorso che ha
visto l’intelaiatura della norma in esame sottoposta (rispetto alle prime
prese di posizioni degli interpreti, lungo
i decenni successivi al 1942) a frequenti rivisitazioni
e riletture, la pronuncia odierna della Consulta
pare destinata a costituire
nient’altro che una tappa intermedia. - se
è vero che molte tra le questioni
attinenti al danno non patrimoniale, all’interno della 233/2003,
appaiono sorvolate o
restano comunque irrisolte.
2.
Siamo dinanzi in effetti -
come tanti fra gli addetti ai lavori pronosticavano
del resto, soprattutto da qualche mese a questa parte (ma voci del
genere, bisogna dire, circolavano
da tempo nell’ambiente) - a una
mera pronuncia per relationem,
scarna ed essenziale nei contenuti. Un testo alquanto opaco nello stile,
di poche pagine, in cui si dà quasi tutto per scontato. La Consulta mostra di
non volere - o di non aver bisogno
di - esprimere una propria
posizione, in qualche modo
originale o innovativa, con
riguardo all’art. 2059 c.c.;
anche perché l’ordinanza di
base del Tribunale investiva, più
che altro, i nodi della
risarcibilità del danno morale rispetto ai casi di responsabilità oggettiva
(meglio, in ordine ai fatti lesivi tali da non consentire,
nella loro storicità, la
prova di colpe specifiche del convenuto, e
governati astrattamente dal c.c., in punto di danno patrimoniale,
secondo modulazioni arieggianti criteri
non soggettivi o presuntivi di
imputazione).
L’obiettivo per i giudici costituzionali
è in sostanza (la fornitura di) un avallo, autorevole, probabilmente
opportuno, rispetto alle più
recenti indicazioni della
Cassazione, circa la portata da riconoscere in generale all’art. 2059 stesso.
Il discorso si esaurisce in poco più che un rinvio
-burocratico, semi-parassitario-
rispetto a quanto
deciso ultimamente dalla Suprema Corte.
Ci si limita,
nella 233/2003, a una
ripresa verbale delle
argomentazioni di recente espresse da quest’ultima: alcuni
succinti capoversi, non poche somiglianze lessicali, nessuna aggiunta
imprevista o stravolgente rispetto all’ordito di base
- quello, per intenderci,
che era stato tracciato
poche settimane prima dal terzetto
delle sentenze di Cassazione nn.
7281, 7282 e 7283, nonché dalla coppia di sentenze gemelle nn. 8827 e 8828
(tutte del maggio del 2003).
Un perfetto lavoro di squadra fra i due organi giurisdizionali;
un gioco delle parti ben preciso.
3.
Vi sono comunque alcuni tratti
– di puntualizzazione
“alta”, di riassetto nominale - che
appaiono affrontati in modo
esplicito dalla 233/2003. Poco più
che rifiniture di maniera, a prima
vista, ma nient’affatto scontate
o irrisorie.
Rispetto a questi passaggi sarà interessante
tentare, qui,
un primo inventario.
Ci si potrebbe anzi chiedere, semplicemente. Fra le tante posizioni dottrinarie
e giurisprudenziali che sono emerse durante
l’ultimo decennio, nel dibattito
sul danno non patrimoniale (le
varie tesi e contro-tesi di cui la Consulta
parla, a un certo punto,
come di un “tormentato capitolo
della tutela risarcitoria del danno alla persona”:
e viene da obiettare che di
“tutela” occorrerebbe, in
verità, discorrere con
riferimento alla vittima della
lesione; che non può essere mai un
“danno” ciò
che il diritto mira a tutelare; che la precisione
appare tanto più necessaria, nel linguaggio,
quanto più ci si trova al centro del guado) quali
in concreto sono atteggiabili come premiate,
trionfanti? Quali invece, alla luce
dell’evoluzione della giurisprudenza di grado più elevato,
quelle che risultano sconfessate, accantonate?
4
Insomma: chi o che cosa –fra gli autori, le visioni d’insieme, le vie
d’uscita ermeneutiche o gestionali, le accademie
cimentatesi sul terreno dei “nuovi danni”-
può dire di aver vinto, chi o e
che cosa di aver perso, in
questa sentenza di mezza estate?
Prime impressioni allora – “di
bottega”, inerenti allo stile di
reazione prescelto.
Vince sicuramente,
nell’impianto della 233/2003, il
favor per un certo di tipo di strategia
diplomatico/cerimoniale -
quella da sempre imboccata in materia, ad opera della nostra
Consulta. Il protocollo contrario, cioè, a sancire formalmente
l’incostituzionalità dell’art. 2059,
e orientato invece a ritoccare in via interpretativa (prudentemente,
sommessamente) il sistema dalla stessa congegnato.
E’ cambiata rispetto a ieri,
nelle opzioni della Corte, la
tattica contingente di manovra
- e il risultato consisterà,
agli effetti pratici, in un’ennesima apertura nel ventaglio delle ipotesi
di risarcibilità, per il danno
non patrimoniale nel suo insieme (infra,
§§ 8, 24 ss.).
L’art. 2059, in quanto tale,
appare ancora tuttavia al suo posto; la scelta di non bollarlo con lo
stigma dell’illegittimità è quella che,
ancora una volta, ha prevalso.
5.
Mutamento di tattica abbiamo detto.
Vale a dire:
se, in passato,
il traguardo di quell’ allargamento veniva perseguito
dai giudici attraverso uno
svuotamento contenutistico dell’art.
2059 - con
operazioni di traghettamento all’esterno di tanti materiali
significativi (smistando le schegge
più intriganti del danno non patrimoniale verso altri contesti statutari) -
oggi l’itinerario della Corte appare
differente, per certi versi opposto.
Il “colpo” alle angustie della
precedente disciplina (perché di un colpo si è trattato, in realtà, e non da
poco: volendo continuare il gioco, si potrebbe
dire che a vincere, più di
tutto, è stata
proprio la decisione di
sferrarlo tout court, di voltare
drasticamente le spalle alla tradizione) figura assestato dall’interno.
Da parte della Consulta si interviene, senza
mezze misure, su quello che
rappresenta da sempre
il cuore pulsante di tale disciplina:
vale a dire il danno morale derivante da illecito penale.
In particolare: a risultare
abbandonato, da oggi in poi,
è il
-tralatizio, monolitico- orientamento
secondo cui l’accertamento del reato richiede/richiederebbe
la dimostrazione (della ricorrenza) di tutti quanti gli elementi
costitutivi del torto penale, anche quelli di carattere soggettivo. Escludendosi
ogni possibile raggiungimento di tale prova nelle ipotesi di negligenza
(dell’autore del fatto criminoso)
affidata semplicemente, come evidenza processuale,
al gioco di qualche presunzione.
A metà dell’anno 2003,
sull’onda dei recenti (e stravolgenti) assunti
della S.C. in
proposito, i giudici costituzionali proclamano,
senza più riserve o titubanze, che
il danno non patrimoniale derivante da reato
sarà risarcibile pur
allorquando la colpa dell’autore del fatto risulti, in sede di giudizio
civile, semplicemente da una
presunzione di legge – e ciò sempre che manchi, verosimilmente,
la fornitura di prova contraria da parte del convenuto.
(Ed è interessante rilevare come,
per respingere la questione di illegittimità così come prospettata
dall’ordinanza di rimessione, figurino utilizzate dalla Consulta
proprio le argomentazioni formulate in quella sede dal Tribunale – in
punto di rapporto tra giudizio penale e civile e possibilità di avvalersi,
nell’ambito di quest’ultimo, di uno dei mezzi di prova tipici dello stesso
– argomentazioni le quali sono
state, nel frattempo, fatte proprie dalla Cassazione, assurgendo così al rango
di diritto vivente).
6.
Detto altrimenti -simmetricamente-
allora.
Escono perdenti, nella
233/2003, tutti gli auspici o
scenari militari che miravano a
qualche rimozione plateale, stentorea, dell’art.
2059 dall’ordinamento nostrano, tramite
una vera e propria pronuncia di incostituzionalità.
La norma in questione, sorta di
araba fenice del diritto privato, continua
a vivere oggigiorno (a vegetare secondo alcuni) impenitente entro il sistema
italiano, benché modificata in
profondità nella sua fisionomia, per certi versi
elevata a splendori mai raggiunti (infra, §§ 8, 24 ss.),
per altri “spennacchiata” e ridotta
a una sorta di art. 2043 bis (infra, § 31).
Il numero di quattro cifre fra
2058 e 2060 esiste ancora,
comunque, entro il
c.c.; la rubrica
dell’articolo non è mutata di una sillaba. Il testo della disposizione
(stringato, guardingo) è in
apparenza quello di sempre, coi
suoi vocaboli, i suoi avverbi, le
sue preposizioni.
Un non giurista, fors’anche un
non tortman, potrebbe
a prima vista non accorgersi di nulla.
7.
Resta da precisare come l’operazione di maquillage
sia avvenuta, ancora una
volta, nel segno della scarsa chiarezza dogmatica – se non vogliamo parlare
proprio di scaltrezze laboratoriali,
di silenziose ipocrisie.
In effetti: il risultato concreto cui si potrà o non si potrà pervenire, nella
law in action, appare destinato a
dipendere in larga misura
dalla (maggiore o minor) disponibilità a
procedere, volta per volta, a
letture incardinantisi sul primato testuale di un criterio
di imputazione “colpevolistico” -
e ciò anche all’interno dei regimi “speciali” di responsabilità.
Ecco il terreno franoso allora, per
gli interpreti, e non servirà
neppur richiamare, in proposito, l’annoso
dibattito dipanatosi intorno alla ricorrenza, fuori dall’art. 2043 c.c., di
ipotesi di responsabilità fondate su criteri di imputazione di carattere
oggettivo. Ecco il busillis, cioè,
il doppio legame, per qualche aspetto l’ossimoro:
a tutti è ben noto come la
curvatura oggettivistica in esame (cioè la prospettazione in chiave
decolpevolizzata di molte fra le fattispecie di cui agli artt. 2048-2054 c.c.,
senza contare tante altre disposizioni
normative) sia stata propugnata, in ordine a
tutta una serie di ipotesi, pur a livello giurisprudenziale.
E’ evidente allora come,
rispetto a quelle situazioni codicistiche,
finirà spesso per
riproporsi nella pratica il
problema del (che fare dinanzi ad un) mancato accertamento in giudizio degli
estremi del reato - visto che
l’elemento soggettivo non risulterebbe provato/provabile
nemmeno attraverso il meccanismo della presunzione (v. anche infra, §
31).
8.
Quanto alle competenze dell’art. 2059, adesso.
Il quadro che esce complessivamente dalla 233/2003. è ben chiaro. Vince
un’indicazione di forte rilancio applicativo
per questa norma.
Dopo anni di progressivo
“svuotamento” -attraverso la sottrazione costante di voci
biologico/esistenziali alle
sue competenze, e il mantenimento
entro quell’orbita del solo danno morale soggettivo-
la Consulta, accogliendo in pieno le posizioni espresse da Cass. 8827 e
8828, mostra di voler avallare (il
ripristino di) una convinta signoria di bandiera,
per l’art. 2059, sull’intero
comparto non patrimoniale.
Inutile
sottolineare come, agli effetti disciplinari,
tutto ciò vada in senso esattamente opposto rispetto a
certe invocazioni del passato,
favorevoli a un “ritorno”
di principio verso i lidi dell’art. 2059 c.c. (v. anche infra,
§ 24 ss.).
Sciolta ormai nell’universo a 360° della Costituzione, la norma in esame
appare oggi ben altra cosa rispetto
a ieri. La riaggregazione dei
materiali sofferenziali/areddituali
mostra di avvenire nel segno di una cultura affatto diversa,
di una linea statutaria per
certi versi opposta a prima.
9.
Note ulteriori di consuntivo.
Escono perdenti
- nella 233/2003- gli orientamenti volti
a caldeggiare, a sessant’anni dalla prima apparizione dell’art. 2059,
una lettura di tipo sanzionatorio per
l’ultima norma del IV°
libro del c.c.
In effetti: la Consulta afferma a chiare lettere come
ogni registro di natura affittiva
(a suo tempo avallato dalla stessa Relazione al codice civile -
in verità alquanto sbrigativa e superficiale
già allora!) debba ritenersi smentito/superato,
alla luce delle più recenti innovazioni positive;
ossia degli sviluppi nella legislazione
italiana che hanno visto affiancarsi progressivamente, alla previsione di
cui all’art. 185 c.p., numerose
altre figure di risarcibilità del danno non patrimoniale.
Casi ai quali, bisogna dire, risultano
completamente estranei
-già ad un primo sguardo-
risvolti e valenze di carattere repressivo.
E ulteriore conferma di un simile assunto deriverebbe, nell’opinione dei
giudici costituzionali, dal necessario riscontro per le evoluzioni
giurisprudenziali che attengono all’universo non patrimoniale,
complessivamente inteso. Ciò in ragione dell’esistenza di voci
lesive (prima fra tutte il danno biologico)
che figurano attualmente risarcite, ex art. 2043 c.c.,
ben al di fuori di una rilevanza penale dell’illecito -
eventualità, questa, idonea
a postulare il gioco di finalità
non recriminatorie per quanto riguarda la riparazione del danno non
patrimoniale.
10.
Al di là ogni ispirazione punitiva, l’art. 2059 c.c. assolverebbe in
definitiva, secondo l’opinione della Consulta, una “funzione tipizzante dei
singoli casi di risarcibilità del danno non patrimoniale”. Ebbene, da tale
punto di vista -può osservarsi- i
dilemmi per la responsabilità restano in larga misura
insoluti (v. anche infra, § 24 ss.). Con quella formula non si fa, in
effetti, che sintetizzare il mero dettato esteriore
della norma. Resta oscuro e inespresso, invece,
lo scopo ultimo di una disciplina che appare volta ad ammettere,
come questa, il ristoro del danno
non patrimoniale in alcuni casi sì
e in altri casi no.
Detto altrimenti. Se il punto cruciale non è,
o non è più per il diritto civile,
quello di castigare un colpevole (in situazioni di spiccata reprensibilità
del suo comportamento), la spiegazione della differenza dovrà/dovrebbe
focalizzarsi sul versante specifico della vittima. Per cui si tratterebbe
– si tratterà - di chiedersi
perché mai in alcuni frangenti il
danneggiato andrebbe salvaguardato ex lege Aquilia,
in ordine ai patimenti e
nocumenti subiti, e in altri casi invece no,
pur restando identico di per sé il
pregiudizio patito.
Rimane aperto in definitiva, con
riguardo all’illecito, il
problema dell’individuazione circa le ragioni giustificatrici
su cui assiedere, funzionalmente, il
quia della limitazione di risarcibilità del danno non patrimoniale ai soli
“casi determinati dalla legge”.
Si tratta di interrogativi che, nella
sentenza n. 233/2003, mostrano
di essere ex professo accantonati -
poiché considerati privi di rilevanza, e quindi inammissibili, riguardo
alla vicenda sottoposta al suo giudizio. E’ invece un punto che andrebbe, in
generale, ripensato e attentamente
valutato oggigiorno, alla
luce del quadro emergente dalle più recenti prese di posizione della Suprema
Corte.
11.
Altro passaggio (forte, manifesto)
da rimarcare nella 233/2003.
Esce perdente, con questa sentenza,
ogni possibilità di atteggiare di qui in poi il territorio non
patrimoniale come realtà esaurentesi, distribuita
a metà, nel semplice
gioco del duetto “danno biologico” più
“danno morale”.
Battute in breccia appaiono, in particolare,
le tesi secondo cui pregiudizio “morale” e pregiudizio
“esistenziale” sarebbero, strutturalmente, la medesima
cosa - due facce di un’unica medaglia,
un quid da riparare una volta sola (al di là delle parole impiegate)
nel contesto di una stessa
sentenza.
E per i frequentatori di convegni sarà interessante, d’ora in avanti,
vedere se e come i
sostenitori di simile identificazione continueranno ancora a perorarla,
cimentandosi alla tribuna in esempi
lambiccati e impossibili.
Nessun dubbio, comunque,
quanto al pensiero e alle indicazioni della
Consulta. Pur a livello di
obiter dictum (v. retro, § 2), vi
è un formale riconoscimento circa
la pluralità morfologica da
ravvisare -quanto cioè alla
distinzione di campo da mantenere-
tra le poste classiche del ceppo non patrimoniale.
Più precisamente, vengono elevate/ricomprese
sotto l’egida di quest’ultimo, senza più reticenze di sorta (diversamente
che nella sent. 8828 della Cassazione), tre
partite generali di danno:
(a)
il
danno morale,
(b)
il
danno biologico,
(c)
il
danno derivante
da lesione
di interessi
inerenti alla
persona costituzionalmente
protetti (quest’ultimo,
definito, secondo le indicazioni
dottrinarie, quale pregiudizio esistenziale).
Respinte del tutto appaiono, in definitiva, le
postulazioni dottrinarie circa la (pretesa) sufficienza di una nozione di
danno non patrimoniale tratteggiata in termini
puramente negativi - a
fronte di una scansione tassonomica, che ricalca quella offerta dalle scuole più
moderne, e che individua in maniera
compiuta e non formale i distinti segmenti riportabili a quella nozione.
12. Altra posizione che esce sconfitta, nella 233/2003: quella vagheggiante il rifiuto del danno esistenziale quale categoria ufficiale, indipendente, del lemmario della responsabilità civile in Italia (possibilità adombrata, in maniera alquanto apodittica, dalla Cassazione nelle sentenze 8827 e 8828). E’ in tale passaggio della motivazione della Consulta anzi – nel crisma offerto solennemente al danno esistenziale, quale figura corrente ed unitaria dell’illecito aquiliano - che deve salutarsi, probabilmente, la nota di maggior originalità “catastale” rispetto alle recenti decisioni della S.C.
13.
Bollata ancora dalla Corte
costituzionale, seppellita anzi per
sempre, è poi
l’opinione secondo
cui il danno biologico - in
vista della sua (supposta) misurabilità attraverso una scala di valori
omogenei, socialmente condivisi - costituirebbe una voce di
natura patrimoniale (in qualsiasi modo inteso). E’ questa in verità
una notazione su cui -
negli scritti e negli
incontri di studio - si era venuto
insistendo sempre meno, e sempre più
pudicamente, durante gli ultimi
tempi. Anche
i (volonterosi) artefici di un’acrobazia qualificatoria del genere
- diceva André Gide: “Con i buoni
sentimenti non si fanno i buoni libri” -
glissavano
oramai da tempo sul
punto, preferendo affidare
a nuovi spunti l’apologia del
danno biologico.
I funerali
ufficiali non erano stati
però ancora celebrati.
Il
-già preannunciato- trasloco
sotto l’egida dell’art. 2059 ha l’effetto di sancire
per tabulas, da parte della Corte costituzionale,
il (riconoscimento del)
tenore “non patrimoniale” di tale posta.
14.
A uscire esaltata nella 233/2003
– ecco il vessillo che più
sventola - è
soprattutto la percezione circa la comunanza che lega fra di loro,
ontologicamente e funzionalmente,
il danno biologico e tutti gli altri danni non patrimoniali
derivanti dalla lesione di interessi di rango costituzionale inerenti
alla persona, nel segno della compromissione di qualche attività realizzatrice.
Sul
fondale di tale ricomposizione -
che valorizza come non mai i
topoi dell’attenzione
per il “fare/essere”, per l’ “agenda quotidiana”, per la
“qualità della vita” degli
esseri umani (che consolida il soffio di questi motivi al centro del giudizio di
responsabilità) - sarà appena il
caso di sottolineare come perda di significato,
nello strumentario del giurista, ogni
pretesa di contrapposizione
fra un danno “biologico” (pretesamente) oggettivo e un danno
“esistenziale” (pretesamente)
soggettivo, da assoggettarsi per
tale motivo a
differenti falsarighe disciplinari.
15. Nessun riscontro d’altronde - proseguendo con il censimento dei “sì” e dei “no” per le tesi passate - trovano nella 233/2003 le indicazioni circa la necessità/plausibilità di un qualche approccio restrittivo, fondato in particolare sull’inserimento di filtri quali la “gravità dell’offesa”, per le poste esistenziali non ricollegabili direttamente alla lesione della salute (anche uno sbarramento del genere era stato suggerito, a un certo punto della discussione; non senza buoni propositi, però forse con troppa immaginazione, e con un pizzico di diffidenza ingiustificata; si legge allora nell’Antologia di Spoon River, di Edgar Lee Master, epitaffio di George Gray: “And now I know that we must lift the sail – and catch the winds of destiny – wherever they drive the boat. – To put meaning in one’s life may end in madness, - but life without meaning is the torture – of restlessness and vague destre – it is a boat longing for the sea and yet afraid”).
16.
Più d’una – all’esito
di questi vari raffronti – le domande generali
che si pongono.
Anzitutto. Ha senso dopo la
233/2003 puntare ancora,
nominalmente o intellettivamente, sulla
distinzione tra “danno/danni di tipo (esistenziale) biologico” e
“danno/danni di tipo esistenziale (non biologico)”?
Non sarebbe più fondato un
percorso di unificazione concettuale fra le due figure,
come suggerito di recente anche dalle Sezioni
riunite della Corte dei conti?
Le sub-categorie proprie del danno patrimoniale, d’altro canto:
sono in grado di offrire, per
il modo in cui si presenta la loro diarchia,
qualche indicazione di lavoro?
A scorrere il testo della stessa
233/2003, poi: vi sono indicazioni di rilievo, fornite dalla Corte su questo
punto? Il taglio consequenzialistico
appare presentato in maniera
diversa, fra d. biologico e d.esistenziale?
In generale: si può ancora parlare in Italia di un sistema “bipolare”?
Lemmi come “patrimoniale” e “non patrimoniale” mantengono una ricchezza
apprezzabile di contenuto?
17.
Quanto al primo punto allora.
Più il tempo passa, meno facile diventa contestare
-avendo riguardo alla natura delle conseguenze prese in considerazione
(cioè alla comunanza dei
profili relazionale e
dialogico)- la forte affinità
di struttura tra le figure del
danno biologico e del danno esistenziale.
Sono palesi beninteso,
fra i due capitoli, le
diversità di tipo
“chimico/genetico” - con
le varie peculiarità che possono
derivarne in sede organizzativa; ad esempio,
ai fini del ruolo da far giocare alla medicina legale, rispetto
al senso e al peso orientativo da
riconoscere alle tabelle, e così via.
Il rinnovarsi odierno, da parte della Consulta, quanto
all’identità di sede normativa, cioè di destino disciplinare, diventa
tuttavia (ai fini della
modellistica aquiliana) l’elemento
determinante per orientarsi.
Si è passati ad un 2059 che è, ormai,
una sorta di controfigura secolare/esecutiva
del 2043. Ogni diversificazione fra biologico e non biologico pare
quindi destinata ad assumere, di
qui in poi, valori puramente
storico/archivistici (in ragione della nascita anticipata del primo, rispetto al
nido comune di appartenenza).
18.
Di qui l’approdo tendenziale – nella sala di comando dell’illecito - ad
una categoria
generale ed unitaria, intitolata
appunto al danno esistenziale,
e ricomprensiva di due sotto-alvei fondamentali:
(a) quello del danno
“esistenziale biologico” (luogo cui ricondurre tutte le ipotesi effettive di
aggressione alla salute);
(b) quello del danno
“esistenziale non biologico” (sede per le menomazioni inerenti a beni
diversi dall’integrità psicofisica).
19.
Non si tratta,
del resto, di una metodologia di
riscontri circoscritta al settore
delle ripercussioni “da attività
realizzatrici compromesse”. Analoghe, per tanti versi,
le modulazioni architettoniche ravvisabili presso agli altri settori del
danno. Il
“danno patrimoniale”, anzitutto. Nessuna distinzione
appare registrabile, nella
nomenclatura ufficiale, tra
(a) le figure risarcitorie in cui il valore
della persona - che è stato
colpito - corrisponda alla salute
fisica o psichica;
e (b) le figure in cui il valore personale
calpestato corrisponda invece
a beni o diritti d’altro genere (onore, riservatezza, nome, etc.).
Il “danno morale soggettivo”, in secondo luogo. Fra (x)
il dolore e le sofferenze di chi sia
stato (mettiamo) ferito o sfregiato
al viso, o sia impazzito per colpa
di un altro, e (y) il dolore e i malesseri di chi si è visto invece toccato
nella sia reputazione o nella sua libertà, nessun
solco di rilievo appare tracciato mai dal legislatore, in dottrina,
in giurisprudenza.
20. Quanto alla stessa sent. 233/2003, poi: non sembra diversa, a tener conto di certe spie linguistiche, l’impalcatura classificatoria che la pronuncia suggerisce. La citata sentenza fa, in effetti, riferimento al “danno biologico in senso stretto, inteso come lesione dell’interesse, costituzionalmente garantito, all’integrità psichica e fisica della persona, conseguente ad un accertamento medico” - e subito dopo accenna al “ danno (spesso definito in dottrina ed in giurisprudenza come esistenziale) derivante dalla lesione di (altri) interessi di rango costituzionale inerenti alla persona”. E’ palese fino a che punto la Consulta ravvisi per prima, implicitamente, nelle due voci in esame (il d.biologico, il d.esistenziale) semplici terminali di una medesima realtà di partenza: vale a dire - ancora una volta, per restare alla formula di cui alla “madre di tutte le sentenze” - la compromissione delle attività realizzatrici della persona.
21.
In merito poi al taglio consequenzialistico.
Può notarsi magari, pesando le parole col bilancino,
come nel testo della 233/2003
esso risulti
marcato:
- con maggior nettezza, in sede di definizione del danno esistenziale;
- meno limpidamente, in sede di definizione
di pregiudizio biologico (dove l’accento sulle conseguenze figura posto
addirittura, con notevole goffaggine, sul profilo probatorio, laddove si parla
di un pregiudizio conseguente ad un accertamento medico!!!).
Non sembra che a tutto ciò debba,
peraltro, attribuirsi particolare
risalto.
Se così non fosse comunque
-qualora sopravvivesse, nell’inconscio della Corte costituzionale, riguardo al
danno biologico, una sorta di
incrostazione eventistica (magari in
forza della suggestione proveniente da qualche
cattivo, recente,
testo di legge)- si tratterebbe,
semplicemente, di prendere
coscienza dei vizi
oscuri di fondo e
delle scorrettezze espressive.
Anzi, il corollario immediato (poiché
la posta in gioco non appare proprio trascurabile, sul terreno del processo)
è che la prossima
volta la Corte dovrebbe vigilare maggiormente,
nella scelta del linguaggio:
meglio rifuggire, in effetti, da
qualsiasi possibilità di equivoco -
meglio che l’omogeneità
verbale/sintattica tra le sotto-aree del danno esistenziale venga scandita con
fermezza.
22.
E’ palese a questo punto,
guardando le cose dall’alto della cattedrale,
come ogni insistenza sui
meriti di una classificazione binaria, o
tripartita, minacci di assumere sapori
quanto mai riduttivi. La realtà è che la mappa
generale del danno aquiliano sarebbe
casomai da articolare,
per il futuro, secondo una
scansione intonata al 2 + 3 oppure
al 2 + 2 :
- con l’area del danno patrimoniale distribuita, cioè,
fra le due sezioni del danno emergente e del lucro cessante;
- quella del danno non patrimoniale frazionata nei
poli del d.biologico e del danno
esistenziale (questi due appunto accorpabili insieme), nonché del
danno morale.
23.
Circa l’opportunità o meno di far capo,
tecnicamente e idealmente, ad un sistema risarcitorio di tipo
“bipolare”, si tratterà poi di valutare -
per capire dove stanno
esattamente i vincitori e i vinti - come
siano destinate a svilupparsi,
oggigiorno, le restrizioni
in materia di ristoro del danno non patrimoniale.
Occorre chiedersi, in buona sostanza, se dalla sovrapposizione tra
“ingiustizia” di cui all’art. 2043 c.c. e “lesione di interessi di rango
costituzionale inerenti alla persona”, rilevante ex art. 2059, emerga o meno
una zona scoperta - un’area a
fronte della quale risulterebbe garantito il ristoro dei pregiudizi
patrimoniali, restando invece escluso quello delle poste di carattere non
patrimoniale.
24.
Va detto subito allora come la reazione dell’interprete,
dinanzi a ipotesi siffatte di scomposizione,
non possa che essere radicalmente negativa.
E ciò proprio alla luce di quanto
affermato direttamente dalla Cassazione, nell’ambito
delle sentenze nn. 8827 e 8828 del 2003.
Vediamo infatti come la posizione della S.C. – formalmente improntata
all’apparente rigore di un ritorno all’art. 2059 c.c. – finisca per
delineare, in materia,
una griglia operativa estremamente ampia. Basta rammentare come i giudici
di legittimità fondino la risarcibilità, senza limitazioni, del danno morale
(subito dai familiari del soggetto ucciso) sulla lesione di un interesse
all’integrità morale, protetto dall’art. 2 Cost.; mentre il ristoro delle
conseguenze di carattere esistenziale appare anch’esso garantito, in assenza
di qualsiasi vincolo, una volta constatata la violazione di un interesse “all’intangibilità
delle relazioni familiari”, protetto dagli artt. 2, 29 e 30 Cost.
Orbene, molte appaiono le considerazioni da formulare a tale riguardo (ad
esempio, ci si potrebbe chiedere se quelli che vengono individuati come
interessi distinti non siano, invece, esplicazioni
del godimento di una medesima situazione giuridica: in questo caso, un diritto
di natura familiare). Di certo vi è che il medesimo ragionamento potrà
applicarsi a fronte di qualunque ripercussione non patrimoniale:
(a)
per
i pregiudizi di carattere morale potrà sempre essere messa in campo, come
fa la S.C., la violazione
dell’interesse all’integrità morale;
(b)
per
le ripercussioni dannose che coinvolgano la sfera personale esterna del
soggetto, sarà comunque
possibile ravvisare la violazione di un interesse alla libera esplicazione della
personalità, protetto dall’art. 2 della Cost.
Tutto ciò, beninteso, con le
riserve dogmatiche da rinnovare in
merito a siffatti processi di “eventizzazione” -
attraverso i quali il tipo di pregiudizio sofferto finisce, volta per
volta, proiettato automaticamente
al livello di interesse protetto. Tentazioni, preme sottolineare, neppur tanto
nuove per la S.C., come testimonia la recente decisione Sezioni Unite n.
2515/2002 relativa al caso Seveso.
25.
Ecco che, in quest’ottica, la neo-interpretazione costituzionale dell’art.
2059 verrebbe a corrispondere ad un vero e proprio smantellamento del sistema
restrittivo. Nessun’area (del pregiudizio) non patrimoniale si troverebbe
a subire limitazioni risarcitorie -
tali da prevedere un margine di tutela compresso rispetto a quello
assicurato ai pregiudizi suscettibili di valutazione economica.
S’intende, ad ogni modo, come tale
conclusione finisca per apparire ovvia nel momento in cui si prende atto del
rango costituzionale che è destinato, di per sé, ad assumere il danno non
patrimoniale - in quanto lo stesso
si palesa quale compromissione di
quella libera esplicazione (emotiva ed esistenziale)
della persona umana che appare alla base stessa della nostra Carta
fondamentale.
26.
Alla stregua di tali considerazioni
sarà appena il caso di
rimarcare il significato che
acquista - in
generale - il
trasloco del danno esistenziale dall’art.
2043 al 2059.
E’ fin troppo palese come tale passaggio corrisponda a un pieno, indiscusso,
successo della (idea favorevole alla)
necessità di una tutela senza vincoli “speciali”,
per simile posta risarcitoria.
La sottrazione all’art. 2059 c.c. figurava
bensì indispensabile,
sino ad ora, ma ciò proprio in ragione delle (anacronistiche) ristrettezze
previste da un “brontosauro” del genere.
E il danno esistenziale – è stato detto
– appare destinato per sua natura
a muoversi come l’acqua, la quale scorre verso
dove c’è possibilità di movimento;
come i soldi, che si indirizzano dove ci sono maggiori convenienze;
come un bambino, che corre presso chi
gli offre i dolci migliori.
Nel momento in cui si è dall’alto
(attraverso la 8828) rinunciato
a diaframmi e tagliole di sorta,
ecco l’approdo o il ritorno formale
a quella norma. Uno spostamento che andrà comunque salutato
(assieme - preme ancora una
volta sottolineare - a quello per
la posta gemella del danno biologico, rimasto per circa un ventennio entro
l’art. 2043) quale momento di
positiva armonizzazione per l’intero
sistema.
Graecia
capta ferum victorem cepit.
27. Ciò cui si perviene nel sistema è, in definitiva,
una piena uniformità di trattamento per l’universo non patrimoniale,
complessivamente inteso.
E’ anzi probabile che, in cambio
della perduta
o vacillante sovranità disciplinare
(sotto il profilo dell’an respondeatur), l’art.
2059 c.c. si
avvii adesso a diventare –nelle
aule di giustizia, nelle riviste di giurisprudenza,
nei siti on line, negli uffici degli assicuratori, nelle aule
universitarie, ect. - la norma
più “gettonata” dell’intero codice civile.
Potrebbero venire alla mente i vecchi avari di Dickens,
convertitisi a un certo punto alla generosità natalizia e
all’indulgenza (e che verranno da quel momento
salutati festosamente dai bambini poveri, ad ogni uscita per strada).
Oppure – tra i personaggi delle favole – ecco l’art.
2059 c.c. nelle vesti di bella addormentata nel bosco, e il danno
esistenziale come principe vagabondo e coraggioso (un bacio nel bosco che
risveglia dal sonno, allora, l’inizio a tanti anni dal 1942 di una nuova vita
rigogliosa!).
28.
Alcune
notazioni di lavoro, per
concludere.
Anzitutto: non è solo l’art. 2059 c.c. a
richiedere di essere interpretato (re-interpretato) costituzionalmente. Lo
stesso varrà per quanto
concerne l’art.
2043 e norme collegate.
E sarà la persona umana,
sottolineiamo, a trarne di nuovo
i maggiori giovamenti -
questa volta per quanto concerne (appunto)
il danno patrimoniale. In particolare, il
danno emergente e il lucro cessante collegato a una lesione della salute;
più in generale le ripercussioni
patrimoniali per gli assalti a tutti gli altri interessi protetti della persona.
Nessuna differenza, da questo punto
di vista, fra i due ordini di
norme.
29.
Inutile rimarcare, sotto altro profilo, quanto insoddisfacente riuscirebbe
un’interpretazione “costituzionale” (dell’istituto aquiliano) che si
incentrasse, accanitamente,
sul culto per la lettera pura e semplice della Costituzione.
E il pensiero, materiali internazionalistici
a parte, non può che andare
in proposito a tante fra le nostre leggi speciali più recenti.
In pochi altri casi, come
nell’illecito, - la normativa speciale mostra
in effetti di aver
influenzato tanto profondamente i concetti generali: così soprattutto per le
norme speciali sul danno non patrimoniale, approvate negli ultimi dieci anni,
che hanno rivelato a tutti come non fossimo sempre davanti a
danni morali in senso stretto, come non avesse senso una lettura in
chiave sanzionatoria del 2059, e così via.
Di qui appunto il no – ancor più categorico, oggigiorno
- rispetto a qualsiasi (tentativo di) prospettazione
della Costituzione quale lastra tombale dei
diritti della persona, come luogo meramente
autoreferenziale, ove ogni riferimento sarebbe definitivo
e mummificato.
30.
Ora che i tormenti dell’an
respondeatur e delle norme di fondo sembrano attenuati, potrà
inaugurarsi, finalmente,
una stagione di seria
attenzione per i profili del quantum?
E’ sperabile di sì.
Ed è appena il caso di sottolineare – aggiungiamo - come ciò appaia
destinato a valere non solo per il danno esistenziale non biologico (che pur
avverte con particolare acutezza, sulla
sua pelle, sfide e rovelli del
genere, e che non può dire di
vedere ancora all’orizzonte un sistema di risposte davvero appagante e
consapevole), ma anche per il danno biologico in senso stretto (dove le
questioni rimangono quelle di sempre, ma tutt’altro che composte in modo
soddisfacente), in particolare per
il danno psichico (vera stanza del castello in attesa di spalancare i suoi
segreti al visitatore), e per lo stesso danno morale.
31.
Di quest’ultimo abbiamo appena detto l’essenziale:
restano pendenti -
oltre al resto - i vari nodi
che attengono ai profili dell’an respondeatur.
Bollettino per il lavoro immediato della Consulta, dunque:
quanto a lungo, parlando di
dolore e di lacrime, ci si
potrà accontentare dell’odierno
allargamento gestionale ai casi di responsabilità
speciali? Quali ipotesi
significative, nella law in action,
rischiano di restare scoperte? Se,
come ha sottolineato la 8828/2003, è il 2043
che “comanda” essenzialmente
rispetto al 2059, non è
sensato che la clausola dell’ingiustizia vada
ripresa e additata quanto prima, anche
sul terreno del danno morale, quale stella cometa (necessaria e sufficiente) di
riferimento?
A quando insomma
l’ufficializzazione dello stemperamento
- per il limite normativo dei “casi determinati dalla legge”
- nell’orizzonte generale della Costituzione,
e cioè in definitiva dell’ordinamento giuridico per intero, con tutte le sue
severità e le sue ricchezze?
Sono punti su cui la 8828
della Cassazione sembra essersi già espressa con relativa chiarezza. Non
sarebbe male se la Corte costituzionale facesse altrettanto quanto prima.