Cassazione – Sezioni unite civili
sentenza 11 maggio-20 luglio 2000

 

Presidente Vessia – relatore Vitrone

Pm Lo Cascio, conforme – ricorrente I.P.

Svolgimento del processo

Nei confronti di I. P. venivano iniziati quattro procedimenti disciplinari relativi a comportamenti da lui tenuti nell’esercizio delle sue funzioni di sostituto procuratore e poi procuratore aggiunto della Repubblica presso il tribunale di M. per violazione dell’articolo 18 del Rdl 31 maggio 1946, n. 511:

- il primo (Rgn 99/95) per aver omesso di segnalare tempestivamente al Consiglio superiore della magistratura l’attività professionale forense esercitata dal coniuge M. C. M., con studio in un immobile in parte sublocato a E. A., specialista nella materia penale-tributaria, la cui conseguente incompatibilità non poteva egli ignorare per essere stato pubblico ministero nel procedimento a carico di S. C., difeso dall’avvocato A., e per il quale egli aveva speso il suo interessamento presso i colleghi A., M. e F.;

- il secondo (Rgn 43/96) per aver mancato gravemente ai doveri di correttezza, lealtà e probità connessi con l’esercizio di correttezza, lealtà e probità connessi con l’esercizio delle funzioni giudiziarie per aver dichiarato falsamente ai magistrati ispettori ce né lui né la consorte conoscevano, all’epoca in cui egli aveva svolto le indagini preliminari, alcuno degli indagati nel procedimento a carico di G. G. ed altri, nonché per aver violato l’obbligo di astensione in considerazione dell’attività svolta dal coniuge in difesa della NN Assicurazioni, di cui il G. era amministratore delegato, e, infine, per essersi limitato al mero conferimento dell’incarico di consulenza tecnica all’A, suo amico, concludendo poi le indagini con un’immotivata richiesta di archiviazione in favore di numerosi indagati, tra cui O. R., persona conosciuta dai coniugi P.;

- il terzo (Rgn 13/98) per aver omesso la verbalizzazione delle dichiarazioni rese dall’indagato S. C. in relazione a pretesi fatti di estorsione da lui subiti da parte di tale A. A. e nei quali sarebbero stati coinvolti i magistrati R. D. e S. M., e per una serie di abusi d’ufficio e indebiti interessamenti presso altri magistrati nel procedimento a carico del C., per i quali era stato rinviato a giudizio dal Procuratore della Repubblica di B., giudizio conclusosi con sentenza di assoluzione del Gip di B. per insussistenza dei fatti;

- il quarto (Rgn 20/98) per aver sollecitato o comunque accettato a titolo di liberalità da R. A. S., amministratrice della Srl G. di M. l’assunzione a carico di detta società dei costi di allacciamento e di esercizio di un telefono cellulare dal 23 ottobre 1981 al 1° gennaio 1995 per un importo di 6 milioni 307mila lire fatti per i quali era stato iniziato un procedimento penale a carico del P. conclusosi con decreto di archiviazione del Gip di B.

La Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, con sentenza del 27 novembre 1998-4 febbraio 1999, riuniti i quattro procedimenti, dichiarava il P.responsabile di talune delle incolpazioni di cui ai procedimenti 99/95 e 43/96, interamente responsabile di quelle a lui ascritte nel procedimento 20/98 e, previa dichiarazione di estinzione per intervenuta decadenza del procedimento 13/98, lo condannava alla sanzione della perdita di un anno di anzianità.

Premesso che il giudicato di assoluzione in sede penale del magistrato con la formula "il fatto non sussiste" non precludeva in sede disciplinare ogni diversa valutazione dei fatti, ferma restando l’immutabilità dell’accertamento di essi nella loro materialità, e quindi col solo limite che il giudice penale avesse escluso il loro verificarsi come meri accadimenti materiali, la Sezione disciplinare osservava che la decadenza per decorso del termine di un anno dall’inizio del procedimento disciplinare riguardava solo l’incolpazione relativa all’omessa verbalizzazione delle dichiarazioni di S. C. mentre l’indebito interessamento per la sorte dell’indagato sopravviveva come indice della situazione di incolpabilità delineata nel capo di incolpazione dei procedimenti riuniti 99/95 e 43/96.

Passando all’esame delle singole incolpazioni la Sezione disciplinare osservava che l’esercizio dell’attività professionale da parte della consorte del P., pur non integrando una situazione di incompatibilità ai sensi dell’articolo 18 del Rd 30 gennaio 1941, n. 12, costituiva pur sempre la violazione di una precisa e rigorosa regola di condotta segnata dal Consiglio superiore della magistratura, che, con la circolare n. 6750 del 19 luglio 1985, aveva posto a carico dei magistrati l’obbligo di segnalare con cadenza biennale nell’apposito questionario all’uopo predisposto la sussistenza di taluna delle situazioni descritte dall’articolo 18 ord. Giud. Anche in relazione al coniuge. La regola di correttezza così specificata era stata violata dall’incolpato, il quale non aveva informato il Consiglio superiore dell’attività svolta dalla moglie e della condivisione da parte sua dello studio professionale con l’avvocato A., il quale gli era ben noto in quanto avvocato specializzato nella materia penale tributaria, che era la stessa trattata dal P. presso la Procura della Repubblica di .M. Né il silenzio serbato su tale circostanza poteva dirsi superato dalla incompleta e parziale comunicazione agli ispettori ministeriali nel corso di un’ispezione ordinaria compiuta nel 1993, poiché essi non dipendevano dal Consiglio superiore e non avevano obbligo alcuno di riferire a detto ufficio quanto veniva loro comunicato nel corso delle ispezioni effettuate. Tale condotta omissiva acquistava un connotato di ulteriore riprovevolezza alla luce dei fatti accertati dal giudice penale, il quale aveva evidenziato i reiterati interessamenti del P. presso i colleghi in favore dell’indagato S. C., difeso dall’A., ed aveva espresso ampie riserve sull’ortodossia di tale comportamento pur escludendo che esso integrasse gli estremi del reato di abuso d’ufficio o di altri reati.

Per quanto concerneva l’incolpazione relativa alla mancata astensione nel procedimento a carico di G. G. ed altri, la Sezione disciplinare osservava che, pur avendo il legislatore conservato per il pubblico ministero la semplice facoltà di astenersi, ciò non autorizzava il magistrato di tale ufficio a ignorare l’esistenza di gravi ragioni di convenienza che rendessero necessaria e doverosa la sua astensione, come si era verificato nella specie, in quanto il P. esercitava le funzioni di pubblico ministero in un grave e delicato processo nei confronti di persone investite di ruoli di comando in una società che era cliente della di lui moglie, con conseguente pregiudizio per la credibilità della conduzione delle indagini e discredito per l’ufficio di appartenenza e per l’ordine giudiziario. Né poteva escludere la colpevolezza del P. l’invio di una lettera con la quale l’avvocato M. dichiarava di interrompere il suo rapporto professionale con la NN Assicurazioni in ordine agli incarichi futuri, poiché tale comunicazione, avvenuta tre mesi dopo la designazione del P. a trattare il procedimento contro il G., non valeva a porre nel nulla i rapporti pregressi.

Infine, con riferimento al contestato pagamento dei costi di esercizio di un telefono cellulare da parte della Srl G., la Sezione disciplinare, procedendo ad una rilettura dei fatti accertati dal Gip di B. nel decreto di archiviazione con il quale si era concluso il procedimento penale a carico del P., osservava che l’accettazione del pagamento dei costi di un’utenza telefonica intestata alla società per un apparecchio in uso al magistrato era circostanza pienamente provata ed ammessa e, indipendentemente dall’accertamento che si trattasse di un regalo sollecitato o meramente accettato, presentava profili di sconvenienza tali da far sorgere una precisa responsabilità disciplinare. Si trattava, infatti, di vicenda che non poteva essere ricondotta alla sfera della vita privata del P. poiché questi, nell’accettare una erogazione ripetuta nel tempo e potenzialmente indeterminata da parte dell’amministratrice di un’impresa e a carico dell’impresa stessa, si poneva consapevolmente al di fuori dell’ipotesi dell’accettazione di un donativo di valore contenuto, conforme alle usanze sociali proprie dell’ambiente del magistrato, ai cui parametri occorreva far riferimento, avendo egli accettato un’elargizione che era particolarmente riprovevole per un magistrato operante in posizione di responsabilità nel settore della repressione dei reati economici e fiscali.

Passando alla determinazione della misura della sanzione applicabile, la Sezione disciplinare osservava che ciascuno dei tre capi di incolpazione presentava un’obiettiva e rilevante gravità in considerazione del fatto che l’incolpato esercitava le funzioni di procuratore aggiunto di un importante ufficio giudiziario e, per i compiti che gli erano affidati, aveva uno specifico dovere di attenzione e di linearità di comportamento, mentre la sua condotta era invece apparsa gravemente scorretta, non trasparente e ispirata a una disinvoltura che ne aveva gravemente compromesso l’immagine e il prestigio di magistrato.

Contro la sentenza ricorre per cassazione I. P. con cinque motivi illustrati da memoria.

Non hanno presentato difese gli intimati.

Il difensore del ricorrente ha presentato brevi osservazioni scritte sulle conclusioni del pubblico ministero.

Motivi della decisione

Con il primo motivo il ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli articoli 18 e 29 Rd.lgs. 31 maggio 1946, n. 511, in relazione all’articolo 360, n. 3, Cpc, e, in subordine, denuncia l’illegittimità costituzionale del citato articolo 29 per contrasto con gli articoli 3, 24 e 27 Costituzione.

Sostiene al riguardo che l’interpretazione posta a fondamento della sentenza impugnata – secondo cui nel giudizio disciplinare sarebbe possibile rivalutare i fatti accertati in sede di giudizio penale contro l’incolpato anche nel caso in cui questi sia stato assolto perché il fatto non sussiste con sentenza passata in giudicato – contrasterebbe con un ben radicato orientamento secondo cui in tal caso la sentenza penale fa stato in sede disciplinare e impedisce il rinvio dell’incolpato al dibattimento, sicché la facoltà attribuita al …. dell’azione disciplinare di decidere se debba farsi luogo a procedimento disciplinare potrebbe essere esercitata solo quando l’incolpato sia stato prosciolto in sede penale con formula diversa da quella che il fatto non sussiste o che l’imputato non l’ha commesso, poiché in tali casi dovrebbe ritenersi preclusa ogni indagine di diversa natura in ordine ai fatti già accertati nella sede penale. Ciò perché l’incolpato si troverebbe vincolato a un giudicato in ordine agli elementi valutativi e accertativi del suo comportamento rispetto al quale gli sarebbe preclusa ogni possibilità di difesa, essendo pacifico che la sentenza penale di assoluzione con formula piena non è suscettibile d’impugnazione da parte dell’imputato.

La contraria interpretazione comporterebbe del resto una patente violazione del diritto di difesa, poiché l’incolpato si troverebbe di fronte alla preclusione nascente dal giudicato in ordine ad accertamenti di fatto da lui non contestabili con i normali mezzi di impugnazione, nonché la violazione del principio di presunzione di innocenza perché l’incolpato verrebbe a subire gli effetti sanzionatori di carattere disciplinare per i medesimi fatti ritenuti insussistenti in sede penale; risulterebbe infine violato il principio di eguaglianza per la disparità di trattamento tra i magistrati e gli altri pubblici dipendenti, nei confronti dei quali troverebbe applicazione un diverso criterio di efficacia del giudicato penale.

La censura non ha fondamento perché investe una affermazione della sentenza impugnata priva di sostanziale portata decisoria.

Va considerato infatti che l’unica sentenza di assoluzione del P. per insussistenza del fatto si riferisce ai capi di incolpazione posti a fondamento del terzo procedimento disciplinare (Rgn 13/98) conclusosi con una declaratoria di estinzione per intervenuta decadenza e, quindi, con una pronuncia favorevole all’incolpato.

Né, poi, rileva che la sentenza impugnata, dopo aver illustrato la disciplina dei rapporti fra processo penale e procedimento disciplinare a carico dei magistrati, abbia avuto cura di precisare che la declaratoria di estinzione riguardava in realtà solo l’incolpazione relativa all’omessa verbalizzazione delle dichiarazioni di S. C., mentre l’indebito interessamento per la sorte dell’indagato sopravviveva come indice della situazione di incompatibilità delineata nei capi di incolpazione dei due precedenti procedimenti disciplinari, poiché, non avendo il P. mai contestato i fatti accertati dal giudice penale relativi all’attività di interessamento presso i colleghi nel loro accadimento materiale, anche tale precisazione si rivela del tutto superflua ai fini della decisione, essendo mancata ogni contestazione al riguardo da parte dell’incolpato che richiedesse la necessità di una specifica pronunzia in ordine alla rilevanza nel giudizio disciplinare dei fatti accertati nella sentenza di assoluzione del giudice penale per insussistenza del fatto.

Ne consegue che il ricorrente è del tutto privo di interesse ad impugnare un punto della pronuncia il quale deve essere considerato come una elaborazione meramente teorica, anteposta come premessa all’esame delle singole incolpazioni.

La rilevata carenza di interesse alla proposizione della censura in esame comporta l’assorbimento di ogni indagine in ordine alla rilevanza e alla non manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate in via subordinata.

Con il secondo motivo il ricorrente denuncia un’ulteriore violazione delle medesime norme con particolare riferimento al punto relativo all’omessa segnalazione della situazione di incompatibilità derivante dall’attività professionale svolta dal coniuge e, dopo aver riproposte le medesime censure già esaminate e respinte nell’esame del motivo che precede, sostiene che erroneamente sarebbe stata desunta una situazione di incompatibilità non prevista dalla legge dalle prescrizioni di una circolare ministeriale che, non avendo natura di fonte primaria del diritto, non potrebbe incidere autonomamente sulle situazioni giuridiche soggettive dei magistrati, tanto più che la norma che prevede situazioni di incompatibilità deve ritenersi di stretta interpretazione e, in quanto tale, insuscettibile di applicazione estensiva. Denuncia altresì varie incongruità della motivazione, consistenti nel rilievo attribuito all’omessa comunicazione di una situazione già nota e dichiarata agli ispettori ministeriali, all’ubicazione dello studio del M. e alla valorizzazione dell’affermazione contenuta nella sentenza penale in ordine all’ortodossia del comportamento dell’imputato, sulla quale il giudice penale si sarebbe limitato a dichiarare, con una espressione di valore neutro, che non spettavano a lui valutazioni di sorta.

Premesso che il rinvio … censure già espresse in via generale con il primo motivo rende superflua una rinnovata esposizione delle considerazioni formulate al riguardo, deve ritenersi destituito di fondamento anche il motivo in esame, sia con riferimento alle ulteriori censure di violazione di legge, sia con riferimento ai dedotti vizi di motivazione.

Va considerato, infatti, che la sentenza impugnata non ha operato alcuna arbitraria interpretazione estensiva della norma dell’ordinamento giudiziario che stabilisce le incompatibilità di sede per i magistrati con parenti o affini che siano iscritti nel locale albo degli avvocati o che comunque vi esercitino abitualmente l’attività professionale, poiché la mancata previsione della medesima situazione di incompatibilità nei confronti del coniuge, se non comporta la sua eliminazione con il trasferimento d’ufficio del magistrato ad altra sede, ben può essere valutata, in caso di mancata ottemperanza all’obbligo di comunicazione introdotto dalla circolare del Consiglio superiore della magistratura, sotto il profilo dell’illecito disciplinare a carico del magistrato che abbia omesso di segnalare all’organo competente l’attività professionale forense esercitata dal coniuge, senza che ciò introduca una limitazione ulteriore del diritto all’inamovibilità fuori dei casi previsti dalla legge.

Parimenti insussistenti sono i vizi di motivazione denunciati, i quali si appuntano contro singole affermazioni della sentenza impugnata, avulse dal consenso in cui trovano la loro logica collocazione.

E infatti la sentenza impugnata ha fornito una logica e corretta motivazione in ordine alla irrilevanza della comunicazione effettuata dall’incolpato agli ispettori ministeriali, osservando che si trattava di una comunicazione non solo incompleta e tardiva, ma anche rivolta ad organi che non avevano alcun obbligo di riferirne al Consiglio superiore, nei cui compiti istituzionali rientrano i trasferimenti e i provvedimenti disciplinari nei confronti dei magistrati.

Inoltre, per quanto riguarda le modalità di esercizio dell’attività professionale della consorte del ricorrente, esse sono state correttamente valutate in un contesto argomentativo svolto a dimostrare la inescusabilità della mancata comunicazione al Consiglio superiore, nell’ambito del quale la condivisione dello studio con altro professionista, che doveva ritenersi noto al ricorrente per una serie di ragioni puntualmente esposte in motivazione, costituiva una circostanza di indubbio rilievo la quale contribuiva a connotare negativamente la condotta reticente dell’incolpato al fine della sua qualificazione come comportamento contrario ai doveri d’ufficio.

Infine, va rilevato che le considerazioni espresse dal giudice penale in ordine all’ortodossia di una condotta sia pur non rilevante sotto il profilo criminoso sono state colte nella loro esatta portata, in quanto l’affermazione evidenziata dalla sentenza impugnata non ha affatto carattere neutro ma esprime appieno il disagio del giudicante il quale, pur non potendo sanzionare penalmente il comportamento dell’imputato, non ha potuto esimersi dal sottolinearne il disvalore, che non può sottrarsi alla giusta considerazione in sede disciplinare.

Con il terzo motivo viene denunciata la violazione dell’articolo 18 del R.d.lgs. 511/1946 e dell’articolo 53 Cpp, in relazione all’articolo 360, nn. 3 e 5, Cpc, e si sostiene che erroneamente sarebbe stata ritenuta omissione disciplinarmente rilevante la mancata astensione, peraltro facoltativa, del ricorrente nel processo G., poiché tale comportamento sarebbe stato imputato al ricorrente senza alcun esame dell’elemento soggettivo della sua condotta, e quindi a titolo di responsabilità oggettiva, che non è ammessa con riferimento all’illecito disciplinare, e ciò perché l’attività professionale svolta dalla consorte in favore della NN assicurazioni non poteva ritenersi elemento determinante ai fini della omessa astensione, non potendo ignorarsi la differenza esistente fra società di capitali e persone fisiche che ricoprano cariche nell’organizzazione dell’ente.

La censura non può trovare accoglimento poiché la distinta soggettività giuridica delle società di capitali e dei loro amministratori non valeva a far venir meno l’obbligo per il ricorrente di segnalare al capo del proprio ufficio la circostanza che egli era stato designato a trattare un processo nei confronti dell’amministratore delegato della società per cui la consorte svolgeva la sua attività professionale, imputato di reati non estranei alla conduzione aziendale, e ciò è sufficiente ad escludere qualsiasi attribuibilità dell’illecito disciplinare a titolo di responsabilità oggettiva, non potendo dubitarsi, quanto meno, della negligenza del P. nell’esercizio delle proprie funzioni, atteggiamento negativamente qualificato in motivazione come "disinvolto".

Con il quarto motivo viene denunciata la violazione e la falsa applicazione degli articoli 18 e 19 del R.d.lgs. 31 maggio 1946, n. 511, in relazione all’articolo 360, nn. 3 e 5, Cpc, e si sostiene che erroneamente la sentenza impugnata avrebbe omesso di riconoscere al provvedimento di archiviazione in ordine alla vicenda relativa all’accettazione del pagamento nel costo di esercizio di un apparecchio telefonico cellulare dall’amministratrice della Srl G. di M. efficacia preclusiva in sede disciplinare. Osserva al riguardo che il provvedimento di archiviazione in sede istruttoria esprimerebbe una ancor più marcata infondatezza delle accuse rispetto al proscioglimento dibattimentale e che a maggior ragione dovrebbe ritenersi contrastante con gli articoli 32, 24 e 27 Costituzione una disciplina che rendesse del tutto privo di effetti ai fini disciplinari il provvedimento di archiviazione del giudice penale. Si denunciano infine carenze della motivazione in ordine all’asserita esclusione della vicenda dal ristretto ambito della vita privata del ricorrente e circa la imputabilità dei suoi comportamenti nonché alla loro incidenza negativa sul prestigio dell’ordine giudiziario.

La censura di violazione di legge con riferimento ai rapporti fra decreto di archiviazione e procedimento disciplinare non ha fondamento perché, come già affermato da queste Sezioni unite (sent. 11 maggio 1995, n. 5132) il decreto di archiviazione non osta a che il fatto, la cui esistenza sia stata positivamente accertata, venga posto a fondamento della responsabilità disciplinare, che si perfeziona con comportamenti idonei a ledere la considerazione e il prestigio di cui devono godere il loro autore e l’ordine giudiziario indipendentemente dalla rilevanza penale dei comportamenti stessi, in considerazione delle diverse finalità che caratterizzano il processo penale e il procedimento disciplinare nei confronti degli appartenenti all’ordine giudiziario.

Non essendo stati addotti argomenti di portata tale che inducano a rivedere il predetto orientamento interpretativo non si ritiene necessario un analitico riesame dei termini della questione in una prospettiva di ordine generale e di rilievo costituzionale.

Del pari insussistenti debbono ritenersi i vizi di motivazione denunciati dal ricorrente perché la sentenza impugnata ha giustificato con corrette e adeguate argomentazioni l’affermazione che nella specie il P. si era ricevuto una elargizione che, per il suo importo e per la sua reiterazione nel tempo, esorbitava dall’ambito dei doni conformi alle usanze sociali proprie dell’ambiente del magistrato e connotava di evidente sconvenienza il comportamento del ricorrente che, nonostante la sua posizione di procuratore della Repubblica che si occupava di reati economici e tributari, aveva accettato che una società commerciale si accollasse il costo di un’utenza telefonica posta nella sua completa disponibilità, di modo che non poteva escludersi un visibile e diretto collegamento con il ruolo professionale da lui svolto.

Tali argomentazioni appaiono più che sufficienti a sorreggere sia il riconoscimento degli estremi dell’illecito disciplinare in un comportamento ritenuto privo di rilevanza agli effetti penali, sia la inescusabile negligenza del P. che non mostrava di possedere la indispensabile sensibilità nella individuazione dei confini invalicabili tra vita privata e attività professionale.

Con il quinto ed ultimo motivo si denunciano un’ulteriore violazione delle medesime norme e vizi di motivazione con riferimento alla sanzione irrogatoria, non essendo stata accertata la potenzialità lesiva della credibilità del singolo magistrato, dell’ufficio di appartenenza e dell’ordine giudiziario dei singoli comportamenti, che, se considerati isolatamente, avrebbero potuto comportare una diversa valutazione in ordine alla loro gravità. Inoltre la sanzione della perdita dell’anzianità risulterebbe sorretta da una serie di proposizioni assertive che non consentirebbero di individuare la ragione per la quale, nella gamma delle sanzioni disciplinari previste dalla legge, sia stata adottata quella di estrema gravità inflitta al ricorrente.

La censura non ha fondamento in quanto la sezione finale della sentenza impugnata relativa alla determinazione della misura della sanzione disciplinare ha necessariamente natura riepilogativa di tutte le argomentazioni svolte nell’esame dei singoli illeciti disciplinari, le quali hanno adeguatamente evidenziato l’imputabilità e la gravità dei relativi illeciti accertati a carico del P., ribadendo la scorrettezza del comportamento dell’incolpato. Non può, inoltre, dirsi ininfluente la pluralità dei fatti accertati, non essendo senza rilievo agli effetti della valutazione della loro gravità la reiterazione dei comportamenti lesivi del prestigio dell’ordine giudiziario poiché ciò conferma l’esistenza di un atteggiamento negligente perdurante nel tempo che è indubbiamente più grave rispetto a una singola occasionale violazione delle regole di condotta proprie di un appartenente all’ordine giudiziario.

Né, infine, la sanzione irrogata deve essere necessariamente determinata all’esito di una comparazione con le più lievi sanzioni disciplinari astrattamente previste dalla legge, costituendo tale determinazione l’espressione dei poteri discrezionali del giudice del merito, insindacabile in sede di legittimità allorquando, come nella specie, essa sia sorretta da una corretta e adeguata motivazione.

In conclusione, perciò, il ricorso non può trovare accoglimento in nessuna delle sue concorrenti articolazioni e deve essere rigettato.

La mancata partecipazione al giudizio degli intimati preclude qualsiasi pronuncia sulle spese giudiziali.

PQM

La corte, pronunciando a sezioni unite, rigetta il ricorso.