CORTE DI CASSAZIONE
SENTENZA N. 2050 DEL 22
gennaio 2004
Cassazione - Sezione quarta penale
sentenza 25 novembre 2003-22 gennaio 2004, n. 2050
Presidente Olivieri - relatore Brusco
Pg Hinna Danesi - ricorrente Ministero dell’Economia e delle finanze
ed altri
La Corte osserva
I) Premessa. La Corte d’appello di Genova, con ordinanza 6 febbraio
2003, ha accolto la domanda di riparazione dell’errore giudiziario
proposta da Barillà Daniele che, con sentenza 17 luglio 2000 della
Corte d’appello di Genova, non impugnata, era stato definitivamente
assolto con la formula "per non aver commesso il fatto" da reati,
concernenti il traffico illecito di ingenti quantitativi di sostanze
stupefacenti, per i quali era stato in precedenza condannato alla
pena, divenuta definitiva, di anni quindici di reclusione e lire
150.000.000 di multa, con sentenza 7 dicembre 1993 del Tribunale di
Livorno parzialmente confermata dalla sentenza 1° dicembre 1994
della Corte d’appello di Firenze (che aveva soltanto ridotto la
pena); quest’ultima decisione era divenuta definitiva a seguito
della sentenza 25 ottobre 1996 della Corte di cassazione.
A seguito di questa vicenda Barillà, aveva subito una detenzione,
prima cautelare e poi in espiazione di pena, pari ad anni sette,
mesi cinque e giorni dieci.
La Corte genovese, dopo aver nominato due periti per l’accertamento
delle conseguenze di natura psico fisica della detenzione (con
particolare riguardo ai riflessi sulla capacità lavorativa) e di
quelle di natura reddituale derivanti dalla cessazione dell’attività
d’impresa in precedenza svolta dall’istante, ha determinato l’entità
della riparazione (dopo avere nelle more liquidato una somma a
titolo di provvisionale) nella somma complessiva di euro
3.947.994,00, oltre alle pronunzie accessorie (interessi decorrenti
dal 1° gennaio 2003, spese di difesa, spese della procedura ecc.).
Contro questo provvedimento hanno proposto distinti ricorsi (in gran
parte di identico contenuto) l’Avvocatura distrettuale dello Stato
di Genova e il Pg presso la Corte d’appello della medesima Città
deducendo vari motivi di ricorso (che verranno di seguito
analiticamente esaminati) riferibili ai criteri utilizzati dalla
Corte di merito per la determinazione dell’entità della riparazione.
Ha resistito il difensore di Barillà con memorie con le quali ha
chiesto la dichiarazione di inammissibilità dei ricorsi e comunque
il loro rigetto.
Il Pg presso questo Ufficio ha concluso chiedendo il parziale
accoglimento dei ricorsi.
II) Questioni preliminari. Con la memoria datata 10 novembre 2003, e
depositata presso questo Ufficio il giorno successivo, il difensore
di Barillà ha contestato l’ammissibilità dei ricorsi sotto diversi
profili che vanno separatamente esaminati.
a) La prima eccezione di inammissibilità si riferisce alla natura
dei motivi posti a sostegno dei ricorsi. Si sostiene, nella memoria,
che i ricorrenti avrebbero in realtà censurato esclusivamente i dati
di fatto presi in considerazione dalla Corte di merito per stabilire
l’entità della riparazione ma questa censura non rientrerebbe tra
quelle consentite dall’articolo 606 comma lo Cpp perché diretta ad
una rivalutazione degli elementi di prova acquisiti dal giudice di
merito.
Il motivo deve peraltro essere ritenuto infondato perché, se se è
vero che al giudice di legittimità non è consentito rivalutare il
compendio probatorio acquisito e preso in considerazione dal giudice
di merito, è altrettanto vero che rientra nel controllo di
legittimità devoluto alla Corte di cassazione verificare
innanzitutto l’esistenza della motivazione e poi la correttezza
delle argomentazioni logiche che il giudice di merito ha utilizzato
al fine di controllare se egli sia incorso in mancanza o manifesta
illogicità della motivazione. Naturalmente quanto più ampi siano i
poteri discrezionali del giudice (per es. proprio in tema di
valutazione equitativa dell’indennizzo) tanto minori saranno i
poteri di sindacato del giudice di legittimità ma non per questo può
ritenersi che venga meno il potere dovere di verifica del corretto
esercizio dei poteri in esame.
b) Sotto un diverso profilo nella memoria si eccepisce
l’inammissibilità del ricorso del Pg che sarebbe privo della
legittimazione attiva qualora, come nella specie, si discuta
soltanto della quantificazione della somma dovuta a titolo di
indennizzo perché in questo caso la scelta di contestare la somma
liquidata sarebbe riservata al contradditore naturale, cioè al
ministero dell’Economia e delle finanze, mentre il Pm non avrebbe
interesse all’impugnazione non ‘potendosi sostituire alle scelte
negoziali delle parti private.
Ma anche questa tesi è priva di fondamento: il Cpp non pone infatti,
in generale, alcun limite al potere di impugnazione del Pm e,
allorquando ha voluto limitare questo potere rispetto a quelli
conferiti alle parti private, lo ha espressamente precisato (v.
articolo 443 comma 30 Cpp). Ciò del resto è conforme alla disciplina
ordinamentale del Pm che (articolo 73 Rd 30 gennaio 1941,
ordinamento giudiziario) "veglia alla osservanza delle leggi" e
quindi ha una competenza di carattere generale, e non limitata,
anche per questioni che riguardano rapporti tra parti private che
concernono comunque l’applicazione di leggi aventi riflessi
pubblicistici e che sarebbe quindi illogicamente amputata seguendo
l'interpretazione proposta. Del resto questo è il senso
dell’intervento del Pm in tutta una serie di cause civili
normativamente previste e in tutte le cause civili davanti alla
Corte di cassazione.
Né, può negarsi, come fa la difesa Barillà, che l’interesse sia
concreto (e non generico ed astratto come sostiene la difesa Barillà)
perché, contestando i criteri utilizzati dal giudice di merito per
la liquidazione dell’indennizzo, il Pg ha posto in discussione la
corretta applicazione, nel caso concreto, della disciplina di
liquidazione dell’indennizzo dovuto per la riparazione dell’errore
giudiziario e non ha inteso semplicemente riaffermare astrattamente
principi dalla cui violazione non sia derivata alcuna lesione
effettiva del pubblico interesse di riferimento.
Errata è infine la tesi secondo cui la materia della riparazione
(dell’errore giudiziario o dell’ingiusta detenzione) sia devoluta
esclusivamente alle scelte negoziali delle parti private come è
dimostrato dalla scelta legislativa di consentire la liquidazione
non per autonoma scelta del ministero ma solo in esito al giudizio
di riparazione la cui decisione conclusiva ha natura costitutiva del
diritto (v. Cassazione, Su, 14/2001, Caridi).
c) La terza eccezione di inammissibilità, formulata in relazione ad
entrambi i ricorsi, riguarda invece un’asserita acquiescenza che vi
sarebbe s tata da parte di entrambi i ricorrenti. Tacita da parte
del Pg che mai avrebbe interloquito nel corso del procedimento di
riparazione svoltosi davanti alla Corte d’appello; espressa da parte
dell’Avvocatura dello Stato che, in più occasioni, avrebbe
dichiarato di non opporsi all’accoglimento della domanda e di
rimettersi alla valutazione del giudice per quanto riguarda la
determinazione del quantum dovuto.
Va in contrario rilevato che, anche ammessa la possibilità (ma
soprattutto la rilevanza: il giudice della riparazione ben potrebbe
respingere la domanda cui il Ministero avesse prestato adesione)
dell’ acquiescenza in un rapporto di tipo pubblicistico quale quello
in esame, questo comportamento passivo va valutato in relazione alle
evidenze disponibili e quindi all’esistenza dei presupposti per la
liquidazione dell’indennizzo, all’assenza di cause ostative quali il
dolo o la colpa, all’esistenza astratta del diritto; non certo in
relazione a quanto non è stato ancora accertato e quindi sia da
considerare allo stato privo di giuridico rilievo, se non
inesistente, e possa sorgere solo con la pronunzia del giudice.
Insomma sembra del tutto ovvio che rimettersi alla decisione del
giudice in merito alla determinazione della somma dovuta non
corrisponde ad accettare preventivamente l’entità della riparazione,
poi determinata in concreto, anche se con un giudizio a posteriori
non si condivideranno i criteri utilizzati a tale fine.
V’è un’ulteriore ragione per non attribuire rilievo di acquiescenza
al comportamento dell’Avvocatura. È principio ormai indiscusso (fin
dalla decisione delle sezioni unite di questa Corte 6 marzo 1992,
Ministero del Tesoro C. Fusilli, in Cassazione penale, 2035/92) che
il procedimento relativo alla riparazione per l’ingiusta detenzione
che ha la medesima natura del procedimento per la riparazione
dell’errore giudiziario ha per vari aspetti natura civilistica; da
ciò consegue che la ripartizione delle spese di lite va effettuata
in base al principio della soccombenza di cui all’articolo 91 del
Cpc.
Questo principio trova certamente piena attuazione nel caso in cui
il procedimento in questione assuma carattere contenzioso; il che
avviene quando l’amministrazione si opponga all’accoglimento della
domanda anche soltanto in relazione al "quantum" richiesto. Ma, nel
caso in cui l’Amministrazione non ritenga neppure di costituirsi in
giudizio ovvero, pur essendosi costituita, non si opponga
all’accoglimento della domanda, il procedimento conserva natura (se
non di volontaria giurisdizione) certamente non contenziosa. In
questo caso il ministero del Tesoro (adesso ministero dell’Economia
e delle finanze) è contradditore necessario di chi ha proposto
l’istanza sol perché, come si è in precedenza accennato, non ha la
possibilità, al di fuori della sede giurisdizionale prevista dalla
legge, di liquidare la somma dovuta per la riparazione (cfr. in
questo senso Cassazione, sezione quarta, 9 maggio 1996, Citarella,
in Cassazione penale, 1838/97).
Ne consegue un interesse specifico dell’Avvocatura quando non
ritenga di contestare i presupposti per il riconoscimento della
riparazione consistente nella necessità di assumere un comportamento
processuale che valga ad evitare la condanna del ministero al
pagamento delle spese di lite quando ritenga equa la quantificazione
dell’indennizzo. Ma ciò non può certo significare la rinunzia ad
impugnare la decisione che travalichi invece i limiti di quello che
la parte ritiene equo.
Del tutto privi di rilievo sono poi, per i fini che interessano, i
comportamenti processuali che nella memoria vengono indicati a
conferma dell’asserita acquiescenza. Trattasi, in realtà, di
comportamenti idonei a fondare il consenso solo per quanto riguarda
gli aspetti procedimentali dell’accertamento (nomina dei periti,
criteri indicati ai medesimi, formulazione dei quesiti ecc.) mentre
la mancata contestazione del rilievo della documentazione prodotta e
la mancata opposizione alle richieste dell’istante non significano
certo rinunzia a far valere il dissenso in ordine ai risultati del
procedimento valutativo del giudice ma possono assumere
esclusivamente valore di accettazione della genuinità della
documentazione prodotta (e neppure della sua rilevanza) e della
correttezza del procedimento probatorio seguito dal giudice.
d) Manifestamente infondata è l’ultima eccezione con la quale si
lamenta, deducendo la violazione dell’articolo 581 Cpp, che i
ricorrenti si sarebbero limitati a chiedere l’annullamento
dell’ordinanza impugnata senza precisare se si tratti di
annullamento con rinvio o senza rinvio e senza delineare il
principio di diritto al quale il giudice di rinvio, nel primo caso,
dovrebbe attenersi. Ma anche questa eccezione è palesemente
infondata perché il thema decidendum dell’impugnazione è stato
ampiamente delineato dai ricorrenti con l’esposizione dei motivi di
ricorso e con la richiesta di annullamento dell’ordinanza impugnata.
Stabilire, in relazione all’eventuale accoglimento dei motivi, il
tipo di annullamento e formulare, se del caso, il principio di
diritto spetta al giudice di legittimità e non a chi il
provvedimento ha impugnato.
III) Formazione del giudicato parziale. La difesa di Barillà ha
chiesto che si dia atto della formazione del giudicato per alcune
voci dell’indennizzo che non sono state contestate con i motivi di
ricorso (perdita dell’autovettura cointestata, vendita della casa di
abitazione, spese per trattamenti medici); per queste statuizioni la
richiesta appare corretta perché si tratta di voci che non formano
oggetto delle censure contenute nei ricorsi.
Non altrettanto può dirsi in relazione alle spese di lite liquidate
dalla Corte di merito; la condanna alle spese è infatti conseguente
alla decisione definitiva sul merito della causa per cui diverrebbe
definitiva con il rigetto o l’inammissibilità dei ricorsi ma, in
tutta evidenza, un annullamento anche parziale con rinvio (e a
maggior ragione un annullamento senza rinvio) porrebbe in
discussione anche questa statuizione direttamente ricollegata alla
decisione definitiva sulla pretesa dell’istante; d’altro canto
l’Avvocatura ricorrente, nel chiedere l’annullamento dell’ordinanza
impugnata, ha aggiunto la richiesta di "ogni conseguenziale
pronuncia" che può essere legittimamente intesa come riferita anche
alla liquidazione delle spese tra le parti.
IV) Le censure di carattere generale. I ricorsi del Pg e
dell’Avvocatura distrettuale sono, come si è detto, largamente
sovrapponibili per cui gli identici motivi di ricorso saranno
sintetizzati ed esaminati congiuntamente.
I ricorrenti censurano innanzitutto l’ordinanza della Corte genovese
sia in merito ai criteri utilizzati nella ripartizione dell’onere
della prova sia per quanto riguarda i criteri di valutazione delle
risultanze peritali.
In particolare nei ricorsi ci si duole:
con il primo motivo (con cui si denunzia la violazione degli
articoli 115 Cpc, 127 e 645 Cpp) della circostanza che i giudici
della riparazione avrebbero recepito acriticamente le risultanze
delle perizie disposte senza tener conto della circostanza che
l’istante non aveva provato di aver percorso altre strade al fine di
pervenire alla liquidazione dell’azienda. L’unica circostanza che
potrebbe ritenersi provata è quella che l’istante non era in grado
di provvedere personalmente alla liquidazione dell’azienda ma non
certo che non potesse farlo per mezzo di un procuratore o del socio
familiare;
con il secondo motivo (riferito alla violazione degli articoli 62,
115, e 198 Cpc, 645 e 646 Cpp) della circostanza che il perito
contabile, violando i limiti dell’incarico conferitogli, abbia
esteso i suoi accertamenti con l’assunzione di informazioni (presso
i committenti di Barillà, le associazioni di categoria, altre
aziende svolgenti attività analoga) compiendo quindi un’indagine non
autorizzata dal giudice. Ciò renderebbe invalida la perizia perché
svolta con modalità tali da alterare i criteri di ripartizione
dell’onere della prova e senza che venisse garantito il
contraddittorio tra le parti; il compito del perito non è infatti
quello di ricercare le prove ma di fornire al giudice elementi di
giudizio per la valutazione delle prove acquisite. In ogni caso
difetterebbe, nel provvedimento impugnato, ogni motivazione sulle
ragioni che hanno indotto la Corte a condividere le conclusioni del
perito contabile che sarebbero state invece acriticamente accolte;
con il terzo motivo (che denunzia la violazione degli articoli 314,
315, 645 e 646 Cpp) si sostiene che l’istituto della riparazione
dell’errore giudiziario deve ritenersi ispirato ai medesimi criteri
di equità previsti per la riparazione dell’ingiusta detenzione con
la conseguenza che, pur non essendo previsto per l’errore
giudiziario un tetto massimo, a differenza dell’ingiusta detenzione,
la somma liquidata non potrebbe discostarsi, in modo rilevante e
irragionevole, da quella prevista per l’ingiusta detenzione essendo
identico il bene della vita tutelato.
Il Pg presso questo ufficio ha ritenuto infondate tutte queste
critiche chiedendo il rigetto dei motivi in cui sono state espresse
e la Corte condivide questa valutazione.
Sui criteri di ripartizione dell’onere della prova deve escludersi
che la Corte di merito abbia violato i principi stabiliti dalla
legge in materia. Riservato l’esame della censura che si riferisce
all’avvenuta liquidazione dell’azienda alla valutazione dei motivi
relativi a questo argomento si osserva che l’istante ha provato i
fatti costitutivi della domanda (condanna, revisione, detenzione ed
espiazione della pena) e ha documentato in larga parte i danni
effettivamente subiti. I giudici, che hanno ritenuto di applicare
criteri risarcitori e non indennitari, hanno disposto due perizie
per fondare l’accertamento dei danni su valutazioni tecnicamente
adeguate e non di parte.
Le critiche dei ricorrenti (che non contestano l’utilizzazione del
criterio risarcitorio) sembrano denunziare una violazione dei
principi sulla ripartizione della prova che la legge pone a
fondamento del processo civile ma dimenticano che nel processo
civile il giudice è dotato (articolo 115 Cpc) di ampi poteri
officiosi nella disponibilità delle prove, sia pure nei soli casi
previsti dalla legge, peraltro numerosi ed incisivi (interrogatorio
non formale delle parti: articolo 117; ispezione di persone e di
cose: articolo 118; nomina di consulente tecnico: articolo 191;
richiesta d’informazioni alla Pa: articolo 213; assunzione di testi
de relato: articolo 257 ecc.).
Se quindi dovessero integralmente applicarsi al procedimento per la
riparazione dell’errore giudiziario i principi del processo civile
non per questo sarebbe sottratto al giudice ogni potere istruttorio
al fine di verificare l’esistenza dei presupposti per l’accoglimento
della domanda una volta provati i fatti costitutivi della medesima.
Si pensi, in particolare, al potere di richiedere d’ufficio
informazioni alla pubblica amministrazione o di disporre una
consulenza tecnica d’ufficio (perizia, in questo caso, dovendosi
applicare le norme del processo penale) per comprendere come, al di
là dell’iniziativa delle parti, siano attribuiti anche al giudice
civile (in questo caso al giudice della riparazione) i più ampi
poteri per acquisire tutte le informazioni e la documentazione
necessarie al fine di decidere (anche) il quantum della riparazione.
Ma v’è di più: come questa sezione ha più volte sottolineato (v. da
ultimo sentenza 2815 dell’11 maggio 2000, Salamone) il procedimento
per la riparazione (i precedenti sono riferiti all’ingiusta
detenzione ma pacificamente applicabili anche alla riparazione a
seguito di revisione), pur essendo ispirato ai principi del processo
civile, si riferisce pur sempre ad un rapporto obbligatorio di
diritto pubblico; dal che non può non discendere un rafforzamento
dei poteri officiosi del giudice che può quindi fondare la sua
decisione su atti diversi da quelli prodotti dalle parti, purché
conosciuti o conoscibili, eventualmente attraverso la richiesta di
cui all’articolo 116 Cpp.
Quanto alla violazione del contraddittorio i ricorsi sono parimenti
infondati. Va premesso, su questo punto, che il perito
commercialista nominato dalla Corte ha acquisito informazioni al
fine di accertare il valore dell’azienda che Barillà è stato
costretto a dismettere a causa della imprevista carcerazione
sofferta presso importanti aziende del settore motociclistico
(l’azienda di Barillà svolgeva attività di assemblaggio di materiale
elettrico per motocicli per conto di due imprese non più esistenti),
presso aziende che svolgono attività di cablaggio elettrico per
motocicli e presso un’associazione di categoria di queste aziende.
Orbene l’acquisizione di questo tipo di informazioni rientra
pienamente nei poteri del perito ed è espressamente prevista
dall’articolo 228 comma 30 Cpp in questa parte certamente
applicabile non esistendo alcuna incompatibilità con la procedura
della riparazione. Va ancora osservato che il perito era stato
autorizzato, all’udienza del 30 gennaio 2002, «ad accedere presso
uffici e stabilimenti pubblici e ad acquisire copia dei documenti
ivi reperiti in particolare presso gli istituti carcerari presso cui
il Barillà è stato detenuto e ospedali presso cui è stato
ricoverato, uffici fiscali, camera di commercio».
Ma, accertato che non vi è stato alcun travalicamento del perito dal
l’ambito dei suoi poteri, va aggiunto che neppure può ritenersi
sussistente alcuna violazione del principio del contraddittorio
nella formazione della prova perché sia il Pg che l’Avvocatura
distrettuale non hanno esercitato il diritto di nominare un loro
consulente tecnico, che avrebbe potuto partecipare alle operazioni
peritali (articolo 230 comma 2° Cpp), e comunque non hanno chiesto
l’assunzione di mezzi di prova o provveduto a compiere le indagini e
gli accertamenti eventualmente ritenuti utili per contrastare
l’esito degli accertamenti svolti dal perito i quali, oltre tutto,
non hanno valore di prova incontestabile ma costituiscono elementi
di conoscenza, posti a disposizione del giudice per la sua autonoma
valutazione, ai quali le parti possono contrapporre altri elementi
di conoscenza.
In definitiva, su questo punto: non può lamentare la violazione del
principio del contraddittorio la parte che, pur avendo a
disposizione i mezzi processuali necessari per controllare la
formazione della prova, di fatto non se ne avvalga.
Resta da esaminare la censura che si riferisce all’adesione
acritica, che sarebbe stata fatta dalla Corte di merito, alle
conclusioni peritali. Ma anche questa doglianza è infondata perché
la Corte di merito, anche con l’esame comparato delle valutazioni
compiute dai due consulenti di parte (quelli di Barillà), con
l’integrazione tra ì risultati delle due perizie (in particolare nel
calcolo del danno derivante dalla riduzione della capacità
lavorativa) e in assenza di specifiche contestazioni, nella fase di
merito, delle singole voci di danno ha mostrato di aver recepito le
conclusioni dei periti, in particolare del perito commercialista,
dopo aver vagliato criticamente le conclusioni adottate anche se
queste sono state di fatto accolte integralmente. Anzi, poiché
alcune parti della motivazione consistono nel mero rinvio alle
relazioni dei periti (in particolare a quella del commercialista), i
vizi di motivazione denunziati dovranno essere conseguentemente
valutati con l’esame delle argomentazioni del perito alle cui
argomentazioni è stato fatto rinvio per relationem.
V) Principi generali in tema di riparazione. Come è comunemente
riconosciuto la riparazione per l’errore giudiziario, come quella
per l’ingiusta detenzione, non ha natura di risarcimento del danno
ma (e qui il consenso è meno univoco) di semplice indennità o
indennizzo in base a principi di solidarietà sociale per chi sia
stato ingiustamente privato della libertà personale o ingiustamente
condannato. L’origine solidaristica della previsione dei due casi di
riparazione non esclude però che ci si trovi in presenza di diritti
soggettivi qualificabili di diritto pubblico cui si contrappone,
specularmente, un’obbligazione dello Stato da qualificare parimenti
di diritto pubblico.
Il criterio seguito dalla legge e diretto ad escludere una tutela
obbligata di tipo risarcitorio risponde ad una precisa finalità: se
il legislatore avesse costruito la riparazione dell’errore
giudiziario, o dell’ingiusta detenzione, come risarcimento dei danni
avrebbe dovuto richiedere, per coerenza sistematica, che il
danneggiato fornisse non solo la dimostrazione dell’esistenza
dell’elemento soggettivo, fondante la responsabilità per colpa o per
dolo, nelle persone che hanno agito ma anche la prova dell’entità
dei danni subiti. Ciò si sarebbe peraltro posto in un quadro di
conflitto con l’esigenza (fondata non solo su una precisa
disposizione della nostra Costituzione articolo 24 comma 40 ma anche
sull’articolo 5 comma 50 della Convenzione europea dei diritti
dell’uomo e sull’articolo 9 n. 5 del Patto internazionale dei
diritti civili e politici) di garantire un adeguato ristoro a chi
sia stato comunque ingiustamente condannato o privato della libertà
personale senza costringerlo a defatiganti controversie
sull’esistenza dell’elemento soggettivo di chi aveva agito e sulla
determinazione dei danni.
Se la scelta del legislatore è condivisibile deve però rilevarsi
come essa non sia scevra da inconvenienti. Il primo è costituito
dalla circostanza che il significato di indennità e di indennizzo
(che peraltro il codice in questo caso non usa: di qui le opinioni
che contestano questa costruzione teorica) non è utilizzato dal
legislatore in senso univoco. In alcuni casi l’indennità è intesa
come un corrispettivo per la perdita o la limitazione di un diritto;
sono i casi di espropriazione, servitù coattive, occupazioni di
fondo altrui (per es. articolo 938 Cc. In altri casi
come prestazione derivante dalla conclusione di un contratto (per
es. i casi nei quali l’assicuratore gode di un limite alla sua
responsabilità). In un terzo gruppo di casi il pregiudizio deriva da
una condotta conforme all’ordinamento che però ha prodotto un danno
che deve comunque essere riparato; alcuni esempi possono trarsi dal
codice civile: articolo 2045 (indennità per il danneggiato da chi
abbia agito in stato di necessità), 2047 comma 2° (danno cagionato
dall’incapace), 843 comma 20 (accesso al fondo per costruire o
riparare) ecc..
La riparazione per l’errore giudiziario o per l’ingiusta detenzione
sembra avvicinarsi a questa terza specie di indennità, per la quale
si è fatto ricorso alla figura dell’atto lecito dannoso: l’atto è
stato infatti emesso nell’esercizio di un’attività legittima (e
doverosa) da parte degli organi dello Stato anche se, in tempi
successivi, ne è stata dimostrata (non l’illegittimità ma)
l’erroneità o l’ingiustizia.
Un altro inconveniente del sistema delineato è costituito dalla
necessità di utilizzare, prevalentemente se non esclusivamente,
criteri equitativi per la liquidazione dell’indennizzo. Il giudice,
per limitare il margine di discrezionalità, ineliminabile in questa
forma di liquidazione, può soltanto utilizzare parametri, non
previsti normativamente, che valgano a rendere razionali,
trasparenti e non casuali i criteri utilizzati. Si tratta quindi di
verificare, in questa ottica, se possano essere utilizzati per la
liquidazione dell’indennizzo anche criteri normativi previsti per la
liquidazione del danno.
La necessità di utilizzare criteri equitativi non è esclusa, nel
caso della riparazione dell’errore giudiziario, dall’eliminazione
dell’aggettivo l’equa, che qualificava la riparazione e che più non
compare nel 1° comma dell’articolo 643 Cpp a differenza di quanto
previsto dall’articolo 571 dell’abrogato codice di rito e dal
vigente articolo 314 in tema di riparazione per l’ingiusta
detenzione. Dottrina e giurisprudenza sono infatti concordi nel
ritenere che il mancato espresso richiamo all’equità sia privo di
concreta rilevanza, come confermato anche dalla relazione al
progetto preliminare del codice, essendo ineliminabile l’uso di
criteri equitativi per determinare in concreto, con la successiva
traduzione in termini monetari, le conseguenze dell’ingiusta
condanna.
Il mancato richiamo all’equità da parte dell’articolo 643 può però
consentire di affermare che non è inibito al giudice della
riparazione fare riferimento anche a criteri di natura risarcitoria
che possono validamente contribuire a restringere i margini di
discrezionalità inevitabilmente esistenti nella liquidazione di tipo
esclusivamente equitativo. E infatti in dottrina si è affermato che
«attraverso la procedura di riparazione dell’errore giudiziario, la
vittima può in definitiva ottenere la liquidazione dei danni
provocati dall’ingiusta condanna». Più di un autore, d’altra parte,
ha ravvisato nella riparazione per l’errore giudiziario una
componente indennitaria e una risarcitoria, quasi si trattasse di un
tertium genus rispetto alle due forme di ristoro.
In conclusione, su questo punto, deve ritenersi corretto il
procedimento (peraltro non posto in discussione dai ricorrenti)
seguito dalla Corte genovese laddove ha applicato criteri
risarcitori ai danni, patrimoniali e non patrimoniali, subiti da
Barillà limitando il criterio equitativo alle voci di danno non
esattamente quantificabili seguendo un criterio già adottato da
altre Corti di merito (v., per es. App. Palermo 15 febbraio 2000, in
Foro it., 2001, 11, 41) in contrapposizione ad altre decisioni (si
veda in particolare App. Perugia 24 gennaio 1996, in Giur. it.,
1996, 366) che hanno invece utilizzato un criterio esclusivamente
equitativo con una liquidazione globale di tutte le conseguenze
dell’errore giudiziario (procedimento, peraltro, da ritenersi
parimenti corretto ove il giudice di merito abbia comunque dato
adeguato conto dei criteri seguiti nella liquidazione, ancorché di
natura esclusivamente equitativa, e questi criteri non appaiano
manifestamente illogici).
Deve però rilevarsi e qui il discorso completa le osservazioni in
precedenza espresse in merito all’eccezione di inammissibilità dei
ricorsi formulata dalla difesa dell’istante nella memoria difensiva
che, come nella liquidazione esclusivamente equitativa il giudice di
merito deve esplicitare i criteri o parametri utilizzati che rendano
la sua decisione logicamente motivata e trasparente, ancorché
fondata esclusivamente sull’equità, a maggior ragione il giudice che
ritenga di utilizzare i criteri risarcitori deve procedere con il
rispetto delle regole civilistiche applicabili al risarcimento del
danno. Non potrebbe quindi il giudice della riparazione, dopo aver
optato per il criterio risarcitorio, liquidare danni che in base
alla disciplina applicabile ai danni civili non siano ritenuti
risarcibili o con criteri confliggenti con tali regole; ferma
restando la possibilità di applicare criteri equitativi per la
liquidazione di un danno che non può essere provato nel suo preciso
ammontare (articoli 1226 e 2056 comma lo Cc).
Per concludere sui criteri generali di liquidazione della
riparazione per l’errore giudiziario va ora esaminata l’eccezione,
formulata da entrambi i ricorrenti (per la verità con poca
convinzione), sulla sostanziale applicabilità alla somma liquidata a
titolo di riparazione per l’errore giudiziario, quanto meno come
termine di riferimento, del tetto massimo per la riparazione per
l’ingiusta detenzione. Il rilievo è manifestamente infondato ove si
considerino non solo l’eccezionalità della previsione di un tetto
ma, soprattutto, la diversità della natura del titolo privativo
della libertà personale nell’ingiusta detenzione (un titolo
provvisorio soggetto a verifiche successive e assistito dalla
presunzione di non colpevolezza) rispetto alle conseguenze, di ben
altro rilievo, provocate da una condanna non più soggetta ad
impugnazione e atta a rimuovere l’indicata presunzione (sulla
inapplicabilità del ricordato "tetto" alla riparazione per l’errore
giudiziario v. Cassazione, sezione quarta, 532/94, Moroni).
VI) Danno patrimoniale. L’ordinanza impugnata ha esaminato
separatamente le conseguenze di natura patrimoniale rispetto a
quelle di carattere non patrimoniale e appare opportuno seguire il
medesimo criterio nell’esame delle censure proposte al fine di
verificare se la Corte di merito si sia attenuta a corretti criteri
logico giuridici per la determinazione delle singole voci di danno.
a) Perdita dell’attività commerciale. Barillà, all’epoca
dell’arresto (13 febbraio 1992), era titolare di una ditta artigiana
che svolgeva attività di assemblaggio di materiale elettrico per
motocicli fin dall’ottobre 1989. La Corte ha determinato in lire
65.000.000, sulla scorta degli accertamenti svolti dal perito, il
reddito riferibile all’anno 1991; ha elaborato questo reddito
secondo le prospettive di sviluppo per gli anni successivi con un
incremento annuo del 5 % e ha stabilito un reddito medio ponderato
annuo che può variare, a seconda dei criteri utilizzati, da lire
75.800.000 a lire 81.750.000. Partendo da quest’ultima somma,
ritenuta reddito medio annuale, e applicando per un periodo di dieci
anni un tasso di attualizzazione della rendita del 15 %, il perito,
con valutazione condivisa dalla Corte genovese, ha fissato in lire
784.287.308 il valore dell’azienda alla data del 31 dicembre 1991
detraendo la somma di lire 33.000.000 che Barillà, è riuscito a
realizzare.
Il perito ha poi capitalizzato la somma indicata al 31 dicembre
2001, applicando il tasso medio di rendita dei titoli pubblici del
7,50 %, pervenendo alla somma di lire 1.630.000.000 come
determinazione del danno complessivo derivante dalla perdita
dell’azienda (in questa somma è compresa la perdita di lire
40.000.000, nella misura attualizzata, conseguente alla vendita
della casa di abitazione ad un prezzo inferiore a quello di
mercato). La somma complessiva indicata è stata attualizzata al 31
dicembre 2002 con una maggiorazione del 4,78 % corrispondente alla
rendita attuale dei titoli pubblici e determinata definitivamente in
Euro 888.247,00.
Il Pg e l’Avvocatura ricorrenti denunziano la mancanza e la
manifesta illogicità della motivazione sotto diversi profili:
- l’ordinanza. impugnata non avrebbe considerato che la perdita
dell’azienda era dovuta ad un atteggiamento passivo ed inerte
dell’istante che, sia pure detenuto, avrebbe potuto attivarsi per la
liquidazione della medesima invece di ,lasciarla morire;
- i giudici di merito non avrebbero spiegato perché un’attività
artigiana, iniziata da poco più di due anni e riguardante beni di
nessun pregio tecnologico, fosse soggetta ad espansione, tanto più
che le imprese committenti non sono più esistenti e le capacità
imprenditoriali di Barillà sono soltanto affermate ma non
dimostrate;
- non si sarebbe tenuto conto della circostanza che la ditta di
Barillà era cointestata con la cognata e l’ordinanza impugnata non
avrebbe considerato che il Ctu aveva quantificato l’apporto
personale di Barillà in misura pari ad un terzo del reddito
complessivo prodotto dall’impresa;
- priva di motivazione sarebbe la decisione di considerare
l’esistenza di un reddito non contabilizzato senza che venisse
addotta alcuna prova (se non le dichiarazioni dell’interessato) a
fondamento di una maggior redditività rispetto a quella fiscalmente
dichiarata (lire 15.210.000 nel 1989 e lire 14.242.000 nel 1990) e
con l’applicazione, al fine. di calcolare il reddito medio
ponderato, di un coefficiente annuo di incremento pari al 5%
determinato in via del tutto congetturale e contraddetto
dall’evoluzione dimostrata nei due anni per i quali è stata
presentata la dichiarazione dei redditi (1990 e 1991) che
dimostravano addirittura un decremento di redditività;
- la sola Avvocatura ricorrente lamenta poi l’illogicità dei criteri
utilizzanti per determinare il valore del danno derivante dalla
perdita del patrimonio dell’impresa (con particolare riferimento ai
criteri non esplicitati e non giustificati in alcun modo con cui è
stato determinato il valore di realizzo dei beni in leasing e dei
beni residui) e l’inesistenza della prova delle spese eccezionali
incontrate per la repentina cessazione dell’attività;
- illogico sarebbe poi aver determinato un ulteriore incremento
della somma stabilita per determinare il valore dell’azienda
(assumendo che, se la medesima fosse stata liquidata al 31 dicembre
1991, l’istante avrebbe potuto impiegare la,somma ricavata in titoli
di stato) senza che si fossero verificati i presupposti di fatto
ipotizzati.
Il Pg presso questo ufficio, in merito alle censure riassunte, ha
chiesto che venissero accolte solo quelle relative alla mancata
considerazione, da parte della Corte d’appello, della circostanza
che Barillà non era l’unico titolare dell’azienda e all’inesistenza
di motivazione sulla attualizzazione del credito non in base al
tasso d’interesse corrente ma in base ad un impiego maggiormente
remunerativo senza che sia stata indicata alcuna ragione a
fondamento di questa scelta.
Le censure proposte contro la determinazione del valore dell’azienda
cessata sono solo in parte fondate.
Va premesso che di seguito verranno esaminate, ovviamente, solo le
censure formulate dai ricorrenti restando esclusi i punti sui quali
i medesimi non hanno manifestato alcun dissenso.
E innanzitutto infondata la critica che si riferisce alla scelta di
Barillà di "lasciar morire" l’azienda invece di liquidarla e
ricavarne un ben più sostanzioso prezzo di vendita. La censura, che
implicitamente richiama la violazione dell’articolo 1227 comma 20 Cc,
appare inammissibile (perché riguarda una valutazione di merito
motivatamente compiuta dal giudice della riparazione) e comunque non
fondata perché il giudice di merito ha adeguatamente argomentato non
solo sull’impossibilità (ovvia, ma neppure i ricorrenti la pongono
in discussione) per Barillà, di seguire l’attività d’impresa,
eventualmente per mezzo di una terza persona, stante la natura
artigianale dell’attività svolta personalmente dall’istante, ma
altresì sull’estrema difficoltà, in considerazione del suo stato di
detenzione, che egli avrebbe comunque incontrato per cedere o
liquidare ad un prezzo congruo l’azienda incaricando terze persone
di questo incombente. Affermazione certamente esente da vizi logici
o giuridici che la esonerano dal sindacato di legittimità.
Le stesse considerazioni possono farsi in merito alle censure,
rivolte dalla sola Avvocatura all’ordinanza impugnata, che si
riferiscono alla determinazione del valore del danno derivante dalla
perdita del patrimonio dell’impresa del quale fu possibile
realizzare solo la somma di lire 33.000.000. È vero che su questo
punto la motivazione dell’ordinanza è mancante ma è altrettanto vero
che il rinvio alla perizia consente di ritenere che alle
considerazioni in questo atto contenute si sia fatto riferimento; e
l’esame di esse permette di affermare che questi valori siano stati
ragionevolmente accertati con motivazione in parte del tutto
adeguata (quella dei beni in leasing) e in altra parte sufficiente;
il che rende, anche per questa parte, incensurabile in sede di
legittimità il relativo accertamento non potendosi ritenere mancante
la motivazione.
Sono invece fondate le altre censure rivolte dai ricorrenti al
provvedimento impugnato sotto il profilo dei criteri utilizzati per
la determinazione del reddito d’impresa al fine di accertare il
valore dell’impresa prematuramente cessata e (nei limiti di cui si
dirà) quelle relative alla ripartizione del valore dell’azienda e
del reddito tra i soci della medesima.
Sul primo punto va rilevata la manifesta illogicità della
motivazione contenuta nell’ordinanza impugnata. Occorre premettere
che questa Corte non ritiene che il contenuto della dichiarazione
dei redditi costituisca un ostacolo insuperabile all’accertamento di
un reddito superiore a quello fiscalmente dichiarato in tutti ì casi
in cui l’interessato abbia un interesse in tal senso, come quello in
esame. L’affermazione di una preclusione in tal senso presupporrebbe
(oltre che l’applicazione esclusiva di principi
processualcivilistici) la possibilità di inquadrare la dichiarazione
dei redditi nell’istituto della confessione stragiudiziale e
l’affermazione che la dichiarazione dei redditi essendo diretta al
medesimo soggetto (il ministero dell’Economia e delle finanze) che
oggi è contradditore del dichiarante ha la stessa efficacia
probatoria della confessione giudiziale (articolo 2735 comma lo Cpp).
Sembra peraltro più ragionevole, in considerazione delle diverse
vesti funzionali che assume il medesimo ministero, nell’ambito degli
adempimenti tributari e quale contradditore nel procedimento per la
riparazione, ritenere la dichiarazione una confessione
stragiudiziale che può essere liberamente apprezzata dal giudice,
del resto in armonia con la natura del procedimento di riparazione
disciplinato dal codice di rito penale che rifiuta la stessa
esistenza di prove legali (compresa la confessione).
Ma di questo libero apprezzamento nell’ordinanza impugnata non v’è
traccia. I giudici di merito hanno recepito integralmente e
acriticamente una ricostruzione di natura induttiva fondata su mere
supposizioni e in assenza di qualsiasi elemento atto ad intaccare la
fondatezza delle notizie contenute nelle dichiarazioni dei redditi
presentate dal contribuente. S’è detto che il giudice, ai fini che
interessano, può ricostruire il flusso reddituale in modo diverso da
quanto risulta dalle dichiarazioni dei redditi ma deve pur sempre
fondare questo diverso accertamento su elementi di fatto obiettivi
idonei, se non a dimostrare, a rendere ragionevolmente credibile lo
scostamento tra reddito prodotto e reddito dichiarato.
Oorbene il provvedimento impugnato non solo non dà alcun conto di
questi elementi dai quali possa dedursi, sia pure in via induttiva,
tale scostamento ma addirittura ne indica diversi di segno
contrario. In particolare la circostanza che l’azienda era stata
appena avviata; la natura tecnologicamente modesta delle
lavorazioni; la chiusura delle aziende committenti; il decremento
del reddito dichiarato nel secondo anno d’attività. Trattasi di
elementi tutti contrastanti con le ipotesi ricostruttive del reddito
reale e di espansione dell’attività d’impresa formulate dal perito
che, difatti, le ha elaborate con riferimento al settore
motociclistico in generale e quindi senza alcun riferimento al
settore specifico e, soprattutto, senza alcun riferimento
all’azienda di Barillà; e con un’ulteriore apodittica previsione di
riemersione del reddito occultato che non trova alcun elemento di
conferma.
Non compete certamente al giudice di legittimità rivalutare gli
elementi di giudizio presi in considerazione dai giudici di merito.
In questa sede è solo possibile verificare la manifesta illogicità
di una ricostruzione che, in presenza di elementi inidonei a fondare
la valutazione di produzione di maggior reddito (oltre tre volte
quello dichiarato) non indica alcun elemento di supporto idoneo a
fondare questo giudizio e non prende in alcuna considerazione, come
si è detto, quelli, tutti di segno contrario, pur esistenti e
ritenuti provati. Un accertamento induttivo di questo tipo
effettuato in malam partem (nei confronti del contribuente) da un
ufficio finanziario non reggerebbe al vaglio di qualunque
commissione tributaria.
Ma v’è un ulteriore errore metodologico contenuto nella perizia
richiamata dall’ordinanza impugnata. Il perito ha così calcolato il
reddito complessivo, al lordo dell’imposizione fiscale, prodotto
dall’impresa nell’anno 1991 attribuendo alle persone che
contribuivano alla formazione del reddito le seguenti quote di
contributo alla sua formazione: lire 30.000.000 al suo titolare;
lire 20.000.000 al collaboratore familiare; lire 40.000.000 agli
altri collaboratori.
Orbene mentre le quote al titolare e al collaboratore costituiscono
quote di reddito dell’impresa familiare, e possono quindi essere
utilizzate al fine di ricostruire la potenzialità economica
dell’impresa, lo stesso non può dirsi per i compensi ai
collaboratori (che neppure vengono indicati) che invece
costituiscono costi per l’impresa. Certamente la disponibilità di
collaboratori, siano essi dipendenti o lavoratori autonomi, può
costituire un dato utilizzabile per la determinazione del valore
dell’azienda (secondo i criteri utilizzati, per es., nella
determinazione dei parametri reddituali per i fini fiscali) ma ciò
che non è certamente possibile è trasformare un costo in un reddito.
Solo parzialmente fondata è invece la censura che si riferisce alla
ripartizione del reddito tra Barillà e il socio familiare Favorido
Miriam. Anche in questo caso il dato fattuale, peraltro non
contestato dalle parti, risulta dalla relazione peritale (più volte
richiamata dall’ordinanza della Corte di merito) dalla quale emerge
(pag. 15) che il «reddito risulta integralmente assegnato al
titolare malgrado l’impresa familiare con la cognata Favorido Miriam
risulti essere stata costituita con scrittura a firma autenticate
dal Notaio Elefante in data 5 dicembre 1990 (all. 11)».
Le ragioni per le quali il reddito sia stato integralmente
attribuito al titolare non vengono spiegate dal perito e questa
circostanza non è stata presa in alcuna considerazione
dall’ordinanza impugnata pur essendo stata richiamata nella medesima
con il rinvio alla relazione. Non può quindi il giudice di
legittimità ricostruire la volontà delle parti private della società
familiare richiedendo questa operazione una valutazione di merito
(in particolare l’interpretazione di un contratto che risulta essere
allegato alla relazione del perito) tra l’altro resa difficoltosa
dalla non chiara formulazione degli accordi in precedenza riportati.
Su questo punto la difesa di Barillà si è ampiamente diffusa, nella
seconda memoria di replica, con argomentazioni largamente
condivisibili sulla natura dell’impresa familiare ritenuta impresa
individuale con un solo titolare. Questa ricostruzione dell’impresa
familiare è corretta anche alla luce della giurisprudenza civile di
legittimità che ha sempre ritenuto che questa forma di impresa
appartenga esclusivamente al suo titolare (v. Cassazione, sezione
lavoro, 9897/03; 1917/99; 8959/92) che solo ha la qualifica di
imprenditore e al quale spettano i poteri di gestione e di
organizzazione del lavoro (v., oltre alla sentenza 1917 citata,
sezione lavoro 10412/95).
Peraltro l’articolo 230bis Cc attribuisce al socio familiare la
partecipazione agli utili dell’impresa familiare in proporzione alla
quantità e qualità del lavoro prestato; dal che consegue che al
titolare dell’impresa familiare non può essere attribuita l’intera
quota di reddito se il socio familiare ha contribuito alla sua
formazione; tanto è vero che l’articolo 230bis Cc prevede che le
decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi sono
adottate da tutti i familiari che partecipano all’impresa (v., su
questo punto, Cassazione, sezione seconda civile, 11689/99).
Da questa complessa disciplina possono trarsi le seguenti
conclusioni sul caso in esame: il valore complessivo dell’azienda
dismessa deve essere valutato tenendo conto anche del contributo del
socio familiare ma poiché l’azienda appartiene al titolare l’intero
valore va a lui attribuito. È vero che il socio familiare ha
diritto, nel caso di alienazione dell’azienda, alla liquidazione del
suo diritto di partecipazione (articolo 230bis comma 4°) ma ciò può
comportare esclusivamente il diritto del socio familiare di ottenere
la liquidazione della sua quota nel caso di alienazione. Insomma
l’impresa e l’azienda sono uniche e appartengono al titolare; il
socio familiare, oltre ad aver diritto ad una quota del reddito
prodotto, ha diritto di ottenere dall’unico titolare la liquidazione
del suo diritto di partecipazione nel caso di cessazione
dell’impresa o di liquidazione dell’azienda, ma ciò si risolve
nell’ambito di un rapporto di debito credito tra titolare e socio
familiare e non intacca il principio dell’unità dell’impresa e della
sua titolarità esclusiva in capo alla persona fisica del titolare.
L’attribuzione del valore dell’intera impresa al titolare Barillà,
deve quindi ritenersi corretta (salvo il ricalcolo del suo valore
tenendo conto di quanto già evidenziato). Invece anticipando l’esame
delle censure che si riferiscono alla diminuzione della capacità di
lavoro poiché dal reddito dell’impresa familiare il titolare deve
detrarre la quota corrisposta al socio familiare nel calcolo della
capacità di guadagno del titolare non può prendersi in
considerazione l’intero reddito dell’impresa familiare perché questo
reddito non corrisponde, ed è superiore, a quello di cui gode
effettivamente il titolare.
Il giudice del rinvio dovrà quindi compiere un accertamento
ulteriore sulla natura del patto intervenuto tra le parti e sulla
quota di partecipazione del socio familiare agli utili con la
conseguente detrazione di questa percentuale di reddito da quello
preso in considerazione ai fini della determinazione della capacità
di Barillà di produrre reddito.
Infine deve ritenersi fondata anche la censura che si riferisce alla
capitalizzazione della somma di lire 751.287.000 (comprensiva della
perdita dell’attività d’impresa e del danno derivante dalla vendita
della casa di abitazione) effettuata dal perito, con criterio
acriticamente recepito dal giudice della riparazione, che ha
applicato il tasso medio di rendita dei titoli pubblici (pari al
7,50 %). A parte il rilievo che questo rendimento, essendo
annualmente determinabile, non poteva essere calcolato come media
tra i diversi anni deve rilevarsi che la Corte di merito ha
implicitamente applicato il disposto dell’articolo 1224 Cc e ciò ha
fatto correttamente trattandosi di obbligazione pecuniaria.
Non poteva però la Corte applicare il disposto del 2° comma
dell’articolo 1224 in esame perché il maggior danno (sostitutivo e
non aggiuntivo degli interessi legali) rispetto alla misura degli
interessi legali può essere liquidato solo nel caso in cui il
creditore ne dimostri l’esistenza. E, nel caso di specie, questa
prova, a quanto risulta dall’ordinanza impugnata, non è stata
sicuramente fornita neppure in via presuntiva (facoltà peraltro
fortemente limitata in base ai più recenti orientamenti della
giurisprudenza civile di legittimità).
b) Spese di difesa. La Corte d’appello ha liquidato per tale titolo
la somma di Euro 206.582,75 (corrispondente a 400 milioni di lire)
ritenendo la somma richiesta dall’istante "congrua e liquidabile in
via equitativa". I ricorrenti lamentano l’irrazionalità di questa
statuizione rilevando che i compensi in esame (compresi quelli che
l’istante afferma essere stati corrisposti ad un’agenzia di
investigazioni private) o sono stati effettivamente corrisposti e in
tal caso dovranno essere integralmente rimborsati ma previa
produzione della necessaria documentazione o non lo sono state e in
questo caso è irragionevole liquidarle equitativamente.
Secondo il Pg presso questo Ufficio non sarebbe necessaria la prova
dell’avvenuto pagamento perché comunque il ricorrente sarebbe
debitore delle somme vantate da difensori e investigatori. Solo la
contestazione delle singole poste potrebbe formare oggetto del
giudizio di legittimità.
Osserva la Corte che, effettivamente, la soluzione accolta dal
giudice di merito presenta aspetti di manifesta illogicità. Non sono
anzitutto condivisibili le conclusioni su questo punto del Pg presso
questa Corte. L’istante ha dichiarato di aver pagato difensori e
investigatori privati e non di essere rimasto loro debitore; è
conforme alla disciplina risarcitoria utilizzata dal giudice di
merito, quindi, affermare la necessità che i pagamenti vengano
documentati o, quanto meno, che la statuizione si fondi su prove
idonee a dimostrare l’avvenuto pagamento.
Deve infatti essere ribadito che non è possibile, in relazione alla
medesima voce di danno, combinare i criteri equitativo e
risarcitorio. Scelta la via risarcitoria il criterio equitativo
assume carattere residuale ma esclusivamente per quei danni di cui
sia certa l’esistenza ma che non possono essere provati nel loro
preciso ammontare. Il che, evidentemente, non si verifica nel caso
in esame nel quale i compensi pagati ben possono essere documentati
con regolari fatture o, quanto meno, con dichiarazioni di coloro che
hanno effettuato le prestazioni o con altri mezzi di prova idonei a
dimostrare l’avvenuto pagamento (tali non sono certamente le fatture
"pro forma" prodotte dall’istante perché non documentano l’avvenuto
pagamento che l’istante afferma essere avvenuto).
c) Riduzione della capacità lavorativa. La Corte di merito, sulla
scorta delle conclusioni del secondo perito nominato, ha ritenuto
che Barillà, «ha contratto in conseguenza della vicenda giudiziaria
e carceraria un’invalidità permanente e una inabilità al lavoro pari
al 70%». E per questo titolo, prendendo a riferimento il reddito
prodotto prima della carcerazione, rivalutato al 1999, ha
determinato in lire 57.120.000 all’anno la perdita reddituale; ha
moltiplicato per 34 questa somma considerando gli anni (26) fino
all’età pensionabile e, aggiungendo 8 anni per integrazioni
contributive previdenziali corrispondenti alla forzata omissione
contributiva per gli anni dal 1991 al 1999, è pervenuto alla
liquidazione di una somma complessiva, per tale titolo, pari a Euro
1.003.000,00.
I ricorrenti, con identiche considerazioni, lamentano che il danno
accertato dal perito in realtà si riferisca non alla capacità
lavorativa ma al danno biologico anche perché Barillà è riuscito a
reimpiegarsi in una nuova attività lavorativa e lo stesso perito,
secondo i ricorrenti, escluderebbe una perdita della capacità
lavorativa. L’errore concettuale nel quale sarebbe incorsa
l’ordinanza impugnata è la corrispondenza tra invalidità accertata e
la conseguente incapacità lavorativa mentre è noto che ad
un’invalidità permanente non corrisponde una percentualmente uguale
riduzione della capacità lavorativa generica e di quella specifica.
In realtà, secondo i ricorrenti, la Corte avrebbe liquidato
all’istante la somma indicata a titolo di "lucro cessante" senza
peraltro che vi fosse la prova dell’effettiva riduzione della
capacità di produrre reddito anche perché la Corte non ha tenuto
conto della circostanza che l’istante attualmente svolge un’attività
lavorativa da cui deriva un reddito che avrebbe dovuto essere
detratto da quello accertato per il titolo in esame «ma si è
limitata ad una mera operazione aritmetica assumendo come fattori il
reddito medio accertato al momento dell’arresto e la vita
lavorativa residua (26 anni) aggiungendovi, senza per altro motivare
in merito, altri otto anni per compensare il Barillà della forzata
omissione contributiva».
Il Pg presso questo Ufficio ha concluso, su questo punto,
dichiarando di condividere le censure proposte dai ricorrenti contro
la liquidazione di cui trattasi.
Le censure sono solo in parte fondate. Innanzitutto va rilevato che,
ovviamente, in sede di rinvio il reddito presunto su cui calcolare
il valore economico della riduzione della capacità lavorativa dovrà
essere rideterminato a seguito del corretto calcolo del reddito
prodotto da Barillà al momento dell’arresto secondo i principi
indicati in precedenza. Per quanto attiene invece alle censure che
si riferiscono ai criteri utilizzati dalla Corte d’appello per la
valutazione del danno conseguente alla riduzione della capacità
lavorativa vanno fatte alcune precisazioni.
La giurisprudenza civile di legittimità opera una distinzione
nell’ambito delle conseguenze dell’invalidità procurata da atto
illecito ritenendo che quelle inabilità che determinano l’esclusione
o la riduzione della capacità lavorativa specifica, idonea a
produrre reddito, vadano risarcite come danno patrimoniale mentre la
riduzione della capacità lavorativa generica costituisca una
componente del danno biologico e vada quindi in esso considerata.
In questo senso si veda la recente Cassazione, sezione terza civile,
2589/02 (per est. in Foro it., 2002,1,2074) che così si esprime:
esiste, dal punto di vista scientifico e medico legale, una
fondamentale distinzione tra invalidità (temporanea o permanente)
quale compromissione dell’integrità e della validità biologica
dell’individuo, che è valutata e risarcita integralmente come danno
biologico, ed incapacità (temporanea o permanente) che riguarda le
perdite e i riflessi patrimoniali derivanti dalla momentanea o
definitiva impossibilità, per il soggetto leso, di svolgere la
propria attività lavorativa, ovvero di iniziare in futuro
un’attività lavorativa.
Orbene, malgrado la Corte di merito non abbia specificato nella
motivazione se la capacità lavorativa presa in considerazione sia
quella generica o quella specifica, dalle argomentazioni sul punto
emerge incontestabilmente che ì giudici hanno inteso riferirsi a
quella specifica perché si fa, nel provvedimento, più volte richiamo
alla capacità lavorativa come "capacità di produrre reddito"; tanto
è vero che viene calcolato il danno patrimoniale facendo riferimento
ai presunti redditi che Barillà avrebbe potuto produrre se non fosse
stato coinvolto nella descritta vicenda. Non è vero, dunque, che vi
sia stata sovrapposizione tra la riduzione della capacità lavorativa
e il danno biologico per cui la censura deve ritenersi infondata
anche se è vero che l’ordinanza impugnata ha omesso di esplicitare
parte del percorso decisionale.
Né può parlarsi di duplicazione del risarcimento essendo stato più
volte affermato, dalla giurisprudenza di legittimità, che entrambi i
danni devono essere liquidati e che, solo nel caso di chi non svolga
attività produttive di reddito e non sia in procinto di svolgerle, è
escluso il risarcimento del danno patrimoniale (non di quello
biologico): in tal senso v., da ultimo, Cassazione, sezione terza
civile, 8599/01; 13409/01; 239/01.
La riduzione della capacità lavorativa generica è stata invece
ricompresa dall’ordinanza impugnata, anche se in modo non del tutto
esplicito, nel danno biologico e questa soluzione deve ritenersi
corretta in base ai principi enunciati. Ed è vero che il perito ha
accertato (con motivazione richiamata per relationem dall’ordinanza
impugnata) una riduzione percentualmente uguale dei due fattori
(riduzione della capacità lavorativa specifica e danno biologico) ma
ciò ha fatto motivatamente con considerazioni (peraltro neppure
specificamente oggetto di impugnazione sotto il profilo indicato)
cui l’ordinanza impugnata rinvia e che non possono essere oggetto
del sindacato di legittimità perché congruamente e logicamente
motivate.
In ogni caso va ulteriormente ribadito che ben distinti
concettualmente sono i presupposti per accertare la riduzione della
capacità lavorativa specifica, che attiene esclusivamente alla
riduzione della capacità reddituale del soggetto, e ha quindi natura
di danno patrimoniale, da quelli utilizzati per valutare l’esistenza
e la consistenza del danno biologico che consiste invece nella
lesione dell’integrità psico fisica della persona, indipendentemente
dalla riduzione reddituale, e del quale si parlerà in seguito (cfr.,
nel senso indicato, Cassazione, sezione terza civile, 13126/97;
605/98, entrambe per est. in Resp. civ. e prev., 1998, 363).
È quindi vero che la somma è stata liquidata a titolo di "lucro
cessante" ma questa qualificazione appare corretta perché
costituisce la sostanza della riduzione della capacità lavorativa
specifica (che può dar luogo anche a un "danno emergente" nella
specie non liquidato per quegli oneri ai quali il danneggiato deve
far fronte per sopperire al venir meno, totale o parziale, della
fonte di reddito: cfr. Cassazione, sezione terza civile, 2589/02,
per est. in Foro it., 2002,1,2074).
Solo parzialmente condivisibile è invece la doglianza che si
riferisce alla mancata detrazione, dalla somma liquidata per il
titolo indicato (danno patrimoniale per riduzione della capacità
lavorativa specifica), delle somme percepite per l’attività
lavorativa che attualmente Barillà svolge (peraltro nella seconda
memoria il difensore dell’istante afferma che questa attività
dell’istante sarebbe cessata).
Anche in questo caso soccorre la giurisprudenza civile di
legittimità che ha affermato che lo svolgimento di un’attività
lavorativa idonea a garantire alla persona parzialmente invalida un
reddito identico a quello precedentemente ricavato dalla medesima
attività non consente di ritenere automaticamente inesistente il
corrispondente danno patrimoniale dovendosi accertare se sia
maggiormente usurante la prestazione svolta e se l’invalidità
inibisca comunque futuri miglioramenti dovuti ad un’intensificazione
delle prestazioni (v., riferita ad un caso di lavoro subordinato ma
con principi estensibili al ‘ lavoro autonomo, Cassazione, sezione
terza civile, 15641/02).
Attenendosi a questi principi il giudice di rinvio dovrà sottrarre
dall’entità di quanto dovuto per il titolo in esame il reddito
eventualmente prodotto verificando altresì al fine di confermare in
tutto o in parte la detrazione (in questo caso da determinare
ovviamente in via esclusivamente equitativa) dalla somma attribuita
a titolo di riduzione della capacità lavorativa specifica se la
produzione del reddito sia riconducibile ad un’usura non ordinaria
delle residue energie lavorative e se l’invalidità inibisca
ulteriori miglioramenti reddituali.
VII) Danno non patrimoniale.
a) Le statuizioni della Corte di merito e i motivi di ricorso sul
danno non patrimoniale.
La Corte d’appello ha liquidato, in base a criteri esclusivamente
equitativi, la somma di Euro 800.000,00 a titolo di danno biologico
per la grave compromissione della salute psico fisica subita da
Barillà, a causa dell’arresto, della carcerazione subita e del
processo. Le gravi conseguenze, causalmente ricollegabili alla
vicenda in cui è rimasto coinvolto Barillà, sono state ritenute
accertate in base alla perizia disposta e a considerazioni svolte
dal giudice di merito che ha così descritto il quadro clinico
accertando la ,la presenza di una grave sintomatologia depressiva
con idee di rovina e autosoppressive, accompagnate da una sorta di
ottusità emotiva, tendenza all’isolamento e al pessimismo morale,
disturbi del sonno e dell’adattamento sociale, la presenza di una
sindrome ansiosa con una sintomatologia cefalalgica sovrapposta, la
presenza di un’ideazione persecutoria ben delineata determinata
dallo sviluppo di tematiche di sospettosità e diffidenza.
I ricorrenti contestano sia la mancanza di uno specifico quesito al
perito per determinare l’esistenza e la portata del danno biologico
sia il criterio equitativo utilizzato dalla Corte per la
liquidazione del danno rilevando che il danno biologico deve essere
espresso in percentuale e deve evitarsi una sovrapposizione con il
danno esistenziale pure liquidato nell’ordinanza impugnata.
Sempre in merito al danno non patrimoniale la Corte ha premesso che
non è liquidabile, a favore dell’istante, alcuna somma a titolo di
danno morale perché l’articolo 2059 Cc limita la risarcibilità del
danno morale al solo caso di fatti costituenti reato mentre la
natura non patrimoniale del danno biologico non ne escluderebbe la
risarcibilità ai sensi degli articoli 32 della Costituzione e 2043
Cc. Ha peraltro affermato la Corte che esiste un ulteriore danno non
patrimoniale risarcibile, costituito dal danno esistenziale inteso
come «peggioramento oggettivo delle condizioni di vita della vittima
in conseguenza di un fatto ingiusto», ha ravvisato i presupposti per
il risarcimento "nelle obbligate rinunce alle proprie abitudini di
vita", e ha liquidato a tale titolo, in via meramente equitativa, la
somma di Euro 1.000.000,00 già indicata.
I ricorrenti lamentano, nei confronti della liquidazione per il
danno non patrimoniale, la sostanziale duplicazione della voce di
danno costituita dal danno biologico e rilevano come giurisprudenza
e dottrina siano concordi nel riconoscere la risarcibilità del danno
esistenziale nei soli casi in cui non sia risarcibile il danno
morale o non sia risarcibile il danno biologico ovvero quest’ultimo
non sia trasmissibile a terzi perché chi l’ha subito è deceduto in
conseguenza del fatto dannoso. E poiché la Corte ha riconosciuto
l’esistenza del danno biologico nulla avrebbe potuto liquidare a
titolo di danno esistenziale.
In merito agli indicati danni non patrimoniali il Pg presso questo
Ufficio ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi per quanto
attiene alla liquidazione del danno biologico mentre ne ha chiesto
l’accoglimento relativamente alle censure formulate in merito alla
liquidazione del danno esistenziale.
b) Premessa sulla natura del danno non patrimoniale. Sulla
valutazione del danno non patrimoniale vanno fatte alcune premesse
di carattere generale rese necessarie dall’evoluzione
giurisprudenziale verificatasi negli ultimi tempi su questo tema che
presenta, indubbiamente, maggiori difficoltà teoriche e
ricostruttive rispetto al danno patrimoniale.
Tradizionalmente i danni non patrimoniali erano ritenuti risarcibili
nei ristretti limiti previsti dall’articolo 2059 Cc che,
prevedendone il ristoro nei soli casi previsti dalla legge, limitava
la loro risarcibilità alla sola ipotesi in cui il danno fosse stato
cagionato da un reato (articolo 185 comma 20 cod. penale) perché
questo era l’unico caso previsto dalla legge.
In tempi più recenti, rispetto all’approvazione del codice penale
sono state introdotte, con innovazioni legislative, ulteriori forme
di risarcimento di danni non patrimoniali (vengono richiamati, da
dottrina e giurisprudenza, l’articolo 2 legge 117/88, sui danni
derivanti dalla privazione della libertà personale cagionati
nell’esercizio delle funzioni giudiziarie; l’articolo 29 comma 90
legge 675/96 sull’impiego di modalità illecite nella raccolta di
dati personali; l’articolo 44 comma 70 D.Lgs 286/98, per gli atti
discriminatori per motivi razziali, etnici e religiosi; l’articolo 2
legge 89/2001 in tema di mancato rispetto del termine ragionevole di
durata del processo; si aggiunga il disposto dell’articolo 89 comma
20 Cpc nel caso di espressioni sconvenienti o offensive contenute
negli scritti difensivi).
L’evidente iniquità della limitazione della risarcibilità del danno
non patrimoniale alle ipotesi di reato (e alle altre limitate
ipotesi via via introdotte dal legislatore) ha indotto dottrina e
giurisprudenza a costruire, in un primo tempo, ipotesi di danni
risarcibili come danni patrimoniali anche in casi nei quali la
lesione patrimoniale era assai poco evidente e comunque poteva
mancare: ci si riferisce in particolare al danno biologico
costituito, come si è detto, dalla lesione dell’integrità psico
fisica della persona che è stato fondato sulla diretta violazione
del diritto alla salute e all’integrità psico fisica della persona,
garantito dall’articolo 32 della Costituzione, ma con il richiamo
all’articolo 2043 Cc, e non all’articolo 2059 del medesimo codice,
anche dopo che ne è stata riconosciuta la natura non patrimoniale.
Più complesso appare il percorso argomentativo utilizzato per
affermare la risarcibilità del danno esistenziale la cui natura non
patrimoniale, a differenza di quello biologico, è sempre stata
indiscussa ma per il quale era meno agevole rinvenire il fondamento
normativo (difatti ancor oggi importanti orientamenti dottrinari
dubitano della risarcibilità, o riparabilità, del danno
esistenziale).
Questa tendenza ad ampliare l’ambito di risarcibilità (ma spesso si
preferisce parlare di riparabilità) dei danni non patrimoniali si è
manifestata sotto diversi profili. Innanzitutto si è affermato il
concetto, ormai comunemente condiviso, che il danno non patrimoniale
risarcibile non può essere riduttivamente ricondotto al c.d. "danno
morale soggettivo" (che peraltro né l’articolo 2059 Cc né l’articolo
185 cod. penale menzionano) cioè alla mera sofferenza psicologica,
al patema d’animo, al turbamento contingente conseguente al fatto
illecito riguardando invece tutte le conseguenze dell’illecito che
non sono suscettibili di una valutazione pecuniaria.
L’ampliamento della nozione di danno non patrimoniale oltre la
nozione di danno morale soggettivo ha avuto come prima conseguenza
quella di consentire di estendere la risarcibilità del danno non
patrimoniale anche a soggetti diversi dalle persone fisiche (in
questo senso v. Cassazione civile, sezione terza, 2367/00, per est.
in Danno e resp. 2000, 490). Non ignora la Corte che nella
giurisprudenza penale di legittimità questi principi siano stati
ancor di recente posti in discussione (v. Cassazione, sezione sesta,
32957/01, Policella che così si esprime: «non è ravvisabile, come
ritenuto dal giudice del merito, un danno all’immagine,
riconducibile al comune, giacché esso per la sua natura di danno
morale, come tale correlabile ad una sofferenza fisica o psichica è
più propriamente riferibile al soggetto privato danneggiato e non ad
un ente della Pa»). È peraltro da rilevare che la prevalente
giurisprudenza penale di legittimità è nel senso accolto da quella
civile (v. Cassazione, sezione prima, 8 luglio 1995, Costioli;
8381/92, Bono; sezione prima, 9105/92, Maggi; sezione prima,
13850/98, Paticchia) di talché l’orientamento ricordato, anche se
più recente, deve ritenersi isolato.
Non è poi privo di significato l’orientamento della giurisprudenza
comunitaria che, dopo avere in più occasioni riaffermato che la
risarcibilità del danno morale costituisce problema riservato alle
legislazioni nazionali, ha in un caso che potrebbe anche essere
recentemente affermato ritenuto di natura "bagatellare" (quello
della "vacanza rovinata") e che, proprio per questa ragione,
conferma la tendenza espansiva del danno non patrimoniale la
risarcibilità del danno morale conseguente all’inadempimento delle
prestazioni pattuite dagli organizzatori di viaggi organizzati (v.
sentenza della Corte di giustizia delle comunità europee 12 marzo
2002, causa C-168/00, per est. in Foro ít., 2002,IV,329).
Ma l’evoluzione giurisprudenziale più significativa in tema di danno
non patrimoniale è recentissima. Con due sentenze depositate il
medesimo giorno (31 maggio 2003 nn. 8828, che indica le soluzioni
proposte, e 8827 che, su questi temi, richiama e fa proprie le
argomentazioni dell’altra sentenza) la terza sezione civile di
questa Corte ha ribadito innanzitutto come non possa più essere
ricondotto, il concetto di danno non patrimoniale, al mero danno
morale soggettivo e ha interpretato l’articolo 2059 in esame nel
senso che «il danno non patrimoniale deve essere inteso come che
categoria ampia, comprensiva di ogni ipotesi in cui sia leso un
valore inerente alla persona». Ha ritenuto che una lettura
costituzionalmente orientata dell’articolo 2059 Cc imponga di
ritenere inoperante il limite posto da tale norma «se la lesione ha
riguardato valori della persona costituzionalmente garantiti» ed in
particolare i diritti inviolabili dell’uomo riconosciuti e garantiti
dall’articolo 2 della Costituzione.
Il giudice civile di legittimità sembra propendere per un concetto
unitario di danno non patrimoniale e ritiene non proficuo
«ritagliare all’interno di tale generale categoria specifiche figure
di danno etichettandole in vario modo: ciò che rileva, al fini
dell’ammissione al risarcimento, in riferimento all’articolo 2059, è
l’ingiusta lesione di un interesse inerente alla persona, dal quale
conseguano pregiudizi non suscettivi di valutazione economica». In
questa ottica le sentenze citate della terza sezione evitano di fare
espresso riferimento al danno esistenziale ma l’esame dei casi presi
in considerazione conferma che i danni accertati erano riferiti a
questo tipo di danno (in un caso riguardavano la perdita del
rapporto parentale; nell’altro lo sconvolgimento delle abitudini dei
genitori conseguente alle gravissime lesioni subite dal figlio
ridotto allo stato vegetativo) perché si riferivano a casi che la
precedente giurisprudenza, anche di legittimità, collocava tra i
danni di natura esistenziale.
Le considerazioni svolte nelle due sentenze, come è agevole
verificare dai punti sintetizzati, hanno peraltro una portata
interpretativa ben più ampia che consente di esaminare le censure
formulate dai ricorrenti sotto il profilo del danno non
patrimoniale.
c) L’esame delle censure. il danno morale soggettivo. Va premesso
che un’affermazione contenuta nell’ordinanza impugnata non può più
essere posta in discussione: quella secondo cui il danno morale (da
intendere come danno morale soggettivo consistente nella sofferenza
psicologica o nel turbamento transitorio provocato dal fatto
illecito) non sarebbe risarcibile in quanto non derivante da reato
per la nota richiamata interpretazione dell’articolo 2059 Cc che ne
limiterebbe l’ambito di applicazione ai soli danni derivanti da
reato. Pur non avendo l’istante impugnato il punto concernente
questo diniego alcune puntualizzazioni sono necessarie perché la
Corte parrebbe in realtà far rifluire il danno morale soggettivo in
quello esistenziale che forma oggetto delle due impugnazioni in
esame.
L’interpretazione della Corte di merito sul danno morale soggettivo
appare riduttiva perché questa tipologia di danno ha perso, o visto
attenuato nel tempo, l’originario carattere sanzionatorio per
assumere sempre più una veste anche riparatoria estesa, dalla più
recente giurisprudenza di legittimità, anche a danni provocati da
condotte che solo astrattamente possono costituire reato (il "reato"
commesso dall’incapace; i casi di presunzione di concorso di colpa
ecc. ; v. Cassazione, sezione terza civile, 7283/03, per est. in
Danno e resp., 2003, 713). Anzi la citata sentenza 8827 della terza
sezione civile di questa Corte ha compiuto un ulteriore passo per
svincolare dal reato anche il danno morale soggettivo avendo
ritenuto che, nel caso di pregiudizi derivanti dalla lesione di un
interesse costituzionalmente protetto, «il pregiudizio
consequenziale integrante il danno morale soggettivo (patema
d’animo) è risarcibile anche se il fatto non sia configurabile come
reato».
Potrebbe quindi essere posto in discussione, ove si seguisse questo
orientamento, il diniego del danno morale soggettivo: sia per la
riparazione a seguito di revisione che per quella per l’ingiusta
detenzione le cui conseguenze neppure astrattamente (proprio per la
causa che ha dato origine alla vicenda ravvisabile nel legittimo
esercizio di una pubblica funzione) possono essere ricondotte alla
consumazione di un reato potrebbe infatti essere riconosciuta anche
il danno morale soggettivo vertendosi, come si vedrà più avanti, in
tema di lesione dei diritti inviolabili dell’uomo.
In realtà all’istante non è derivato alcun danno da questa
statuizione perché le sofferenze fisiche e morali sono state prese
in considerazione dai giudici di merito per la liquidazione del
danno esistenziale. Peraltro non appare condivisibile l’affermazione
della Corte di merito, secondo cui il danno esistenziale di fatto
assorbirebbe quello morale; se così fosse si tratterebbe di un modo
singolare per aggirare l’affermazione sul diniego della riparazione
del danno morale soggettivo. In realtà la Corte, quando individua i
presupposti per la liquidazione del danno esistenziale fa
riferimento ai presupposti per la riparazione di questo danno e non
a quelli del danno morale soggettivo come si preciserà meglio nel
capitolo dedicato al danno esistenziale.
d) Il danno biologico. Vanno invece ora prese in esame le doglianze
che si riferiscono alla liquidazione del danno biologico e di quello
esistenziale. Prescindendo per il momento dalle critiche sui criteri
adottati dalla Corte di merito per la liquidazione del danno non
patrimoniale, che verranno successivamente esaminate, occorre
anzitutto premettere alcune considerazioni sulla natura del danno
biologico e, successivamente, verificare se sia corretto
l’inquadramento, da parte della Corte genovese, del danno biologico
nella categoria del danno non patrimoniale.
La nozione di danno biologico è frutto di elaborazione
giurisprudenziale (ma recentemente ha trovato significative conferme
a livello legislativo con l’entrata in vigore del D.Lgs 38/2000 e
della legge 57/2001) ed è costituito dalla compromissione, di natura
areddituale, dell’integrità psicofisica della persona. Generalmente
è ritenuto necessario che a questa compromissione si accompagni una
perdita o riduzione di funzioni vitali, anche non definitiva.
Sul punto della collocazione teorica del danno biologico deve
rilevarsi che la qualificazione come danno non patrimoniale data dal
giudice della riparazione appare del tutto corretta e confermata
dalla giurisprudenza di legittimità. La lesione del bene giuridico
tutelato non necessariamente comporta un pregiudizio di natura
patrimoniale: chi vive esclusivamente di investimenti finanziari
potrà continuare a farlo, e a percepire i medesimi introiti, anche
se ha subito un gravissimo incidente che ne provoca l’immobilità.
Per converso un danno biologico modesto (per es. una lesione
permanente ad una mano) potrà provocare un danno economico
rilevantissimo ad un affermato pittore o ad un noto pianista. Ma, in
quest’ultimo caso, il danno economico andrà risarcito autonomamente
come riduzione della capacità lavorativa (in questo caso specifica)
e non come danno biologico che troverà un suo autonomo risarcimento
(ma taluni, come si è già accennato, preferiscono usare, per il
danno non patrimoniale e quindi anche per il danno biologico, il
termine riparazione).
Le due citate sentenze della terza sezione della Corte di
cassazione, 8827 e 8828/03, laddove hanno posto il problema della
qualificazione del danno biologico non hanno messo quindi in
discussione un principio ormai consolidato quello della natura non
patrimoniale del danno ma il suo fondamento normativo riservandosi
peraltro di affrontarlo in altra occasione non essendo rilevante nei
casi esaminati (le decisioni citate, dopo aver ricordato che «la
tutela risarcitoria del c.d. danno biologico viene somministrata in
virtù del collegamento tra l’articolo 2043 Cc e l’articolo 32
Costituzione e non già in ragione della collocazione del danno
biologico nell’ambito dell’articolo 2059, quale danno non
patrimoniale» concludono peraltro nel senso che l’anche tale
orientamento, non appena ne sarà fornita l’occasione, merita di
essere rimeditato).
Il messaggio, seppur soltanto accennato come obiter dictum, della
terza sezione civile è chiaro: fermo restando che il danno biologico
è un danno di natura non patrimoniale, e come tale va considerato,
il fondamento della tutela deve però rinvenirsi nell’articolo 2059
Cc e non nell’articolo 2043; e questa impostazione è stata
autorevolmente accolta anche dalla Corte costituzionale che,
investita per l’ennesima volta della questione di costituzionalità
dell’articolo 2059 Cc, ha, con la sentenza 233/03, condiviso
integralmente il mutamento giurisprudenziale del giudice di
legittimità sul danno non patrimoniale e ha espressamente affermato
la natura non patrimoniale del danno biologico tutelabile attraverso
la tutela fornita dall’articolo 2059 Cc che, proprio in conseguenza
di questa interpretazione costituzionalmente orientata, si è salvato
ancora una volta dalla dichiarazione di incostituzionalità.
Questo collegio non ignora che autorevole corrente dottrinaria ha
posto motivatamente in discussione questo orientamento ed in
particolare la tendenza a creare, con l’interpretazione ricordata
dell’articolo 2059 Cc, una clausola generale di responsabilità non
patrimoniale relegando l’articolo 2043 del medesimo codice a
clausola generale di responsabilità patrimoniale. Ritiene pero di
condividere l’orientamento ricordato per affermare la natura non
patrimoniale del danno biologico e la sua collocazione all’interno
dell’articolo 2059 Cc quale danno alla salute tutelato direttamente
dall’articolo 32 della Costituzione.
Senza addentrarsi in una problematica che sarebbe opera di
presunzione tentare di risolvere da parte del giudice penale di
legittimità, è infatti possibile osservare che le fondate
preoccupazioni della corrente dottrinaria contraria a questa
evoluzione della giurisprudenza preoccupazioni dirette soprattutto
alla finalità di non estendere in modo abnorme una forma di
responsabilità per sua natura dai contorni generici e indefiniti
possono essere significativamente attenuate con una duplice
considerazione: 1) anche il danno non patrimoniale richiede pur
sempre l’ingiustizia (oltre che l’elemento soggettivo e il rapporto
di causalità) secondo i criteri di valutazione formatisi
nell’interpretazione dell’articolo 2043 Cc (che può quindi
continuare a rappresentare la clausola generale della responsabilità
compresa quella per danni non patrimoniali; un passaggio della
sentenza 8828/03 lo dice espressamente); 2) l’applicazione estensiva
dell’articolo 2059 Cc non dà luogo ad un abnorme ampliamento dei
casi di danni risarcibili perché la selezione degli interessi
meritevoli di tutela avviene con il parametro costituzionale
(addirittura, se il riferimento è all’articolo 2, con la sola
considerazione dei diritti l’inviolabili).
In definitiva il sistema della responsabilità per danno non
patrimoniale è dotato di due filtri, quello dell’articolo 2043 e,
una volta superato questo varco, quello dell’articolo 2059 (casi
previsti dalla legge, reato, lesione di diritti costituzionalmente
protetti). E questo assetto, tra l’altro, garantisce un sufficiente
grado di tipicità delle ipotesi di danno riparabile venendo incontro
ad un’altra preoccupazione espressa da una parte della dottrina. Si
aggiunga, come possibile (e discusso) ulteriore criterio selettivo
(peraltro non richiamato né dalla Corte costituzionale né dalla
Cassazione), quello sostenuto da autorevole dottrina che richiede
inoltre, come previsto da altri ordinamenti per i danni non
patrimoniali, una gravità dell’offesa che giustifichi la
riparazione.
Insomma ingiustizia del danno e valori costituzionali valgono
sufficientemente a selezionare i danni meritevoli di tutela
riparatoria, anche se provocati nell’esercizio di attività legittime
(ma con conseguenze ingiuste) rispetto a quelli bagatellari. Sarà
pur vero, come è stato autorevolmente osservato a commento ironico
delle due sentenze della terza sezione di questa Corte, che con
queste decisioni l’articolo 2059 Cc è stato «tirato fuori dallo
stanzino dei robivecchi, fatto oggetto di respirazione bocca a
bocca, riverniciato completamente, salvato all’ultimo momento dalla
rottamazione», ma ciò è avvenuto in un disegno complessivo di
razionalizzazione del sistema della responsabilità civile
nell’ambito di un processo che mostra una condivisibile tendenza
alla tutela dei valori della persona anche quando i pregiudizi
subiti dalla medesima non abbiano risvolti economici ma si risolvano
nella lesione dell’integrità fisica e morale, degli interessi
riguardanti gli affetti, i rapporti personali e familiari.
Situazioni giuridiche spesso contrabbandate come aventi carattere
patrimoniale proprio per garantirne la tutela giurisdizionale (lo
stesso Autore, del resto, constata come spesso sono stati i danni
ingiusti a orientare l’interpretazione della norma e non viceversa).
Devono quindi ritenersi infondate le critiche dei ricorrenti,
peraltro solo in parte esplicitate, che lamentano, se non una
duplicazione di risarcimento, un sostanziale appiattimento, che
avrebbe operato la Corte di merito, del danno biologico sulla
riduzione della capacità lavorativa. Critica che sarebbe difficile
superare ove il danno biologico fosse considerato di natura
patrimoniale mentre, ritenendolo di natura non patrimoniale,
riescono di maggiore evidenza le linee di demarcazione con il danno
economico derivante dalla lesione della capacità lavorativa.
In conclusione su questo punto: corretta è l’affermazione
dell’ordinanza impugnata che ritiene di natura non patrimoniale il
danno biologico anche se può essere ritenuto non condivisibile il
percorso argomentativo che si fonda interamente sull’articolo 2043
Cc ritenendo non applicabile l’articolo 2059. Ma la conclusione cui
il giudice della riparazione è pervenuto deve ritenersi
giuridicamente corretta.
e) Il danno esistenziale. Questa tipologia di danno al quale si è
già fatto ampiamente cenno trattando in generale del danno non
patrimoniale costituisce il frutto di un’elaborazione
giurisprudenziale e dottrinale relativamente recente. Si è già
precisato che il danno esistenziale è ricollegato ad un
peggioramento non temporaneo della qualità della vita del
danneggiato con un conseguente mutamento radicale delle sue
abitudini, dei suoi rapporti personali e familiari. Sulla natura,
presupposti e fondamento del danno esistenziale la dottrina è divisa
(si sono formate tre scuole facenti capo a sedi universitarie
denominate triestina, torinese e pisana, quest’ultima contraria alla
categoria del danno esistenziale) mentre la giurisprudenza è sempre
più orientata a ritenere ammissibile la riparazione del danno
esistenziale e questo percorso è da ritenere confermato dalle citate
sentenze 8828 e 8827 e da quella della Corte costituzionale n. 233 (quest’ultima,
a differenza delle altre
due, fa esplicito riferimento anche al danno esistenziale).
Quanto al danno esistenziale non è condivisibile la critica di fondo
contenuta nei due ricorsi che, sostanzialmente, lamentano che, con
il riconoscimento del danno esistenziale, si opererebbe un’indebita
duplicazione risarcitoria con il danno biologico. Questa
duplicazione non esiste perché il danno esistenziale è cosa diversa
dal danno biologico e non presuppone alcuna lesione fisica o
psichica, né una compromissione della salute della persona, ma si
riferisce ai già indicati sconvolgimenti delle abitudini di vita e
delle relazioni interpersonali provocate dal fatto illecito. Si
vedano gli esempi esaminati, e già accennati, nelle sentenze 8827 e
8828.
Neppure appare corretta l’affermazione, contenuta nell’ordinanza
impugnata, secondo cui il danno morale soggettivo, non risarcibile
per la ragione indicata, sarebbe di fatto assorbito dal danno
esistenziale perché, anche con questa affermazione, si confonde la
natura delle due tipologie di danno: il danno morale soggettivo (pati)
si esaurisce nel dolore provocato dal fatto dannoso, è un danno
transeunte di natura esclusivamente psicologica; il danno
esistenziale (non facere ma anche un facere obbligato che prima non
esisteva), pur avendo conseguenze di natura psicologica, si traduce
in cambiamenti peggiorativi permanenti, anche se non sempre
definitivi, delle proprie abitudini di vita e delle relazioni
interpersonali.
La non sovrapponibilità tra le due categorie di danno emerge
chiaramente proprio in relazione all’ingiusta detenzione: la
privazione della libertà personale per un solo giorno può provocare
un gravissimo danno morale ma il danno esistenziale, in questi casi,
può anche mancare. Si è però già rilevato che la statuizione sulla
non risarcibilità del danno morale è da ritenere ormai definitiva
per mancata impugnazione; sotto altro profilo i danni che la Corte
indica come produttivi di questo danno sono invece tutti riferibili
a conseguenze di natura esistenziale e come tali correttamente
considerate (la Corte fa infatti riferimento al "carico di
sofferenze" ma lo ricollega l’al modificato regime di vita e alla
privazione della libertà personale, le cui conseguenze perdurano nel
tempo, non avendo potuto il Barillà, dopo la scarcerazione,
ripristinare le sue precedenti abitudini di vita. Non quindi
sofferenza psicologica transitoria connaturata al danno morale
soggettivo ma sconvolgimento perdurante nel tempo (anche
successivamente all’avvenuta scarcerazione) delle abitudini di vita
che costituisce l’aspetto caratterizzante del danno esistenziale.
Orbene, nel caso in esame il giudice di merito ha accertato
l’esistenza di tutti i presupposti per la risarcibilità del danno
esistenziale subito da Barillà, e ben può affermarsi che l’ipotesi
in esame costituisca un caso emblematico dello sconvolgimento
esistenziale che procurano una detenzione, una sottoposizione a
processo e una condanna ad una lunga pena da espiare, poi rivelatesi
ingiuste, e da cui conseguono la privazione della libertà personale,
l’interruzione delle attività lavorative e di quelle ricreative,
l’interruzione dei rapporti affettivi e di quelli interpersonali, il
mutamento radicale peggiorativo e non voluto delle abitudini di vita
e altre che non è necessario precisare. Insomma l’ingiusta
detenzione e l’ingiusta sottoposizione a processo costituiscono
forse un caso ancor più significativo tra quelli che la
giurisprudenza ha fino ad oggi preso in considerazione per fondare
la risarcibilità del danno esistenziale.
Quanto al fondamento giuridico (il rinvio, da taluno ritenuto
riserva di legge, contenuto nell’articolo 2059 Cc) in questo caso la
tutela si fonda non solo sulla norma costituzionale generica
(articolo 2 che riconosce e garantisce i diritti inviolabili
dell’uomo) ma anche sulle norme, specifiche, che sanciscono
l’inviolabilità della libertà personale (articolo 13) e tutelano le
libertà, previste negli articoli successivi, che la detenzione
inevitabilmente comprime o addirittura esclude (per es. la libertà
di circolazione).
Ne consegue che correttamente la Corte di merito ha ritenuto la
risarcibilità (o riparabilità) anche del danno esistenziale perché
ricollegato ad una privazione o restrizione legittime ma
successivamente rivelatesi ingiuste degli indicati diritti garantiti
non solo dalla nostra Costituzione ma anche dai già ricordati
articolo 5 comma 50 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo
e sull’articolo 9 n. 5 del Patto internazionale dei diritti civili e
politici.
Sicché sembra del tutto condivisibile l’affermazione fatta in
dottrina, proprio a commento dell’ordinanza in esame, che l’articolo
643 Cpp "contempli uno dei casi di risarcibilità dei danni non
patrimoniali a cui rinvia l’articolo 2059 Cc".
f) I criteri di determinazione e liquidazione del danno non
patrimoniale. Va premesso che le innovazioni giurisprudenziali
riferite non influiscono sui criteri di determinazione e
liquidazione del danno non patrimoniale. Per quanto riguarda le
critiche rivolte dai ricorrenti, sotto questi profili, all’ordinanza
impugnata (con particolare riferimento al danno biologico perché di
quello esistenziale sembra essere contestata la sola ammissibilità
non la quantificazione) si osserva innanzitutto che non è fondata la
critica che si riferisce alla quantificazione del danno avendo
l’ordinanza impugnata fatto riferimento ai criteri utilizzati dal
perito che ha ampiamente motivato la percentualizzazione che,
peraltro, i ricorrenti neppure contestano con argomentazioni
specifiche per cui la doglianza è altresì da ritenere generica.
Parimenti infondate si rivelano le critiche secondo cui non sarebbe
stato formulato al perito alcun quesito in tema di danno biologico e
alla mancata percentualizzazione del medesimo. Se è vero infatti che
il danno biologico consegue ad una valutazione di tipo medico legale
è altrettanto vero che una volta compiuta questa operazione, anche
con la percentualizzazione dell’invalidità (cosa che il perito ha
fatto), l’inquadramento giuridico nelle varie categorie risarcibili
costituisce compito del giudice di merito che, nel caso di specie,
ha correttamente adempiuto a questo compito cui è attribuito il
compito di valutare le conseguenze, di natura patrimoniale o non
patrimoniale, dell’invalidità accertata.
Per quanto riguarda invece il mancato uso dei criteri tabellari
(sempre in merito al danno biologico) si osserva che questo
criterio, comunemente utilizzato dalla giurisprudenza civile di
merito, e la cui correttezza è ormai indiscussa anche in sede di
legittimità, costituisce un utile strumento di disciplina per
limitare la discrezionalità inevitabile della valutazione equitativa.
La natura non patrimoniale e areddituale del danno biologico non
consente infatti una ricostruzione dell’entità, in termini monetari,
del danno risarcibile e il sistema tabellare (peraltro diversificato
nelle varie sedi giudiziarie: attualmente quello che forse trova
maggior consenso è quello c.d. "a punto tabellare", elaborato dalla
giurisprudenza milanese) viene incontro all’esigenza di evitare
ingiustificate disparità di trattamento inevitabili con l’uso di un
criterio equitativo "puro".
Ciò premesso va però precisato che il sistema tabellare non può
essere considerato obbligatorio perché nessuna norma ne impone
l’adozione per i danni da responsabilità aquiliana e quindi deve
ritenersi ammissibile una liquidazione meramente equitativa purché
il giudice abbia dato conto dei criteri equitativi seguiti nella
liquidazione, questi criteri non appaiano illogici e la liquidazione
non si discosti clamorosamente e immotivatamente (in più o in meno)
dai criteri tabellari che costituiscono pur sempre il metodo di
liquidazione che il diritto vivente adotta e privilegia
V’è da osservare inoltre che la valutazione esclusivamente
equitativa del danno biologico potrebbe trovare conferma nelle
considerazioni che le sentenze 8827 e 8828 citate svolgono in merito
alla opportunità di una valutazione complessiva di tutti i danni non
patrimoniali, compreso quello biologico. Una valutazione complessiva
renderebbe infatti non impossibile ma certamente più complesso
utilizzare il metodo tabellare.
Nel caso di specie il giudice di merito si è adeguato ai principi
indicati perché ha preso in esame i criteri prospettati optando per
una valutazione equitativa che si discosta in aumento non di molto,
in termini percentuali (meno del 25 %), dal risultato conseguibile
con il criterio tabellare e costituisce meno di un terzo della
richiesta dell’istante. Nella motivazione dell’ordinanza impugnata
vengono richiamate le caratteristiche della vicenda per sottolineare
la gravità del danno biologico subito evidenziando i gravi danni
alla salute provocati dalla detenzione e dalle altre conseguenze
della detenzione, del processo e della condanna. Insomma i giudici
hanno giustificato congruamente la loro decisione sul punto
valutando criticamente le opzioni proposte al fine di determinare il
valore definitivo assegnato alla liquidazione per questo titolo.
Quanto alla valutazione del danno esistenziale, che effettivamente
potrebbe sembrare liquidato con eccessiva larghezza (Euro
1.000.000,00), va rilevato che tale statuizione si appalesa
incensurabile in sede di legittimità trattandosi (ovviamente) di
valutazione esclusivamente equitativa per un danno che, per
l’estrema variabilità delle situazioni tutelate, neppure si
presterebbe ad una disciplina tabellare analoga a quella del danno
biologico.
E, anche in questo caso, l’unica censura che potrebbe astrattamente
ipotizzarsi quella della manifesta illogicità conseguente ad una
valutazione apoditticamente ed arbitrariamente espressa è da
escludere perché i giudici di merito hanno fornito di adeguata,
congrua e certamente non illogica motivazione la loro valutazione
facendo ampio riferimento, oltre che alla durata della carcerazione,
alle forzate rinunce di Barillà alle proprie abitudini di vita, alla
perdita dell’attività d’impresa e di lavoro. all’interruzione del
rapporto affettivo, poi risoltosi definitivamente, di Barillà con la
fidanzata anche lei colta da disturbi depressivi e costretta a
subire un ricovero psichiatrico, alla necessità di vendere la casa
di abitazione, all’impossibilità di partecipare ai funerali del
padre, al discredito sociale conseguente all’essere stato
considerato (con sentenza passata in giudicato ! ) un grosso
trafficante di sostanze stupefacenti (il quantitativo sequestrato
nell’operazione fu di 50 chili di cocaina).
Come è agevole verificare si tratta di motivazione esente da vizi
logici e giuridici sulla quale non può essere esercitato lo
scrutinio di legittimità richiesto dai ricorrenti.
Conclusivamente i ricorsi devono essere accolti nei limiti indicati
con rinvio alla Corte d’appello di Genova per nuovo esame sui punti
oggetto dell’annullamento. L’accoglimento solo parziale dei ricorsi
consente di compensare integralmente le spese tra le parti del
presente grado di giudizio mentre quelle del giudizio di merito
formeranno oggetto di nuova valutazione in esito al giudizio di
rinvio.
La Corte suprema di cassazione, sezione quarta penale, annulla
l’ordinanza impugnata limitatamente ai seguenti profili
dell’indennizzo: perdita dell’attività commerciale; spese di difesa;
riduzione della capacità lavorativa.
Rinvia per nuovo esame sui punti indicati alla Corte d’appello di
Genova.
Rigetta nel resto i ricorsi e compensa integralmente le spese di
questo grado di giudizio tra le parti.
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