SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE
Rubrica a
cura dell'avv.
Antonino Sgroi
F. MAZZARELLA, Sei lezioni sul processo, Padova, C.E.D.A.M., 2000.
Il libro, ripartito in sei capitoli,
costituisce l’occasione per l’autore di proporre una lettura del processo
all’interno della società.
Punto di partenza è l’opera di Chiovenda e l’affermazione di questi «...che
l’apparato giudiziario si mette in moto e funziona anche quando non vi è
alcun diritto soggettivo da difendere...» (p. 6), e osserva che il
menzionato apparato è «...volto al raggiungimento di uno scopo obbiettivo,
perseguibile in ogni caso, anche mediante la sentenza di rigetto.» (p. 7).
L’autore constata come nell’opera di Chiovenda «...è presente (da un
lato)l’idea che il diritto soggettivo sia uno dei modi sociali
dell’organizzazione, sicché la contrapposizione tra privato e
pubblico ne esce del tutto relativizzata....(da altro versante
la)...intuizione che il processo è capace di dare certezza là dove ce
ne è bisogno, cioè nel commercio giuridico» (p. 10).
Quest’ultima «intuizione chiovendiana», individuata dall’autore del libro
come «...una zona, nella quale si è vulnerabili, se è vero che si è sempre
sottoposti alla contestazione (al potere) dell’avversario...Si tratta di un
contropotere capace di neutralizzare il vantaggio che, per il titolare, sta
alla base di ogni diritto, tanto da costringerlo a cercare aiuto...» (p.
12), costituisce il punto nodale da cui l’autore snoda la rilettura del
processo e del rapporto processuale.
L’aiuto che si cerca non si radica sul divieto posto dallo Stato di
autotutela.
Divieto che l’autore, menzionando l’opera di Barcellona (p. 13, nota 24),
L’individuo sociale, ritiene una «leggenda metropolitana», radica nella «...comunità
che, proprio perché tale, cioè ordinata, non conosce nel suo seno la
violenza, pena la propria stessa negazione...» (pp. 12 e 13).
In realtà il divieto di autotutela scaturisce, secondo il ns., dalla parità
che in una società organizzata è riconosciuta a tutti gli appartenenti alla
stessa che sono eguali.
Da questa isonomia, intesa «...come uguaglianza politica di uomini che,
tuttavia, mante(gono) la loro diversità sociale...» (p. 12, nota 23)
scaturisce che è la società nel suo complesso a garantire la tutela a tutti
i suoi appartenenti e a riconoscere attraverso il processo ciò che è
espressione di sé medesima e ciò che non lo è (p. 14).
All’interno di questo quadro ricostruttivo delle relazioni sociali si pone
la possibilità che due soggetti, entrambi appartenenti alla stessa
comunità, si trovino l’un contro l’altro armati e con interessi
specularmente opposti.
In questa ipotesi non è solo interesse dei due
contendenti eliminare l’incertezza, ma è interesse della stessa comunità, a
cui essi appartengono, riportare l’ordine sociale.
I due soggetti, situati nella comunità su un piede di perfetta parità, non
possono che risolvere la lite che affidandosi a un soggetto terzo creato
dalla comunità medesima e costui è il giudice, soggetto diverso e altro
dalle parti, ma allo stesso tempo soggetto scaturente dalla medesima società
di cui fanno parte i due contendenti - egli «...è il portato della
costituzionale parità delle parti...(p. 36), a cui è affidato innanzi tutto
il compito di tutelare nel processo la parità di questi ultimi» (p. 25).
In questo quadro sostanziale di perfetta parità sociale le tesi sostenute
dalle parti dentro il processo hanno la stessa dignità, l’autore parla di
«...eguale dignità delle ragioni...», stante il fatto «...che il
diritto obbiettivo si riconosce in ess(e) ad egual titolo...» (p. 29).
Sotto il profilo sostanziale entrambe le prospettazioni fatte dalle parti
del giudizio, sostiene l’autore, «...sono già esse stesse manifestazioni di
ordine» (p. 31),e il contraddittorio che si svolge nel processo è l’elemento
fondante dello stesso(p.32 e nota 16).
Il contraddittorio del e nel processo rappresenta in questo l’inveramento
della parità sostanziale di cui godono sia l’attore, sia il convenuto nella
comunità a cui appartengono.
In questa comunità di pari e nella necessità che la stessa sia preservata
qualora sorgono contestazioni fra gli appartenenti alla stessa, si radica la
«necessità» del processo, «...ogni processo è sempre un affare di tutti...»
(p. 59), e della gestione dello stesso da parte di un altro soggetto della
comunità. Un altro pari, il giudice, a cui è affidato il compito di
individuare quel che è conforme nel caso concreto al modello sociale di
appartenenza di tutti gli attori della commedia.
In questo appartenere alla stessa comunità di pari e del modello di
risoluzione delle liti istaurato nella medesima, l’autore trova un’esempio
nell’arbitrato e si chiede perché lo stesso nel diritto del lavoro «...in un
ambiente permeato da forte disparità e conflittualità, stenti tanto a
nascere e a svilupparsi.»(p. 38, nota 26). Questa domanda è di estrema
attualità nel momento in cui si assiste a un fiorire di ipotesi legislative
tese alla riduzione del contenzioso in materia di lavoro e previdenza
sociale (in argomento si rinvia a: 1) Relazione della Commissione per lo
studio e la revisione della normativa processuale del lavoro presieduta da
R. Foglia [in essa con riguardo all’arbitrato si prende atto del diverso
approccio all’istituto dell’arbitrato da parte dei membri «...pur essendo
tutti accomunati dall’idea di connotare l’istituto in guisa da filtrare, in
termini selettivi, il ricorso alla giustizia del lavoro,...»]; 2) Libro
bianco sul mercato del lavoro in Italia - Proposte per una società attiva e
per un lavoro di qualità - del Ministero del Lavoro e delle Politiche
Sociali [al prg. 1.3.7. si legge: «...il Governo considera assai
interessante la proposta, da più parti avanzata, di sperimentare interventi
di collegi arbitrali che siano in grado di dirimere la controversia in tempi
sufficientemente rapidi.]).
Ritornando alle nostre lezioni, da questa parità scaturisce nel processo,
circolarmente, che «la "ragion d’essere" delle parti è nel giudice, e quella
del giudice nelle parti...» (p. 37).
Acclarato che il motore primo del processo è la parità, all’interno della
quale deve essere letto il principio costituzionale dell’art. 24 (p. 45).
L’autore passa a verificare la posizione di ognuno degli attori della
rappresentazione e la sua disamina si muove dalla posizione dell’attore.
Personaggio che assume in prima persona il rischio dell’inizio dell’azione
confrontandosi con gli altri (p. 43).
Ma la solitudine di chi esperisce l’azione scompare nel momento in cui la
stessa per affermarsi ha bisogno di correre il rischio di confrontarsi con
gli altri, termine da non delimitare, secondo l’autore, al giudice e al
convenuto, all’interno del processo; processo che costituisce un divenire.
Divenire che porta con sé il progressivo mutamento della posizione
dell’attore e del convenuto (p. 58).
Costoro partiti da una posizione sostanziale di assoluta parità, che
riverbera i suoi effetti anche sotto il profilo processuale, usciranno dal
processo mutati.
Sarà il processo, che «...è lo stesso giudizio in fieri...» (p. 61, nota
16), concluso che, nell’interesse delle parti e della comunità, individuerà
fra due pari, rompendo la parità congenita, quello la cui posizione, diversa
dal momento in cui si è incardinato il giudizio, è meritevole di tutela.
Nel momento in cui tale decisione sarà assunta il giudice, da soggetto terzo
e neutrale, chiamato a tutelare con e nel processo la parità sostanziale
delle parti, perderà «...la sua neutralità, e si schier(erà) a favore
dell’una e non dell’altra delle parti...»(p. 62 e 64, in quest’ultima pagina
si evidenzia come tale perdita di neutralità non avviene repentinamente, ma
si dipana progressivamente nel processo).
La posizione di neutralità del giudice è aggettivata quale temporanea
dall’autore (passim, nota 22).
Ma forse potrebbe dirsi che lo «schierarsi» del giudice deve essere letto,
secondo l’ipotesi ricostruttiva dell’autore, all’interno del modello sociale
di assoluta isonomia dei soggetti e pertanto se sotto il profilo sostanziale
il giudice per dirimere il nodo deve ontologicamente «prendere posizione>> e
pertanto far prevalere una parità sull’altra.
Di converso sulle modalità operative con le
quali il giudice deve pervenire alla decisione la comunità chiede allo
stesso che la sua posizione di neutralità non venga mai meno e che il
«procedere» del processo sia disciplinato da un soggetto che non perda mai
tale qualifica.
Se è vero che il processo è un divenire che
quando giunge a conclusione lascia le parti in una posizione sostanziale che
non è mai quella da cui sono partite; è anche vero che tale percorso deve
avere delle regole del «gioco»(tale vocabolo è utilizzato nel prosieguo del
lavoro dall’autore, assegnando allo stesso il significato che gli Gadamer
[p. 68, n. 1]. Sul significato da assegnare al termine si rinvia a: N.
Abbagnano, v. Gioco, in Dizionario di Filosofia, Torino, U.T.E.T., 1971) la
cui osservanza è affidata al giudice e nei confronti della quale quest’ultimo
non dovrà mai perdere la sua assiologica neutralità.
Dall’uso del termine gioco fatto nel libro è possibile passare all’ulteriore
significato che al sostantivo parte nello stesso è data.
L’autore ritiene che l’uso di siffatto vocabolo sta a significare, oltre ai
normali significati, il fatto che il soggetto si estranea, «...si mette, o è
messo da parte; come fuori da un giuoco...» (p. 68).
Con il processo la parte si allontana dalla comunità in attesa che nel
processo medesimo si ponga fine alla contraddizione fra pari.
Solo quando questa contraddizione scompare, «...con la vanificazione della
voce dissenziente...» (p. 69), il soggetto ritorna nell’ordine.
Deve ritenersi che la scomparsa della contraddizione consenta a entrambi i
soggetti del giudizio di ritornare all’ordine della comunità, mentre è
certamente diversa la posizione fatta agli stessi dopo la conclusione del
processo.
Infatti solo uno vedrà la propria posizione
sociale uscire rafforzata dal giudizio in quanto condivisa dal giudice e
conseguentemente dalla comunità che affida a questi il compito di dipanare
le contraddizioni fra gli appartenenti alla stessa (passim).
Ma affinché tale iter sia completo è necessario che il processo si concluda
con una statuizione non soggetta a contestazioni; è questo il momento in cui
l’effetto di accrescimento nei confronti della parte vittoriosa si espleta.
L’irretrattabilità del giudicato (di assoluta irretrattabilità parla anche
Cordero, p. 102, n. 25), secondo la ricostruzione fatta dall’autore, si
radica e trova la sua giustificazione, al pari della giurisdizione, nella
«...società nel suo complesso...» e non trova di converso alcuna
ratio giustificatrice nello Stato(p. 74. L’autore osserva che «L’intuizione
della dimensione collettiva» (non statuale) sulla quale riposa l’autorità
della cosa giudicata, è in Coppens [p. 113, nota 10]). Quest’ultimo è solo
chiamato ad apprestare i mezzi materiali per esercitare la giurisdizione ma
non è la causa prima della stessa; causa prima che deve rinvenirsi
esclusivamente nella comunità a cui fa capo la sovranità (p. 77, 99 - 102).
La ricostruzione sin qui delineata del giudicato come momento di fine della
contraddizione e di ritorno alla comunità trova un momento di frizione nella
revocazione straordinaria. Se è vero che la contraddizione è eliminata e
l’ordine comunitario è restaurato irretrattabilmente, deve spiegarsi perché
la comunità pone a rischio questo nuovo ordine, frutto di un processo, con
le ipotesi di revocatoria straordinaria.
La natura assegnata alla sentenza in materia civile ritiene l’autore possa
essere estesa anche alle decisioni in materia amministrativa e penale, «...anche
nella giurisdizione in materia penale o in materia amministrativa...il
diritto è detto a più voci e il mittite ambo rem (o hominem) non è
espressione del potere del più forte, bensì del pari potere e, quindi, della
negazione di ogni potere..» (p. 85).
Tutte le giurisdizioni trovano la loro giustificazione nella comunità
sovrana e il giudice «...non si ottiene dal benvolere dello Stato: si impone
anche un giudice allo Stato. Il che vuol dire che si è mutato il proprio
posto nell’universo della politica, da suddito (homo hierarchicus) a
cittadino (homo aequalis)» (p. 88).
Questo passaggio si connette inscindibilmente con l’idea della società come
comunità di pari e unitariamente entrambi rappresentano, all’interno
dell’opera, il cardine di una visione democratica della giurisdizione, non
più oggetto di concessione del principe ma momento di epifania
dell’eguaglianza dei membri di una collettività sovrana che volontariamente
affidano la risoluzione delle proprie contraddizioni a un altro socio della
medesima.
Altro socio, chiamato giudice, che è da vedere
come un agente comunitario; «...la voce non tanto, o non soltanto della legge,
e, dunque, di una frazione, anche se maggioritaria della comunità, ma di tutti»
(pp. 106 - 107).
L’autore in un passo precedente evidenzia come la legge non rappresenti tutti i
membri della comunità di appartenenza, ma solo la maggioranza degli stessi (p.
99).
La rappresentanza della comunità affidata ai giudici porta con sé, si direbbe
come necessità ontologica, la loro imparzialità.
«...essere imparziali non significa non soltanto non sposare l’interesse di una
delle due parti in conflitto...significa anche non appartenere a nessuna
formazione o aggregato di qualsivoglia natura, i cui interessi, per non essere
quelli "di tutti", non possono essere che parziali e, dunque, necessariamente di
parte.» (p.109).
L’unica appartenenza concessa ai giudici è quella alla «...aggregazione
collettiva di base, che ci insegna a parlare, a pensare, a ragionare, in una
parola, che ci dota di una comune esperienza senza la quale
nessuno è se stesso;...» (p. 110).
Ed è questo appartenere alla comunità che assicura l’indipendenza e
l’imparzialità dei giudici (p. 112).
La comunità si manifesta e «...signoreggia tutti noi...» (p. 116) anche
attraverso il giudicare fatto dai giudici «...in virtù di quel patrimonio
comune...» (p. 115).
Tale nesso fra giudicare e sentire comune di tutti gli appartenenti alla
comunità che è il sostrato del giudice e del suo giudicare, quanto meno per il
giudizio di fatto, trova un suo riferimento normativo nel testo non approvato
del secondo comma dell’art. 101 Costituzione.
In esso si faceva utilizzo del sostantivo «coscienza» «..che avrebbe indicato
l’effettivo quanto irrecusabile cordone ombelicale che lega (i giudici) con la
comunità dei tutti;...» (p. 120).
La coscienza, di cui si faceva menzione nel testo costituzionale, e il giudicare
diventano il momento in cui il giudice condivide il mondo con altri (così
l’autore menzionando Arendt, p. 122, nota 23).
Questa connessione fra giudici e comunità di cui gli stessi fanno parte
rappresenta un circolo virtuoso che giustifica da un lato la giurisdizione
assegnata ai giudici e dall’altro le singole decisioni.
Il giudice nel momento in cui decide chiede innanzi tutto a sé medesimo quali
sono le ragioni che giustificano la sua decisione e solo dopo le stende su carta
(p. 129).
Ma quel che appare in momenti storici certo, potrebbe non esserlo in altri. «Scilicet»
l’unitarietà di principi sottesi agli appartenenti a una medesima comunità su
cui si radica l’unico «appartenere» del giudice è un’operazione di difficile
concretizzazione nel momento in cui in una società convivono più modelli,
nessuno dei quali gode della condivisione comunitaria e dove i giudici non sono
«sentiti» come coloro i quali «portano un sentire comune». In questo caso, che è
l’ipotesi tipica di una società come l’odierna, è difficile individuare il
sostrato comune di appartenenza alla comunità di cui fa parte lo stesso
giudicante e che giustifica la decisione del singolo caso (su questo aspetto e
sulla scarsa vicinanza della magistratura alla società civile nel modello
italiano si v.: M. R. Ferrarese, Magistratura e diritti: virtù passive e
stato attivo, in AA. VV., Interpretazione e diritto giudiziale, a
cura di M. Bessone, Torino, Giappichelli, 1999, pp. 227 - 245).