SEGNALAZIONI BIBLIOGRAFICHE

Rubrica a
cura dell'avv. Antonino Sgroi di Roma

 

 

 

A. MARANO, Avremo mai la pensione?, Roma, Feltrinelli, 2002.

 

 

Libro fuori dai consueti schemi in materia di previdenza privata ove, dopo avere soffermato l’attenzione sui punti di possibile crisi del modello “previdenza privata” fatto dal nostro legislatore, si delineano una serie di ipotesi alternative allo stesso.

Il volume è diviso in tre parti: nella prima si analizza il sistema pensionistico, nella seconda si verifica la fondatezza o meno delle questioni maggiormente dibattute sul tema e, infine, l’ultima, è dedicata alla previdenza integrativa.

Nella prima parte l’autore da un lato consente al lettore di prendere dimestichezza con la terminologia di settore, e sin da questo primo capitolo si prende atto che “In effetti il problema demografico è, forse, il più rilevante fra quelli che il sistema pensionistico italiano si trova ad affrontare” (p. 22), e dall’altro si sofferma sulle riforme del nostro sistema previdenziale intervenute dal 1992 con la cd. legge Amato.

Il primo capitolo, dopo essersi evidenziate le differenze fra un sistema di finanziamento pensionistico a ripartizione e a capitalizzazione, si chiude con l’elencazione delle differenze esistenti fra i due modelli di finanziamento nel momento di calcolo in ognuno di essi della pensione secondo il metodo contributivo.

Nel successivo capitolo lo sguardo si sofferma sulle riforme passate: “Amato” del 1992, “Dini” del 1995”, “Prodi” del 1997, sulle loro peculiarità e sull’obiettivo dalle stesse perseguito che era quello della stabilizzazione della spesa ottenuto tramite l’utilizzo dello strumento contributivo per il calcolo delle pensioni, strumento mitigato, nelle intenzioni del legislatore, con l’introduzione della previdenza integrativa (p.33).

Dopodiché si esamina il progetto di riforma in discussione (n. 2145, in www.camera.it) e si evidenziano, le linea di evoluzione del sistema previdenziale evincibili dallo stesso.

L’autore evidenzia come la “…decontribuzione avvantaggerebbe sicuramente le imprese ma avrebbe un doppio effetto (negativo) sui lavoratori e sui bilanci degli enti previdenziali…” (p. 31).

Il progetto di legge si pone in linea con gli obiettivi perseguiti nell’odierna legislatura  e che sono: “…in primo luogo la riduzione del cuneo fiscale e del costo del lavoro per le imprese; in secondo luogo il ridimensionamento del sistema previdenziale pubblico e lo sviluppo del sistema di previdenza privata.” (p. 35); “l’obiettivo (ritiene l’autore) sembra non tanto la costruzione di un sistema misto pubblico privato, nel quale la previdenza privata integri la pubblica, quanto un vero e proprio rovesciamento dei rapporti fra pubblico e privato:…” (p. 36).

Esaurita la parte introduttiva l’autore, nella successiva parte dell’opera, verifica la fondatezza o meno di una serie di questioni dibattute in ambito previdenziale e di conseguente ampliamento della tutela dei lavoratori. Nel terzo capitolo si chiede se: a) l’andamento della spesa previdenziale sia ancora un problema; b) le aliquote contributive sul lavoro dipendente siano troppo elevate; c) il sistema possa influire negativamente sui comportamenti dei lavoratori.

Con riguardo al problema monetario l’autore dimostra che, a seguito delle riforme degli anni 90, “la stabilizzazione del rapporto fra spesa pensionistica e Prodotto interno lordo è stata raggiunta e la crescita della spesa è stata negli ultimi anni addirittura inferiore a quella del Pil.” (p. 42) e che, nemmeno per il futuro, la cd. gobba della spesa previdenziale prevista per il 2030, a seguito delle riforme e sulla scorta dei dati forniti e graficamente elaborati dallo stesso Ministero del Tesoro si riduce a una crescita “..quasi impercettibile…” (p. 43).  Ma successivamente si passa a confrontare la spesa futura previdenziale dei paesi dell’Unione Europea sino al 2050 sulla scorta di un’indagine condotta dagli organi comunitari e si scopre che “…secondo queste simulazioni la spesa pensionistica italiana dovrebbe aumentare al massimo di 2,1 punti percentuali contro una media europea di 3,2 punti…” (p. 44). La successiva questione riguarda le aliquote contributive per i lavoratori dipendenti e la lamentata, da parte datoriale, loro elevatezza. Sotto il profilo metodologico l’autore chiarisce l’erroneità in termini assoluti di siffatta affermazione. Affermazione che, all’opposto, la cui fondatezza, dovrebbe essere vagliata “…solo in rapporto alla capacità (dei versamenti contributivi) di rispondere alla funzione previdenziale, ovvero alla capacità di assicurare al lavoratore un reddito adeguato quando sarà vecchio.” (p. 50).

Pertanto le aliquote contributive sarebbero elevate solo se esistessero modelli di finanziamento alternativi meno onerosi o se le prestazioni erogate non garantissero ai lavoratori in pensione un livello di vita adeguato alle loro esigenze così come prescrive il dettato costituzionale.

Con riguardo al primo aspetto, esistenza di modelli alternativi di finanziamento, l’autore evidenzia come “… la capitalizzazione non permetterebbe di ridurre drasticamente le aliquote contributive, vuoi perché i rendimenti da essa offerti, legati all’andamento dei mercati finanziari, sono molto incerti e, comunque, non necessariamente elevati, vuoi perché qualunque vantaggio sarebbe eroso dai costi di passaggio dalla ripartizione alla capitalizzazione.” (passim).

Con riguardo al secondo versante, garanzia di prestazioni adeguate, l’autore conclude che “…le aliquote contributive sui lavoratori dipendenti non appaiono alte, se l’obiettivo del sistema previdenziale pubblico è di assicurare loro il mantenimento del reddito dopo il pensionamento. Anzi a tal fine i lavoratori dovrebbero probabilmente integrare il risparmio previdenziale obbligatorio con un risparmio volontario aggiuntivo.” (pp. 50 e 51).

Nel successivo capitolo l’autore si sofferma sul “nodo gordiano” del nostro sistema previdenziale rappresentato “…dall’incapacità di tutelare il valore delle pensioni future di fronte al progressivo invecchiamento della popolazione.” (p. 57), prosaicamente si fanno meno figli e si vive più a lungo.

L’andamento demografico, secondo gli studi OCSE menzionati, potrebbe essere influenzato positivamente da tre fattori:  a) flusso migratorio di cittadini stranieri (l’Istat ipotizza in entrata un numero superiore alle 100.000 unità); b) riduzione del tasso di disoccupazione; c) aumento del tasso di partecipazione femminile al mercato del lavoro (tasso di partecipazione che, evidenzia l’autore, è il più basso d’Europa, ad esclusione della Grecia [p. 66]).

L’effetto di tale andamento demografico sul sistema previdenziale a ripartizione legato alla crescita del Prodotto interno lordo si concretizza “…per il futuro (nella erogazione di) pensioni basse e probabilmente insufficienti a garantire ai lavoratori un reddito adeguato nel periodo successivo al pensionamento.” (p. 68). Il concretizzarsi di tale prospettata eventualità può essere combattuto imboccando tre strade e cioè: a) l’aumento degli occupati rispetto al numero dei pensionati che, nel breve e medio periodo, si potrebbe ottenere solo con l’ausilio congiunto dell’introduzione nel mercato del lavoro di lavoratori stranieri e di lavoratrici e con l’abbassamento del tasso di disoccupazione; b) l’attivazione di forme di previdenza integrative; c) il “…superamento dell’attuale legame fra il rendimento offerto dal sistema a ripartizione e il tasso di crescita del Pil, in modo che il rallentamento dell’economia non si traduca automaticamente in una riduzione del rendimento del sistema pensionistico pubblico.” (pp. 68 – 70).

Su quest’ultima soluzione l’autore appunta la propria attenzione ed evidenzia come lo Stato da una posizione di amministrazione del sistema potrebbe divenire attore dello stesso e provveda a “…valutare i costi complessivi dell’invecchiamento pianificandone per tempo la

distribuzione fra le diverse generazioni e i diversi attori sociali, in modo che sia possibile evitare che alcuni si trovino a pagare un prezzo molto più alto degli altri.” (p. 73).

La terza e ultima parte dell’opera  affronta il problema della previdenza integrativa e verifica se la stessa possa assicurare prestazioni adeguate senza aggravi di spesa così come spesso si afferma.

L’autore intraprende la sua analisi evidenziando che:

a)     “..dalla matematica attuariale non si scappa: per ottenere pensioni elevate occorrono contributi elevati, a meno che la previdenza integrativa non sia in grado di assicurare rendimenti di gran lunga superiori a quelli garantiti dal sistema pubblico a ripartizione.”;

b)     “I rendimenti della prima sono legati a quelli dei mercati finanziari, mentre quelli del secondo dipendono dai tassi di crescita dell’economia (nel caso italiano la media quinquennale dei tassi di crescita del Pil).”;

c)      “La scommessa della previdenza integrativa è allora che sui mercati finanziari si possano ottenere rendimenti significativamente superiori al tasso di crescita del Pil. Su orizzonti di decine di anni. Al netto dei rischi. Al netto delle spese amministrative. Per tutta la vita dei pensionati.” (p. 83).

L’analisi deve pertanto spostarsi sui mercati finanziari, sul tasso di crescita degli stessi e conseguentemente sui rendimenti dei fondi pensione.  L’autore menziona uno studio compiuto da Jorion e Goetzman sull’andamento dei corsi azionari in vari paesi nel lasso temporale 1921 – 1996.

Il risultato di tale ricerca  è che “al netto dei dividendi, …nel 50% dei paesi esaminati il rendimento reale degli investimenti azionari è stato inferiore allo 0,8% annuo. In Italia il tasso di rendimento è stato prossimo allo zero e in 17 dei 39 paesi considerati è stato addirittura negativo.” (p. 84).

Il risultato sostanzialmente non muta se alle stime della menzionata ricerca si aggiungessero i dividendi, nel più breve lasso temporale intercorrete fra il 1970 e il 1995, “…tenendo conto dei dividendi, i rendimenti azionari aumenterebbero di 4,25 punti percentuali…” (p. 85).

Specificamente per il nostro paese “…Jorion e Goetzman stimano che fra il 1970e il 1995, malgrado i dividendi, i rendimenti azionari siano addirittura negativi (in media – 0,26% ogni anno).” (p. 85).

Alla cennata bassa redditività dei mercati finanziari corrisponde la bassa redditività dei fondi pensione; bassa redditivà che per il sistema italiano per l’anno 2001 è menzionata nella relazione del presidente della Commissione di vigilanza sui fondi pensione del 21.5.2002 (in www.covip.it).  Ma alla bassa redditività deve aggiungersi “…la rischiosità dei fondi pensione, dovuta alla variabilità e imprevedibilità dell’andamento dei mercati finanziari.” (passim).

Le menzionate variabilità e imprevedibilità portano con sé sotto il profilo previdenziale da un lato, in via fisiologica, il continuo variare delle prestazioni erogate e dall’altro, in via patologica, il possibile crollo del fondo pensionistico, o in caso di crisi generalizzata dei mercati finanziari il collassamento di tutto il sistema della previdenza privata.

Elementi che “…negli Stati Uniti (hanno condotto) dal 1974 all’introduzione di un’assicurazione obbligatoria per i fondi. All’inizio si pensava che un contributo di 1 dollaro annuo a lavoratore sarebbe stato sufficiente, ma tale previsione si è rivelata incredibilmente ottimista e il premio ha dovuto essere elevato a 19 dollari, che diventano 72 per i fondi in condizioni più problematiche.” (p. 88).

Per il sistema italiano il presidente della C.O.V.I.P., nella menzionata relazione, pone “Sia pure a futura memoria, la problematica che discende dal fatto che la normativa attuale prevede che alle prestazioni da erogarsi sotto forma di rendite si provveda mediante convenzioni con imprese assicurative…si reputa necessario, in termini generali, che anche la fase finale del percorso di attuazione dei programmi pensionistici complementare sia assistita da un complesso sistema di garanzie, che li renda il più possibile impermeabili a vicende particolari che possano riguardare le singole imprese di assicurazione.” Ma i rendimenti dei fondi pensioni non sono solo influenzati dai mercati finanziari ma anche dai costi di gestione e dalle spese amministrative che sono calcolati sul capitale investito e che portano con sé un’ulteriore decurtazione della rendita finanziaria.

Esaminati gli aspetti di investimento delle risorse che si pongono a monte del sistema di previdenza privato, l’autore passa a esaminare il momento dell’erogazione della rendita d parte del fondo. Egli evidenzia come la conversione del capitale accumulato in rendita dipenda da “…due fattori: la speranza di vita al momento del pensionamento e il tasso d’interesse nominale sulle obbligazioni.” (p. 93) e come con l’andare degli anni, non essendo le pensioni generalmente indicizzate, il loro potere di acquisto reale si riduca progressivamente.

Dagli aspetti finanziari l’esame si sposta poi all’individuazione dei soggetti che usufruiscono della previdenza privata e “..l’esperienza di paesi dove i sistema di previdenza integrativa è già sviluppato mostra che la copertura dei fondi pensionistici integrativi è tutt’altro che totale…per il futuro (è previsto che) negli Stati Uniti solo il 48% dei lavoratori dell’industria privata risultava aderire nel 1999 a un fondo integrativo, mentre nel Regno Unito i fondi pensione coprono appena il 45% della popolazione in età lavorativa.” (p. 95).

Tale limite è bene presente anche nella relazione, per l’anno 2001, del Prof. Francario, presidente della COVIP che constata come “… a fruire oggi e forse anche domani, a condizioni invariate, dei benefici della previdenza complementare sono i settori più organizzati e meglio garantiti del mondo del lavoro…(situazione che per i settori meno garantiti lo stesso menziona i lavoratori precari e atipici) crea un pregiudizio per le future posizioni previdenziali dei lavoratori che non risulterà recuperabile e che, in alcuni casi, rischia di produrre nuove povertà.”   Il Nostro però si spinge oltre nella sua disamina e immagina, nel capitolo settimo, che il rendimento dei fondi privati sia in ogni caso superiore al rendimento del vecchio sistema collegato al Pil.

Egli compie tale operazione al fine di dimostrare un ulteriore  assunto connesso al passaggio dalla ripartizione alla capitalizzazione e all’individuazione delle risorse necessarie per il decollo del nuovo modello previdenziale nella prima fase di attuazione e che si sarebbe potute utilizzare diversamente.

Le strade individuate dall’autore e fra loro diversamente modulabili sono tre.

“Innanzitutto, si possono ridurre i finanziamenti necessari alla ripartizione tagliando le pensioni correnti. Altrimenti, si possono continuare a utilizzare i contributi per finanziare le prestazioni pensionistiche, riducendo però progressivamente le promesse di pagamenti futuri del sistema pubblico e costringendo quindi lavoratori e imprese a pagare contributi aggiuntivi al sistema a capitalizzazione; in questo caso coloro che sono coinvolti nella transizione si troverebbero, in qualche modo, a <<pagare doppio>>. Infine, può essere lo stato a pagare, ponendo parte della spesa pensionistica a carico della fiscalità generale e girando parte dei contributi alla capitalizzazione, oppure rendendo particolarmente attraenti i "doppi contributi" dei lavoratori attraverso incentivi e sgravi fiscali;…” (p. 101). La soluzione adottata dal sistema italiano è rappresentata dalla destinazione del trattamento di fine rapporto, che rappresenta una parte del salario dei lavoratori, alla costituzione delle risorse necessarie per il decollo del modello previdenziale privato con la conseguenza che “…il passaggio alla previdenza integrativa si traduce di fatto nell’aumento dei contributi previdenziali.” (p. 111). Acclarato che il decollo del modello italiano della previdenza privata passa attraverso l’aumento della contribuzione, l’autore si chiede se è possibile individuare modelli di capitalizzazione alternativi alla previdenza privata e interni ai sistemi pubblici, in questa sede si sofferma  sulle soluzioni prospettate e dibattute in sede accademica. Innanzitutto la proposta di Modigliani e Ceprini, del Mit, che “…pensano di coinvolgere nella distribuzione dei costi della transizione parecchie generazioni di lavoratori. Ciascuna pagherebbe contributivi aggiuntivi (5 punti di Tfr) ma continuerebbe a ricevere la stessa pensione, pagata però in proporzione decrescente dal sistema a ripartizione e in misura crescente dal sistema a capitalizzazione, fino a che, alla conclusione della transizione, il sistema risulterebbe interamente capitalizzato r i contributi verrebbero ridotti.“ (p. 113).

La seconda ipotesi solutoria alternativa “…prevede di introdurre la capitalizzazione nel sistema pubblico solo come misura congiunturale atta a fronteggiare l’attuale negativa dinamica demografica… (E) una soluzione del genere rientra fra quelle attivamente sponsorizzate dalla Commissione europea e trova già (o sta per trovare) applicazione in Irlanda, Portogallo, Francia e Spagna.” (pp. 113 – 114).

L’ultima della soluzione alternative, che trova l’esplicita adesione dell’autore in quanto si pone in linea con il suo auspicio di mutamento del ruolo dello Stato da mero amministratore ad attore che “…potrebbe utilizzare gli strumenti offerti dalla politica fiscale e dalla flessibilità del bilancio pubblico per distribuire nel tempo e fra più generazioni i costi della crsisi demografica” (p. 115), prevede da parte delll’operatore pubblico la possibilità di “…impiegare le riserve direttamente per sottoscrivere titoli pubblici, come avviene in Olanda o negli Stati Uniti,…, che dovrebbe accumulare riserve fino al 2020 per poi iniziare a utilizzare il capitale accumulato per finanziare parte delle pensioni della generazione del baby-boom, finendo per esaurirsi attorno al 2035.” (p. 114).

La ricostruzione alternativa del sistema di finanziamento della previdenza passa anche attraverso la dimostrazione, fatta nel capitolo 9, della infondatezza delle asserzioni in punto decollo della previdenza privata e conseguente crescita dell’economia e del risparmio.

L’autore puntualmente dimostra come non vi è alcun nesso causale necessitato fra sviluppo della previdenza privata e sistema economico e risparmio. Infine l’ultimo capitolo è dedicato all’analisi di tutte quelle motivazioni politico, sociali ed economiche sottese alla scelta della previdenza privata e al ricordo di un caso emblematico in materia costituito dal Cile.

In questo Stato ricorda l’autore la riforma pensionistica “realizzata dal regime di Pinochet nel 1981 (che) ha visto la completa liquidazione del precedente sistema a ripartizione e l’attivazione di un sistema previdenziale interamente basato su fondi pensione del tutto simili a quelli "aperti" italiani, con una ridottissima pensione sociale a tutela dei vecchi senza altro reddito. Per tutti, naturalmente, ma non per i militari, che hanno conservato le precedenti modalità di calcolo delle pensioni, che continuano a essere generose e completamente finanziate dallo stato.” (p. 126). In realtà nel sistema pubblico italiano le anomalie sono a monte e sono da ricollegare a posizioni di privilegio di determinate categorie sottratte alla disciplina generale in materia e alla gestione degli enti previdenziali e disciplinate da normative di settore sconosciute stante la loro presunta riservatezza - il tutto malgrado si tratti di forme previdenziali pubbliche a ripartizione -.

Posizioni di ingiustificata differenziazione che non verrebbero meno con l’introduzione della previdenza privata, che si limiterebbe ancora una volta a confermare la propria natura di forme di tutela dei soli lavoratori a reddito più elevato.

 

 

  

 

 

 

 

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