Insolvenza
dell'imprenditore, market failure e valore di impresa,
normativa delle procedure concorsuali (*)
di Mario Bessone
Professore Ordinario di
Istituzioni di diritto civile nella
Facoltà di Giurisprudenza nell’Università di Roma“La Sapienza”.
1. Le
situazioni di crisi finanziaria, l’ insolvenza di imprese e società
commerciali. Market failure e regole dell’intervento normativo. Il
modello nord-americano del Bankruptcy Act .
Situazioni di crisi dell’impresa e stato di insolvenza di imprese e società
commerciali sono eventi del massimo rilievo e della maggior gravità. Insieme con
la soggettiva posizione dell’imprenditore individuale o dell’imprenditore
"società" sono a rischio (e per grande parte già in caduta) il valore sociale
dell’impresa, le garanzie di tutela dei prestatori di lavoro e della massa dei
creditori non essendo escluso che la singola situazione di crisi diventi crisi
estesa ad altre imprese , e perciò fattore sistemico che porta con sé
instabilità di un intero settore di industria. Da ciò la motivata
insistenza per una disciplina della materia fallimentare davvero capace di
distinguere tra situazioni di temporaneo deficit di liquidità e lo
stato di insolvenza di imprese e società commerciali che invece prefigura
crisi aziendali senza ritorno dovendosi apprestare discipline diversificate a
seconda delle particolarità della singola fattispecie.
Occorrono comunque norme di diritto sostanziale e disposizioni di procedura che
pervengano ad un giusto punto di equilibrio quanto a tutela degli interessi che
ne sono coinvolti, così da regolare la singola fattispecie nel modo che
occorre per conservare e non distruggere "il valore dell’impresa" (e per
attivare le dovute difese del lavoro di impresa), contestualmente
assicurandosi alla massa dei creditori sia una corretta valutazione
delle "priorità" creditorie sia una "soddisfazione" patrimoniale che per
quanto possibile sia la più elevata .
Sarà allora
chiaro in qual misura si rende necessaria una politica legislativa da
praticare con il metodo dell’analisi economica del diritto .E perciò una
politica legislativa che guardi alla crisi dell’impresa , ai fenomeni di
insolvenza e al conseguente fallimento come ad un caso di market failure
da valutare in termini di costi e benefici delle immaginabili normative.
In presenza di così rilevanti problemi di amministrazione delle crisi di
impresa ovvero di Turn – around come oggi si usa dire , gli
ordinamenti di altri paesi (la Gran Bretagna, la Francia, la Germania ma non
loro soltanto) si segnalano per una successione di interventi normativi e
riforme di sistema poi spesso e più volte integrate da ulteriori regolazioni
mentre invece il caso italiano si segnala in negativo per una sua perversa
particolarità. Nel modo che si preciserà operano disposizioni che per la grande
parte risalgono agli anni Quaranta e invariabilmente privilegiano policies
assolutamente lontane da quanto occorre. E ormai da lungo tempo in tormentata
elaborazione, le progettate rifondazioni del sistema normativo a dicembre del
2003 continuano ad essere riforma del diritto fallimentare rinviata ad un
imprecisato futuro per la compresenza di ipotesi, disegni di legge e proposte
di intervento (talvolta in radicale contrasto tra loro) che sembrano non poter
trovare l’ indispensabile conciliazione sul piano della sintesi politica.
Esistono tuttavia indicazioni di principio che sono ampiamente condivise dagli
studiosi di ingegneria istituzionale più impegnati nella definizione delle
basic rules che sono contenuto obbligato di una razionale disciplina della
materia. Ne risulta con ogni evidenza la stringente necessità di normative
finalmente intese a contenere i tempi delle procedure da avviare in caso di
crisi da insolvenza dell’impresa .Tempi del fallimento e delle altre procedure
concorsuali oggi intollerabilmente lunghi con esiti davvero disastrosi ,
perché disposizioni di legge dove si privilegia una tempistica del lungo
periodo rendono irreversibili situazioni di crisi di impresa che le procedure
di breve periodo variamente attivate in altri ordinamenti spesso consentono
invece di "sanare". E allo stesso modo è stringente la necessità di
disposizioni che contengano entro ragionevoli limiti la "giurisdizionalizzazione"
delle procedure fallimentari.
Se è vero che un
controllo di legalità necessariamente consegnato al giudice è parte obbligata
della vicenda sarà infatti chiaro che consegnare alla direzione del giudice lo
svolgimento dell’intera serie delle procedure e ogni loro singola fase (anche
nel caso italiano) inevitabilmente significa spazio aperto ad una logica di
intervento diversa da ciò che serve ,perché una cosa sono le competenze della
giurisdizione e altra cosa le funzioni di gestione aziendale da attivarsi con
finalità di salvaguardia del valore di impresa (e tutti gli altri interessi
individuali e collettivi che non sarà il caso di ripetere). In punto di gestione
dell’impresa e del suo stato di crisi (ma a veder bene ancor prima in
prevenzione di market failures e di formali dichiarazioni di insolvenza)
una evoluta disciplina di materia deve per contro assicurare ampio spazio ai
poteri negoziali di autonomia privata e ai correlati strumenti di genere
stragiudiziale.
"Grande ruolo alla autonomia privata nella soluzione" dei problemi "di crisi
dell’impresa" domandano in modo particolare quanti rilevano che i privati
coinvolti in una vicenda di imminente o già attuale insolvenza sono
indiscutibilmente i soggetti nella posizione migliore sia per le valutazioni
di amministrazione del rischio e dei costi che inevitabilmente ne derivano sia
per la configurazione del possibile "piano di risanamento" dell’impresa. E
anche quando non esistano alternative alla procedura di genere contenzioso si
domandano modalità di intervento che se naturalmente devono sanzionare
comportamenti devianti allo stesso modo (e ancor prima) devono assegnare
carattere primario alla "salvaguardia" del "valore sociale dell’impresa"
commisurando a questa finalità gli stessi apparati di genere punitivo ,essendo
in questo senso certamente necessario ripensare gli orientamenti di politica
del diritto del legislatore degli anni Quaranta pericolosamente incline ad un
impiego per eccesso di normative penalistiche.
Come già si è avvertito è
in ogni caso attesa e ormai urgente una organica riforma dell’intera disciplina
delle insolvenze di impresa. In presenza di più evolute normative del diritto
europeo che privilegiano policies assai diverse tra loro ( talvolta
esposte al rischio di determinare "liquidazioni" di imprese ancora
"risanabili" per un eccesso di tutela dei creditori, e altra volta invece al
contrario esposte al rischio di favorire una "conservazione" di imprese non più
capaci di una gestione utile ma ) pur sempre orientate nella giusta direzione,
gli specialisti di materia indicano con chiarezza in qual direzione orientare
una razionale politica del diritto che anche nel caso italiano consenta di
affrontare in modo adeguato problemi davvero della maggior incidenza . E le
insufficienze della normativa in vigore sono cosa che da più parti così come
in sedi istituzionali assai accreditate si è ormai infinite volte segnalata
quale "passività sociale" del "sistema paese" rilevante anche alla scala
macroeconomica.
E anche a non considerare (come invece si deve) i costi delle procedure e la
loro durata che è anch’essa pesante fattore di costo, si è infinite volte
avvertito che le normative in vigore comunque non consentono di
identificare un accettabile punto di equilibrio tra difesa dei valori di
impresa e tutela dei creditori . Guardando allo scenario internazionale in
questo senso gli esperti di materia spesso indicano come modello di razionale
policy il Bankruptcy Act nord-americano del 1978 che ha
provatamente agevolato una razionale e più efficiente amministrazione delle
crisi di impresa .Stabilito che in linea di principio occorre assicurare tutela
all’"interesse dei creditori" al tempo stesso le norme del Bankruptcy Act
infatti utilmente distinguono tra procedure di liquidazione e procedure di
"riorganizzazione" dell’impresa, privilegiando le opportune modalità di
reorganization quando esista modo di attivarne una new financial
structure in funzione di un possibile e naturalmente desiderabile "rilancio"
dell’iniziativa imprenditoriale.
Da ciò una politica legislativa che realisticamente guarda alla crisi di
insolvenza dell’impresa come ad un caso di market failure da valutare in
termini di costi e benefici delle possibili normative.
Quanto poi
alla preferenza per procedure di reorganization (da congegnare sul
modello nord americano del Bankruptcy Act) non sarà necessario
aggiungere ulteriori considerazioni, essendo di immediata evidenza che in punto
di law and economics l’impresa è un valore sempre maggiore del valore
dei singoli bene che ne sono parte, di modo che (se talvolta sono obbligate per
l’assenza di alternative praticabili) le misure diverse dal "risanamento" e
dalla "riorganizzazione" dell’impresa in funzione di un suo "rilancio"
imprenditoriale inevitabilmente portano con sé una grave perdita di valore. In
tempi di crescente espansione delle attività di impresa alla scala
sovranazionale particolare attenzione si deve poi riservare ai fenomeni di crisi
da insolvenza dell’impresa che possano manifestarsi appunto in quel più ampio
ambito.
E sia pure in via breve al riguardo va segnalata la integrazione di regime delle
procedure concorsuali operata in conformità delle indicazioni del
"progetto"di "convenzione europea" sul fallimento "internazionale". Per forza
del regolamento comunitario del maggio 2000 questa integrazione di regime si è
compiuta mediante disposizioni che in vigore dal maggio 2002 rimuovono numerosi
fattori di incertezza del diritto e di possibili violazioni del principio di
parità di trattamento dei creditori. In punto di armonizzazione degli
ordinamenti nazionali si deve distinguere tra procedura per così dire
"principale" assegnata in competenza al giudice "dello Stato nel cui territorio
è situato il centro dei principali interessi del soggetto debitore" e procedura
invece secondaria, che con riguardo al luogo dove si eserciti in modo non
transitorio consente l’iniziativa del giudice di altro Stato membro sia pure
con effetti limitati ai beni del debitore situati nel territorio di "sede
secondaria".
Al riguardo si legga quanto le indicate disposizioni stabiliscono in tema di
poteri del curatore fallimentare "legittimato" all’esercizio delle
"prerogative" attribuite "dalla legge del paese di origine" e poi in tema di
iscrizione al passivo dei creditori "indipendentemente" dal luogo di loro
residenza (..... ). Nelle prospettive di analisi che in via di prima
approssimazione si sono delineate molto altro si dovrebbe aggiungere ma non in
queste pagine , che semplicemente riferiscono le grandi linee della
disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali di ambito
nazionale operanti nel caso italiano (e anch’esse saranno riferite soltanto
nella misura strettamente necessaria per una prima ricognizione dei materiali
normativi che sono struttura portante del sistema).
2. Stato di
insolvenza e par condicio dei creditori dell’impresa. La dichiarazione di
fallimento e gli organi della procedura. Liquidazione dell’attivo e chiusura del
fallimento. Il caso del concordato fallimentare.
L’imprenditore si trova in stato di insolvenza quando non è più in grado di soddisfare regolarmente le proprie obbligazioni. Il loro inadempimento ne è un possibile segnale ma stato di insolvenza esiste anche se alle obbligazioni assunte si provvede con anomale modalità che tendono a dissimulare il dissesto dell’impresa. E se si tratta di una impresa commerciale che non sia piccolo imprenditore né ente pubblico con finalità di tutela dei suoi creditori opera la disciplina del fallimento e delle altre procedure concorsuali stabilita con le norme del r.d. 16 marzo 1942 n. 267 che si segnalano poi anche per la configurazione di tutta una serie di fattispecie di reato Nelle intenzioni del legislatore policy principale della normativa è garantire il soddisfacimento dei creditori dell’impresa secondo principio di parità di trattamento. Come si legge all’art. 52 della legge fallimentare la dichiarazione di fallimento «apre il concorso dei creditori sul patrimonio del fallito». I creditori diventano creditori concorsuali e non sono più consentite azioni esecutive individuali al loro soddisfacimento dovendosi provvedere mediante la procedura che si avvia con la dichiarazione di fallimento.
Dichiarazione pronunciata
dal tribunale del luogo dove è la sede principale dell’impresa su ricorso di uno
o più creditori o su richiesta dello stesso imprenditore o su istanza del
pubblico ministero non essendo escluso il caso che il tribunale dichiari
d’ufficio il fallimento dell’imprenditore. La cessazione dell’attività di
impresa e la stessa morte dell’imprenditore non escludono che entro un anno ne
segua la dichiarazione di fallimento (ma si leggano gli artt. 10 e 11 della
legge fallimentare). Va poi considerato che se falliscono società commerciali in
conseguenza del fallimento della società per disposizione del primo comma
dell’art. 147 falliscono anche i suoi soci a responsabilità illimitata. E
falliscono anche i soci occulti di società palese.
Opera il coordinamento delle procedure concorsuali stabilito dall’art. 148
mentre per disposizione dell’art. 149 «il fallimento di uno o più soci
illimitatamente responsabili non produce il fallimento della società». Negli
artt. 18 a 22 si leggono le norme di regime delle opposizioni e della possibile
revoca della sentenza dichiarativa del fallimento. Possono fare opposizione alla
dichiarazione di fallimento il fallito e qualsiasi interessato formulando la
loro "proposta" davanti al tribunale che ha dichiarato il fallimento,così
instaurandosi un giudizio di cognizione con tutte le dovute garanzie di
contraddittorio e si consideri che se il passaggio in giudicato della
sentenza di accoglimento della opposizione comporta revoca della
dichiarazione di fallimento restano pur sempre "salvi" gli effetti
espressamente indicati dall’art. 21.
Con riguardo alla disciplina di procedimento l’art. 16 della legge stabilisce
che la sentenza dichiarativa di fallimento sarà «pronunciata in camera di
consiglio», a seguito di una attività istruttoria di genere sommario.
L’imprenditore andrà sentito ma vale il principio inquisitorio che al
tribunale consente di svolgere senza contradddittorio tutte le indagini ritenute
utili. Se dichiara il fallimento con la sua sentenza il tribunale ordina al
fallito il deposito di bilancio e scritture contabili dell’impresa e nomina un
giudice delegato che «dirige» le operazioni del fallimento, svolge funzioni
indicate dall’art. 25 e comunque «vigila l’opera del curatore». E il
curatore del fallimento è la persona che in osservanza delle disposizioni
dell’art. 28 la sentenza nomina con l’incarico di curare «l’amministrazione del
patrimonio fallimentare sotto la direzione del giudice delegato».
La norma dell’art. 25
della legge fallimentare è disposizione da leggere con la maggior attenzione.
Ne risulta infatti con ogni evidenza tutto il rilievo dell’ufficio del giudice
delegato che svolgendo le sue funzioni istituzionali riferirà al tribunale su
ogni affare che richieda un provvedimento del collegio, nominerà il comitato
dei creditori secondo la disposizione dell’ art. 40 attivandosi per la sua
convocazione ai sensi del primo comma dell’art. 25, assumerà o "provocherà dalle
competenti autorità" i provvedimenti "urgenti" per la conservazione del
patrimonio, a suo tempo procederà alla formazione dello stato passivo del
fallimento (e con suo decreto lo renderà "esecutivo"), disporrà infine la
vendita dei beni mobili con le modalità previste dall’art. 106 allo stesso modo
provvedendo alla vendita degli immobili in osservanza della disciplina dell’art.
108.
Quanto al curatore del fallimento si tratta dell’organo ( e della persona che
essendo pubblico ufficiale nel senso precisato dall’art. 30) è titolare dei
poteri indicati dall’art. 31 che come già si sa lo indica come preposto alla
amministrazione del patrimonio fallimentare sotto la direzione del giudice
delegato. Gli artt. 42 e 46 avvertono infatti che «dalla sua data» la sentenza
dichiarativa di fallimento «priva» il fallito «dell’amministrazione e della
disponibilità dei suo beni» diversi da quelli di natura strettamente personale.
Pur sempre proprietario ma spossessato dei beni assoggettati al fallimento,
l’imprenditore dichiarato fallito perciò non è più legittimato ad atti di
disposizione che se compiuti «sono inefficaci rispetto ai creditori». Si forma
quindi un «patrimonio separato» che sarà comprensivo di beni, crediti ed altre
voci patrimonialmente attive così come della massa dei debiti dell’impresa.
Sarà compito del curatore amministrare questo patrimonio svolgendo una serie
complessa di operazioni,in ogni caso essendo stabilito (all’art. 33 della legge
fallimentare ) che "entro un mese dalla dichiarazione di fallimento" il curatore
deve presentare al giudice delegato una particolareggiata relazione in ordine
alle cause e alle circostanze del fallimento così come con riguardo alle altre
vicende segnalate dal primo comma della norma. Allo stesso modo il curatore
dovrà indicare gli atti posti in essere dal fallito che intenda impugnare
svolgendo poi i compiti che ne caratterizzano la rilevante funzione (e si
leggano i primo comma dell’art. 25 così come il secondo comma dell’art.31 della
legge fallimentare). In casi di eccezione non è esclusa una continuazione
della attività di impresa secondo le disposizioni dell’art. 90 perché il
tribunale può disporre una temporanea continuazione dell’esercizio
dell’impresa qualora da una "interruzione improvvisa" possa derivare un danno
grave e "irreparabile". Le attribuzioni del curatore sono efficacemente
esemplificate dalle norme della legge fallimentare che disciplinano i rapporti
contrattuali pendenti dovendosi distinguere tra contratti risolti di diritto
(e per esempio i contratti di associazione in partecipazione o i contratti di
appalto), contratti che nell’interesse dei creditori del fallito rimangono in
essere con subingresso ex lege del curatore (e per esempio contratti
di assicurazione o contratti di locazione immobiliare) e infine contratti a
efficacia sospesa, dovendo appunto essere il curatore (ma con autorizzazione del
giudice delegato) a stabilire se proseguire il rapporto negoziale o procurarne
lo sciolglimento (e si pensi al caso dei contratti di somministrazione).
Come si sa, massimamente
rileva il regime degli atti di disposizione e pregiudizievoli ai creditori
che l’imprenditore già in stato di insolvenza possa aver messo in essere
alterando la integrità del suo patrimonio. All’esercizio della azione
revocatoria ordinaria si riferisce l’art. 66 della legge dove si legge che il
curatore può domandare (al tribunale fallimentare) la dichiarazione di
inefficacia degli atti compiuti in pregiudizio dei creditori secondo la
disciplina delle norme del codice civile. Ma ancor più giova il regime
della azione revocatoria fallimentare degli artt. 64, 65 e 67 che di molto
agevola il compito del curatore .Opera una normativa complessa che qui è
possibile soltanto segnalare per i necessari approfondimenti.
Per l’intera serie degli atti compiuti dall’imprenditore in stato di insolvenza
vale una presunzione di pregiudizio dei creditori già quanto all’essere
configgenti con il principio della loro par condicio .E al curatore non
occorre provare eventus damni né consilium fraudis. Necessari
presupposti dell’azione sono (soltanto) lo stato di insolvenza
dell’imprenditore e la conoscenza dello stato di insolvenza da parte del terzo.
E al riguardo operano presunzioni che favoriscono l’esercizio dell’azione con
la conseguente dichiarazione di inefficacia dell’atto. Presunzione dell’essere
stato compiuto in stato di insolvenza per l’atto che risalga ad un certo
periodo (uno o due anni a seconda dei casi) anteriore alla dichiarazione di
fallimento. E con riguardo ad atti assolutamente sintomatici di uno stato di
insolvenza la presunzione (relativa) di conoscenza dello stato di insolvenza
dell’imprenditore che il terzo dovrà vincere provando che ignorava lo stato di
crisi dell’impresa.
A tutto questo si aggiunga il disposto delle norme che segnalano atti da
considerarsi in radice privi di effetti nei confronti dei creditori così da
configurare una revocatoria di diritto che si riscontra nel caso degli
atti a titolio gratuito posti in essere nei due anni anteriori alla
dichiarazione di fallimento (ma si legga anche quanto l’art. 65 della legge
dispone in tema di atti di pagamento. Quando invece la revocatoria sia
giudiziale occorre distinguere tra gli atti anormali di gestione del primo
comma dell’art. 67 della legge operando allora la presunzione di conoscenza che
il terzo deve rimuovere (come si sa provando di aver ignorato lo stato di
insolvenza dell’imprenditore) e atti di norma le gestione in tal caso garando
sul curatore fallimentare l’onere di prova del secondo comma dell’art. 67.Quanto
al rapporto tra fallito e coniuge opera la rigorosa disciplina dell’art. 69 (e
l’art. 70 regola la materia degli acquisti compiuti dal coniuge del fallito).
Svolge un ruolo utile anche il comitato dei creditori prefigurato dalla norma
dell’art. 40 che ha le competenze consultive (ma anche i poteri ispettivi) che
si indicano all’art. 41 della legge fallimentare. Le operazioni di gestione
della procedura troveranno infine un punto di sintesi nell’accertamento del
passivo e nella liquidazione dell’attivo. All’accertamento dello stato passivo
che quantifica la entità dei crediti da soddisfare si perviene mediante le fasi
della presentazione delle domande di ammissione al passivo fallimentare secondo
le regole degli artt. 92 e ss., della verifica delle posizioni creditorie
disposta dall’art. 96 e della finale dichiarazione di esecutività dello «stato
passivo» operata dal giudice delegato con il decreto richiesto dall’art. 97.
Avverso lo stato passivo così determinato possono darsi le opposizioni
dall’art. 98 consentite a creditori esclusi o ammessi con riserva . E possono
darsi le impugnazioni proposte da creditori invece ammessi che ai sensi
dell’art. 100 domandano la esclusione di crediti altrui dalla massa passiva.
Opposizioni e impugnazioni proposte con ricorso al giudice delegato e deiderà
il tribunale fallimentare con sua sentenza.
Alla liquidazione dell’attivo si provvede (provvederà il curatore) mediante la
vendita dei beni del fallito applicando norme della legge fallimentare
che comprensibilmente tendono ad agevolare il conseguimento del maggior
risultato utile. Ancora una volta si opera sotto la direzione del giudice
delegato e "sentito il comitato dei creditori " come previsto dal primo comma
dell’art. 104 .
Dalla liquidazione dell’attivo si ricava quanto sarà poi diviso tra i creditori
secondo l’ordine delle cause di prelazione e in osservanza delle regole di
ripartizione stabilite dagli artt. 110 a 117 in ragione delle diverse tipologie
di crediti e creditori. Si dovrà in primo luogo provvedere al pagamento delle
spese operate per l’amministrazione del fallimento secondo la disposizione
dell’art. 111. Seguirà il pagamento dei crediti ammessi con prelazione. Seguirà
infine il pagamento dei crediti chirografari «in proporzione
dell’ammontare del credito per cui ciascuno di essi fu ammesso».
Esaurita la fase di liquidazione dell’attivo per norma dell’art. 116 occorre
che il giudice delegato approvi il rendiconto di gestione predisposto dal
curatore fallimentare. Avrà allora corso la chiusura del fallimento dichiarata
dal tribunale secondo il regime dell’art. 118 con un suo decreto ai sensi
dell’art. 119 della legge, he se comporta cessazione dei suoi effetti sul
patrimonio del fallito al tempo stesso restituisce ai creditori «il libero
esercizio delle azioni» per «la parte non soddisfatta dei loro crediti» (ma va
considerato che nei casi e nei modi indicati dall’art. 121 possono darsi
procedure di riapertura del fallimento sempre che non siano decorsi cinque anni
dal decreto di sua chiusura, e sempre che "nel patrimonio del fallito" si
reperiscano "attività" in misura tale da rendere utile il provvedimento o
quando "il fallito offre garanzia di pagare almeno il dieci per cento ai
creditori vecchi e nuovi").
3.
Il concordato fallimentare e le altre procedure concorsuali. Concordato
preventivo, amministrazione controllata, liquidazione coatta amministrativa.
L’amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Diritto penale
dell’impresa.
Il
concordato fallimentare dell’art. 124 è una particolare modalità di
chiusura del fallimento che si verifica quando per accordo con i creditori
l’imprenditore fallito provvede al pagamento integrale dei creditori
privilegiati e in una certa misura al pagamento dei creditori chirografari in
questo modo conseguendo la liberazione dei beni assoggettati alla procedura
fallimentare. Quali per l’imprenditore fallito sono i benefici del concordato
fallimentare sarà chiaro se si considera che per suo tramite il fallito
consegue definitiva liberazione dai debiti eccedenti quanto si è per l’appunto
concordato, al tempo stesso essendo più agevole pervenire alla riabilitazione
prevista dall’art. 143 (e comunque allontanato il pericolo delle sanzioni
penali correlate al fallimento).
Regolata dagli artt. 124 a 159 della legge fallimentare, la vicenda configura
una complessa fattispecie a formazione progressiva che comporta una proposta dal
fallito presentatata con la domanda al giudice delegato prevista dal primo comma
dell’art. 124 , la sua approvazione da parte della maggioranza dei creditori
aventi diritto al voto e un provvedimento di omologazione del tribunale
fallimentare che si pronuncia con sentenza ai sensi dell’art. 130 ad esito del
giudizio di omologazione a svolgersi secondo il regime stabilito dall’art. 129.
Per la approvazione della proposta l’art. 128 della legge avverte che occorre
voto favorevole di una «maggioranza numerica dei creditori aventi diritto al
voto» che al tempo stesso «rappresenti almeno i due terzi della somma dei loro
crediti».
In sede di omologazione il tribunale «accerta l’osservanza delle prescrizioni di
legge» per la ammissione e la validità del concordato fallimentare, esamina «il
merito delle proposte» valutando anche «la serietà delle garanzie offerte» e
decide su tutte le possibili opposizioni "omologando o respingendo il
concordato". Se ne esistono i presupposti la sentenza che omologa il
concordato stabilisce le modalità di pagamento delle somme dovute provvedendo a
quant’altro dispone l’art. 130 ma non è tuttavia esclusa la eventualità di
una rimessione al giudice delegato ai sensi del secondo comma della norma . In
ogni caso si dovrà dar corso alla liquidazione dei beni e al pagamento dei
creditori essendo poi da tener presente anche il possibile intervento di un
terzo assuntore del concordato secondo la previsione del secondo comma
dell’art. 124.
Va poi considerata la eventualità di una risoluzione del concordato per
inadempimento nei casi indicati dall’art. 137 essendo compito del curatore
riferirne al tribunale che a seguito dei dovuti accertamenti con sentenza
emessa in camera di consiglio provvederà a dichiarare risoluzione del
concordato e riapertura del fallimento .E va considerata la eventualità di un
annullamento del concordato nei casi indicati dall’art. 138 che riguardano sia
una dolosa esagerazione del passivo sia la sottrazione o la dissimulazione di
una parte "rilevante" dell’attivo. Anche la sentenza che annulla il concordato
fallimentare naturalmente "riapre la procedura del fallimento"ed è
"provvisoriamente esecutiva". Tutt’altra vicenda è regolata dalle norme degli
artt. 160 a 186 che disciplinano il concordato preventivo in quanto
procedura concorsuale di diverso genere che opera in funzione per così dire
"sostitutiva" del fallimento.
Procedura "sostitutiva" e più precisamente intesa ad evitare il fallimento
qualora un imprenditore che pure versa in stato di insolvenza raggiunga in via
giudiziale un accordo con la massa dei creditori. Per disposizione dell’art.
160 la procedura di concordato preventivo è praticabile (soltanto) quando ne
ricorrano i presupposti che sarà bene richiamare. Alla procedura l’imprenditore
sarà ammesso soltanto se "iscritto nel registro delle imprese" ha tenuto
regolare contabilità , e se
«nei
cinque anni precedenti»
non è stato dichiarato fallito o non è stato ammesso ad una procedur di
concordato preventivo, ancora il primo comma dell’art. 160 indicando come
requisito dimeritevolezza che l’imprenditore non risulti condannato per
bancarotta, delitti contro il patrimonio o altra delle fattispecie penalmente
rilevanti che la norma enumera.
Quanto poi ad oggetto e contenuti della proposta formulata dall’imprenditore
(che per disposizione dell’art 162 il tribunale dovrà verificare in punto di
sua ammissibilità) si devono considerare le condizioni inderogabilmente
stabilite dal secondo comma dell’art. 160 . Si tratterà di concordato con
garanzia se l’imprenditore offre entro i previsti termini di tempo serie
garanzie
«reali
o personali»
di pagamento della totalità dei crediti privilegiati e di una percentuale dei
crediti chirografari non inferiore al quaranta per cento. Si tratterà di
concordato con cessione se per conseguire quel risultato di "pagamento dei suoi
debiti" l’imprenditore ai creditori offre tutti beni esistenti nel suo
patrimonio alla data della proposta di concordato, sempre che la valutazione di
tali beni consenta di
«fondatamente»
ritenere che i creditori possano essere "soddisfatti" almeno nella misura
indicata dal primo comma dell’art. 160.
Se esistono le condizioni e i requisiti di contenuto dell’accordo così
indicati, e se per l’imprenditore contestualmente esistono i presupposti di
meritevolezza del beneficio pretesi dal primo comma della norma , il tribunale
che in caso contrario dichiara di ufficio il fallimento ai sensi del secondo
comma dell’art. 162 provvederà a dichiarare aperta la procedura di concordato
preventivo nominando come organi della procedura un giudice delegato e un
commissario giudiziale. Per disposizione dell’art. 167 l’imprenditore
conserva l’amministrazione dei suoi beni e continuerà l’esercizio dell’impresa
sia pure "sotto la vigilanza del commissario giudiziale e la direzione del
giudice delegato". E gli organi della procedura provvederanno a quanto occorra
per condurla ai previsti risultati di soddisfacimento dei creditori. Anche nel
caso del concordato preventivo possono darsi risoluzione e annullamento con le
conseguenti dichiarazioni di fallimento.
Altra procedura in funzione sostitutiva del fallimento è la amministrazione
controllata che per disposizione dell’art. 187 della legge fallimentare
riguarda il caso dell’imprenditore che si trovi in una situazione di
«temporanea difficoltà di adempiere le proprie obbligazioni» esistendo tuttavia
comprovate possibilità di risanare l’impresa. In situazioni di questo genere (e
ricorrendo le condizioni stabilite dal primo comma dell’art. 187 per rinvio
alle disposizioni dell’art. 160), l’imprenditore in difficoltà può domandare al
tribunale il controllo della gestione della sua impresa e dell’amministrazione
dei suoi beni «a tutela dei creditori» e «per un periodo non superiore a due
anni». Avvia la procedura una domanda di ammissione alla amministrazione
controllata che impegna il tribunale ad accertare se ne esistono gli indicati
presupposti e «se il debitore» deve ritenersi è «meritevole del beneficio».
E se sarà così con il decreto di ammissione previsto dall’art. 188
si provvederà alla nomina di un giudice delegato alla procedura e alla
nomina di di un commissario giudiziale secondo le disposizioni degli artt. 27,28
e 29. E sarà ancora il tribunale a convocare i creditori per le valutazioni che
a loro competono dovendosi leggere con la maggiore attenzione quanto stabilisce
l’art. 189. Se «la proposta del debitore» non è «approvata» il tribunale potrà
dichiarare il fallimento dell’imprenditore qualora consideri il suo dissesto
definito e irreversibile. Se invece <raggiunte le maggioranze prescritte > i
creditori approvano la proposta (per iniziativa del giudice delegato e ) ai
sensi dell’art. 190 seguirà la nomina di un comitato di tre o cinque creditori
che «assiste il commissario giudiziale».
I poteri del commissario giudiziale sono stabiliti dalla norma dell ‘art. 191
essendo disposto che -su istanza di ogni interessato o anche d’ufficio (ma
comunque sentito il comitato dei creditori )- il tribunale può affidargli "in
tutto o in parte" sia la gestione dell’impresa che l’amministrazione dei beni
dell’imprenditore ,in tal caso gravando sul commissario giudiziale i doveri di
rendiconto imposti dal terzo comma dell’art. 190 e quant’altro è stabilito
dall’art. 192.
Qualora il tribunale non ritenga invecec di dover sostituire all’imprenditore
il commissario giudiziale, l’imprenditore ammesso alla procedura di
amministrazione controllata conserva gestione dell’impresa e disponibilità del
patrimonio operando tuttavia i nececessari controlli del commissario
giudiziale e del giudice delegato. E per gli atti eccedenti la ordinaria
amministrazione occorreranno autorizzazioni. I creditori dovranno comunque
astenersi dall’avvio e dalla prosecuzione di azioni esecutive.
Alla scadenza del termine dei due anni (o ancor prima) se l’imprenditore
dimostra che superata la situazione di temporanea difficoltà è ormai «in grado
di soddisfare regolarmente le sue obbligazioni», con decreto del tribunale ai
sensi dell’art. 193 della legge fallimentare sarà dichiarata la "fine della
amministrazione controllata". In caso contrario, e perciò se la termine della
amministrazione controllata risulta che l’impresa non è in condizione di
adempiere "regolarmente" le sue obbligazioni, sia applica la norma del terzo
comma dell’art. 192. Il giudice delegato "promuove dal tribunale" la
dichiarazione di fallimento non essendo tuttavia esclusa la possibilità che
l’imprenditore formuli proposta di concordato preventivo.
Altra vicenda ancora la liquidazione coatta amministrativa a veder
bene più che di una procedura trattandosi di un insieme di procedure
concorsuali regolate in parte da norme della legge fallimentare e in parte da
leggi speciali di settore. Norme tutte comunque riferite a particolari
categorie di soggetti e di imprese assoggettate a forme di vigilanza pubblica.
Si pensi all’impresa bancaria, all’impresa assicurativa, all’impresa cooperativa
o ancora alle società di gestione del risparmio, alle società di revisione ,
alle società di intermediazione finanziaria e alle associazioni «fondo
pensione». Presupposto oggettivo della liquidazione può essere lo stato di
insolvenza dell’imprenditore ma anche la violazione di disposizioni di legge o
regolamentari e infine uno svolgimento delle attività difforme da un generale
interesse che deve invece essere perseguito.
In quali casi possa darsi liquidazione coatta amministrativa stabiliscono puntualmente normative che al tempo stesso ne identificano l ‘ambito di applicazione. Finalità della procedura sono la eliminazione dell’impresa e la cessazione delle sue attività con contestuale liquidazione dell’azienda talvolta operando anche motivazioni di pubblico interesse che consigliano la estinzione dell’ente. Ci sarà anche riparto del ricavato tra i creditori dell’impresa ma come si è avvertito non è questo lo scopo primario delle normative.A regolare il rapporto tra procedura di fallimento e liquidazione coatta provvedono disposizioni (degli artt. 2 e 196 ) della legge fallimentare che qui è possibile segnalare soltanto per rinvio. E quanto alla disciplina della liquidazione coatta amministrativa è possibile soltanto segnalare norme della legge fallimentare che per principio del primo comma del suo art. 194 si applicano "salvo che le leggi speciali dispongano diversamente". Va in ogni caso considerato che la procedura di liquidazione coatta amministrativa è per l’appunto procedimento amministrativo e non vicenda giurisdizionale. Ad avviare la procedura non provvedono giudici ma organi della pubblica amministrazione essendo tuttavia competenza esclusiva dell’autorità giudiziaria l’accertamento dell’eventuale stato di insolvenza dell’ente. Il soggetto pubblico che ha vigilanza sull’impresa dispone con il decreto previsto dall’art. 197 l’avvio della procedura e per disposizione dell’art. 198 nomina un commissario liquidatore ma anche un comitato di sorveglianza del suo operare. L’imprenditore è spossessato e se l’impresa è una società gli organi sociali non svolgono più le loro funzioni. L’art. 204 avverte che il commissario liquidatore prende in consegna i beni compresi nella liquidazione ma anche le scritture contabili (e gli altri documenti dell’impresa .E sarà il commissario liquidatore che è «pubblico ufficiale» ad attivarsi per quanto occorre alle finalità della procedura. Da ciò l’accertamento dello stato passivo non occorrendo domanda di ammissione dei creditori essendo stabilito che il commissario liquidatore formerà di ufficio uno stato passivo <esecutivo>con il deposito richiesto dall’art. 209. Seguirà la liquidazione dell’attivo che una volta ancora compete al commissario liquidatore secondo il già richiamato regime dell’art. 204 (dovendosi considerare che per la vendita di immobili e per altre particolari operazioni al commissario liquidatore occorrono autorizzazione dell’autorità di vigilanza e parere del comitato di sorveglianza ). Seguirà infine la ripartizione dell’attivo secondo criteri simili a quanti operano in caso di fallimento (ma li legga quanto dispone l’art. 212). E il commissario liquidatore presenterà all’autorità amministrativa il bilancio finale di liquidazione con il conto della gestione ove occorra provvedendosi alla cancellazione della società dal registro delle imprese. Ma non sono escluse varianti della fattispecie. Possono infatti darsi fasi contenziose per iniziativa di creditori previste dall’art. 208 così come proposte di concordato da valutare in osservanza dell’art. 214 (operando poi l’art. 215 quanto alle possibili fattispecie di risoluzione e annullamento del concordato).
Organizzata sul modello della liquidazione coatta amministrativa, una nuova procedura concorsuale si deve alla legge 95 dell‘aprile 1979 che disciplina la amministrazione straordinaria delle grandi imprese in crisi. Successivamente e più volte modificata (in particolare dalle disposizioni del decreto legislativo 270 del luglio 1999) questa legge ricerca un difficile punto di equilibrio tra tutela dei creditori dell’imprenditore insolvente, conservazione dell’apparato produttivo «impresa» e difesa dei posti di lavoro. Presupposti dell’amministrazione straordinaria sono una elevato numero di lavoratori occupati, particolari soglie di esposizione debitoria e la possibilità di «risanamento» dell’impresa. Competente ad accertare l’esistenza dei presupposti della procedura è il tribunale del luogo dove l’impresa ha la sua sede principale. Il suo avvio compete al Ministro dell’industria di concerto con il Ministro del tesoro. Sono nominati commissari che provvedono all’amministrazione straordinaria e un comitato di sorveglianza del loro operare.
La continuazione delle attività di impresa si compie in funzione attuativa di un piano di politica industriale «a termine». E se l’impresa appartiene ad un gruppo di imprese possibili estensioni della procedura tendono a consentire una gestione unitaria. Possono darsi cessioni a terzi di complessi aziendali o ristrutturazioni delle imprese così come provvedimenti di chiusura delle procedure se queste non possono essere utilmente proseguite, non essendo perciò escluso che in tal caso alla amministrazione straordinaria segua il fallimento. Con legge del luglio 1998 il governo ha ricevuto delega per una riforma della disciplina in vigore, che non ha dato buona prova perché il suo impiego molto spesso non ha consentito risanamenti di impresa ma soltanto risultati di sostegno dell’occupazione puramente congiunturali (e a prezzo di una intollerabile caduta delle garanzie di tutela dei creditori dell’impresa). Ancora una volta è d’obbligo guardare all’esistente nella prospettiva di una generale riforma di sistema. (segue)
(*) Queste pagine sono parte di una esposizione elementare della disciplina di materia che sarà compresa nella nuova edizione del volume di Lineamenti di diritto privato in corso di pubblicazione presso la casa editrice Giappichelli