IL FONDO PENSIONE “AZIONISTA”.  
LE NORME DI DISCIPLINA GENERALE, IL REGIME DELLA “CARTOLARIZZAZIONE” DELLE QUOTE DI T.F.R. (*)
 

 

di Mario Bessone
Professore ordinario di Istituzioni di
diritto privato nell’Università degli studi di Roma «La Sapienza»

 

 

 

 

          1. Nella generalità dei casi  la decisione di investimento può scegliere sia l'acquisizione di valori e strumenti finanziari (in breve "attività finanziarie") sia la acquisizione di altri valori, in primo luogo  proprietà immobiliari o come scrivono gli specialisti della materia "attività reali". E anche in materia di previdenza complementare così è per i fondi pensione di risalente costituzione, i fondi pensione "preesistenti" alla svolta di sistema operata con le norme del decreto legislativo 124 dell'aprile 1993 (e già attivi alla data del 15 novembre del 1992).  Ma altra è la regola per i fondi pensione di nuova generazione.  La disciplina  del  decreto legislativo 124  stabilisce infatti che il  loro portafoglio  può  essere investito soltanto in attività "finanziarie", con l’oggetto e le varianti di regime e le opzioni  quantitative che si indicano nelle  disposizioni  dove contestualmente si rinvia all’ulteriore normativa demandata ad un decreto del Ministro del tesoro. Ne conseguono il quadro di insieme della disciplina di settore prefigurata dall’art. 6 del decreto legislativo. E a sua integrazione le regole che in materia di  "criteri" e "limiti di investimento" delle risorse dei fondi pensione si sono stabilite con  il decreto ministeriale 703 del novembre 1996.

                                   Le consistenze patrimoniali dei nuovi fondi pensione saranno perciò volta a volta partecipazioni azionarie e altri "titoli di capitale", "titoli di debito" e "quote" di fondi comuni di investimento o "contratti derivati" o altro ancora. Ma sarà in ogni caso imperativamente  esclusa la allocazione del risparmio previdenziale amministrato dal fondo pensione in "attività" diverse dalle attività "finanziarie". E le prestazioni pensionistiche attese dalla adesione ad un fondo pensione (ogni e qualsiasi "fondo pensione") costituiscono  il risultato economico derivante appunto  dalla gestione di un portafoglio di valori mobiliari, interamente  o comunque in misura del tutto prevalente  amministrato da imprese dell’intermediazione finanziaria. Interamente nel caso del fondo pensione aperto che altro non è se non  amministrazione di un portafoglio finanziario con finalità previdenziale da parte di imprese dell’intermediazione finanziaria  operanti nel regime dell'art. 9 del decreto legislativo. E comunque in misura del tutto prevalente nel caso del fondo pensione chiuso di nuova generazione,che se può provvedere alla gestione diretta di una certa parte del suo patrimonio  deve invece consegnare la grande parte delle sue risorse alla gestione di banche,imprese assicurative, "società di gestione del risparmio di risparmio" o "imprese di investimento". Si opera allora nel regime di previdenza privata che in queste pagine interessa  considerare guardando alle grandi linee della normativa  dei fondi pensione del mondo del lavoro.

                                   Non sarà tuttavia necessario un lungo discorso di quadro generale. Le disposizioni del decreto legislativo  indicano infatti  con chiarezza sia le finalità  che la disciplina dei fondi pensione negoziali e "chiusi" attivati nell'interesse di "categorie", "comparti" o altro "raggruppamento" di appartenenti al mondo del lavoro.Per via di contribuzioni degli iscritti (nel caso dei lavoratori dipendenti spesso  integrate da quote di t.f.r.) ai fondi pensione affluiscono in via continuativa  masse monetarie. E  una loro gestione finanziaria di lungo periodo deve procurare rendimenti di portafoglio che per  le necessità dell'età anziana  consentano di erogare  prestazioni di rendita  (o se si preferisce ma soltanto in parte prestazioni in conto capitale comunque) "complementari" delle prestazioni che si ricevono dal sistema pensionistico pubblico. Si configura un circostanziato ordinamento di settore che a tutela degli investitori di risparmio con finalità previdenziale organizza in sistema le necessarie funzioni di pubblico controllo. Funzioni in misura molto rilevante istituzionalmente  assegnate in competenza ad una Commissione di vigilanza sui fondi pensione (nella denominazione corrente, la Covip) che si avvale di tutti i poteri conferiti dall'art. 17  e poi puntualmente  precisati da altre norme  del decreto legislativo.

          Ai fondi pensione si domanda "efficiente gestione" del portafoglio finanziario secondo precise  "linee di indirizzo", "diversificazione" degli investimenti e dei "rischi" anche "di controparte", ricerca della possibile "massimizzazione dei rendimenti netti" e comunque una amministrazione "sana e prudente" delle disponibilità patrimoniali. Già di per sé tutto questo indica quanto sono numerosi i punti di interferenza tra il diritto della previdenza complementare e le regole del diritto di mercati ed economia finanziaria. Soltanto un passo più avanti dei puri e semplici discorsi di superficie, l’analisi  del fenomeno "previdenza complementare" impegna perciò  ad una complessa ricognizione di campo normativo, che ha significativi esiti di estensione del materiale giuridico da considerare con grande attenzione  perché è securities law  ma al tempo stesso e in senso tecnico  diritto della previdenza complementare. Posizione  e operatività del fondo pensione ne determinano infatti  l'appartenza all’universo dell’economia finanziaria in  misura tale che  il sistema delle  norme della previdenza complementare  deriva consistente  parte del suo regime  dalle norme del Tuf, il Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria  approvato con il decreto legislativo 58 del  febbraio 1998.

       In questo senso una esauriente  esposizione di materia dovrebbe considerare una intera serie di norme   che  variamente stabiliscono  regole  di regime per i  soggetti abilitati alla prestazione di servizi di investimento o alla  gestione  del risparmio in forma collettiva e "in monte", per un grande numero di "strumenti" e di "prodotti" finanziari (ma anche per le attività di intermediazione che li movimentano) e infine regole dei mercati finanziari dove si  commerciano financial products. Posizione e operatività dei fondi pensione nell’universo dell’economia finanziaria sono  poi naturalmente  caratterizzate in modo particolare dalla particolare natura degli investimenti di risparmio con finalità previdenziale. Ogni genere di investimento finanziario del risparmio esige  una disciplina giuridica di particolare protezione degli investitori  secondo il principio dicostituzione economica del primo comma dell'art. 47 Cost… Ma sarà chiaro che l'esigenza di garanzie di tutela del risparmio  è tuttavia   tanto più forte  quando sul mercato degli strumenti finanziari sono investite risorse derivate da contribuzioni (e quote di t.f.r.) consegnate a fondi pensione con finalità di previdenza per l'età anziana.

         In tal caso occorre infatti incrementare (e occorre comunque adeguare alla specialità di materia) le garanzie di trasparenza delle attività di mercato e di  informazione dell’investitore, le garanzie di vigilanza in punto di stabilità e correttezza degli operatori della intermediazione, le garanzie di consistenza  e di osservanza delle regole di indirizzo delle allocazioni finanziarie.Ne deriva una speciale disciplina di settore  e in questo senso è davvero emblematica la normativa  più strettamente correlata   al principio di   trasparenza, inteso come tale il principio regolatore della complessa trama dei rapporti contrattuali che intercorrono tra il fondo pensione e aderenti alla forma pensionistica complementare, così come tra fondo pensione e le imprese di gestione finanziaria del suo portafoglio previdenziale. Ma se occorreva assicurare grande estensione di campo a imperative norme di garanzia della trasparenza delle attività al tempo stesso (e con la medesima forza) occorreva  garantire che il loro svolgimento fosse organizzato nel modo necessario per realizzare al meglio i guadagni di portafoglio che sono pur sempre il risultato atteso dall'investimento di risparmio in fondi pensione.  E questo spiega le speciali disposizioni dell'art. 6 del decreto legislativo (e degli  altri che con esso fanno sistema).

              

 

 

        2 .   Per i fondi pensione negoziali e "chiusi" del mondo del lavoro il legislatore della previdenza complementare ha inderogabilmente disposto il modello organizzativo  e il regime   delle associazioni o delle fondazioni del primo libro del codice civile, essendo escluso che per essi possa darsi  una configurazione nella forma giuridica delle attività di impresa o del trust.  E agli amministratori del fondo pensione "associazione" (perché a tutt'oggi non si conoscono fattispecie diverse da questa) competono numerosi poteri e contestuali responsabilità di complessiva gestione dell'iniziativa previdenziale.  Ma una cosa sono gli assetti di struttura del fondo pensione e quant'altro riguardi ciò che è appunto funzione amministrativa.Cosa diversa è invece  curare l'asset allocation e la movimentazione di un patrimonio interamente composto da "prodotti" o strumenti finanziari e da liquidità di supporto. E anche nel caso del risparmio con finalità previdenziale per tutto questo è naturalmente preferibile avvalersi della perizia professionale di imprese della financial industry  esperte in operazioni di  investimento da avviare e da gestire in più mercati di valori mobiliari.Da ciò la disciplina  del  decreto legislativo dove si segnano stringenti limiti di oggetto e di grandezza  agli investimenti che il fondo pensione può attivare "in via diretta".

       Attività di gestione finanziaria del suo patrimonio che il fondo pensione può svolgere  in via diretta è la sottoscrizione e la acquisizione  di quote di fondi comuni di investimento "mobiliare" chiusi. E’ comunque stabilito che a questa forma di investimento non è consentito superare la soglia del venti per cento del patrimonio del fondo pensione né la soglia del venticinque per cento del capitale del fondo comune. Ancora il primo comma dell’art. 6 del decreto stabilisce le medesime soglie per la sottoscrizione e la acquisizione di   quote  di  fondi  comuni di investimento  "immobiliare" chiusi. Esaurisce la serie della attività di gestione finanziaria che il fondo pensione può svolgere  in via diretta la sottoscrizione o la acquisizione di "azioni" o "quote" di società immobiliari nelle quantità e secondo il regime che la norma del decreto ancora una volta puntualmente indica. E le fattispecie di possibile gestione delle risorse finanziarie atttivata in via diretta dagli amministratori del fondo pensione presentano un carattere molto lineare. Sono gli stessi amministratori del fondo pensione a progettare, a variare quando occorre e comunque a realizzare un programma di asset allocation  che le disposizioni del decreto legislativo delimitano per grandezze e oggetti nel  modo già indicato.E sono ancora gli amministratori  a movimentare il portafoglio del fondo pensione mediante la conclusione di contratti di investimento a contenuta soglia di  complessità. 

         La normativa del decreto legislativo tuttavia impone a questa modalità di gestione limiti quantitativi (e di genere dei financial products) tali da circoscriverne di molto la possibile incidenza. E come già si diceva per l’intero comparto dei fondi pensione "chiusi" di nuova generazione la nota dominante del sistema è costituita dalla interposizione delle imprese  di intermediazione finanziaria che caratterizza la gestione delle risorse del fondo  pensione operata  in via indiretta. Sia per  la dimensione  degli investimenti che per la natura degli strumenti finanziari di volta in volta impiegati il loro operare finisce  per essere in ogni senso assolutamente determinante. La entità delle prestazioni previdenziali  che gli iscritti al fondo pensione riceveranno è infatti una variabile strettamente (se non interamente) dipendente dai risultati delle attività di gestione professionale del portafoglio finanziario svolte  da imprese di intermediazione mobiliare Al fondo pensione compete pur sempre  la progettazione delle  linee di indirizzo della  gestione del suo patrimonio.  Ma attrezzare e praticare le attività di mercato è cosa che compete all’impresa gestore secondo una logica di rapporto  da principal ad agent che  al gestore  agent assegna con ogni evidenza il ruolo protagonista.E si è già ricordato che  per disposizione dell'art. 6 del decreto legislativo "abilitate" ad assumere incarico di gestione del patrimonio dei fondi pensione sono la banca, l'"impresa di investimento" sia Sim di diritto nazionale  sia  impresa di investimento comunitaria (o extra comunitaria), l'impresa assicurativa e la "società di gestione del risparmio".

        Occorrono i requisiti  ordinariamente richiesti dalla legislazione del settore finanziario di appartenenza ma anche gli speciali requisiti indicati dal quarto comma della norma del decreto legislativo. La medesima disposizione avverte che sulle indicate imprese "le rispettive autorità di vigilanza (…) conservano" tutti i  "poteri di controllo" previsti dalle singole normative di settore, così da   assicurare quanto occorreva appunto in termini di controllo della loro "stabilità" e di garanzie  di trasparenza e correttezza del loro operare anche  in materia di previdenza complementare.  Ad esclusione del caso di speciali fattispecie e di  speciali "accordi" i "valori" e le "disponibilità" che costituiscono patrimonio finanziario del fondo pensione rimangono nella sua giuridica titolarità. Sono infatti  valori e disponibilità  dislocati  presso l’impresa "gestore" nella condizione di un patrimonio "autonomo e separato". Ma naturalmente la giuridica titolarità dei valori e delle disponibilità è altro da ciò che costituisce  asset allocation o  movimentazione di risorse sui mercati finanziari. E tutto questo compete all'impresa di intermediazione mobiliare che agisce da gestore.      

         L’impresa "gestore" si attiverà nell’interesse del fondo pensione ma con grande libertà di iniziativa professionale. E agli amministratori del fondo pensione sarà  preclusa qualsiasi possibilità di impartire direttive o di esercitare poteri di interferenza nelle attività gestorie. Alla configurazione delle indicate attività come oggetto di un contratto che  si sottoscrive per dare consistenza di contenuti e di rapporto giuridicamente obbligatorio alla gestione del portafoglio previdenziale  fondi pensione e imprese di intermediazione finanziaria  pervengono mediante una "convenzione"  da stipulare secondo le disposizioni degli artt. 6  e 6  ter  del decreto legislativo. E se è vero che esiste ampio spazio di self regulation secondo gli ordinari poteri autonomia privata,in ogni loro parte le   convenzioni di volta in volta concluse dovranno comunque uniformarsi ad uno "schema tipo" che per disposizione della lettera e) del secondo comma dell'art. 17 la Covip era chiamata  a definire d'intesa con "le autorità di vigilanza dei soggetti abilitati a gestire le risorse" di fondi pensione.  E a ciò si è provveduto con una importante deliberazione del gennaio 1998.

                           Dalla Covip si deve ricevere un provvedimento di autorizzazione preventiva secondo le disposizioni della lettera f del secondo comma  dell'art. 17.  E' provvedimento di riscontro della conformità dei contenuti del contratto gestorio al complessivo insieme delle sue norme di regime.Si configura un insieme di fattispecie  molto  complesso e  per la forma pensionistica "a contribuzione definita" (l'unica a a tutt'oggi operante) è stabilito che le convenzioni di gestione devono "contenere" le "linee di indirizzo" dell’ attività dei "soggetti convenzionati", espresse  secondo principio di autonomia  di valutazioni del fondo pensione ma comunque necessariamente conformi a quanto prescrive la lettera a  del  comma quarto bis dell’art. 6  del decreto legislativo. Le convenzioni di gestione  dovranno perciò riferire le indicate linee di indirizzo ai criterii di individuazione e di ripartizione del rischio "di cui al comma quattro quinquies" dell’art. 6, così come definire le modalità di possibile modificazione del programma di allocazione delle risorse del fondo pensione. E si dovrà  fare obbligato  riferimento a quanto volta a volta   stabiliscono anche  le discipline statutarie del fondo pensione. Si opera con le garanzie della presenza di una banca "depositaria" che (come precisa l'art. 6 bis) se riceve appunto in deposito le risorse del fondo al tempo stesso "esegue le istruzioni impartite" dall'impresa "gestore", dovendo tuttavia accertare  che "non siano contrarie alla legge", allo "statuto del fondo stesso" e ai "criteri stabiliti" dalle normative regolatrici della sua gestione finanziaria

                         Possono darsi convenzioni gestorie con particolari caratteri e una serie di varianti di regime. E non è escluso il caso di una convenzione gestoria  che trasferisca il rischio della gestione finanziaria sull’impresa "gestore", per norma contrattuale al fondo pensione  e ai suoi  iscritti  assicurandosi  risultati certi  quanto a "restituzione del capitale" o a corresponsione di un "interesse minimo". Ma anche  fattispecie di questo genere costituiscono materia di una regolamentazione di insieme ormai ampiamente consolidata. Quale che sia la possibile conformazione della "forma pensionistica" nel caso singolo comunque  basic rule al vertice del sistema è ancora una volta  l'art 6 del decreto legislativo 124. E quanto ai "criteri" e ai "limiti" di investimento delle risorse del fondo pensione valgono le disposizioni del decreto ministeriale  del novembre 1996 che al tempo stesso stabilisce importanti regole di "sana e prudente" gestione delle forme pensionistiche complementari,e insieme con esse  disposizioni (degli artt. 7 e 8) relative alle possibili situazioni di conflitto di interessi. Da tutto questo una disciplina di garanzia  con caratteri di imperatività che è  rigorosa quanto occorreva per assicurare le necessarie misure di protezione del risparmio con finalità previdenziale

                       Ne risulta configurato  un sistema di regole d’ordine degli impieghi della ricchezza finanziaria dei fondi pensione che in linea generale è certamente meritevole di un positivo apprezzamento (e sicuramente in linea con gli orientamenti  maturati in sede comunitaria). Sia le regole  in materia di oggetto e  tipologie degli investimenti, le altre pensate a misura della qualità dei soggetti emittenti e delle loro appartenze (di area finanziaria o "di gruppo") e  infine le regole attente alla negoziabilità degli strumenti e alle loro dislocazioni di mercato  stabiliscono infatti  un giusto  punto di equilibrio tra l’esigenza di assicurare una necessaria libertà nelle movimentazioni del portafoglio dei fondi pensione  e la contestuale (talora confliggente ) esigenza di segnare al libero impiego dello loro risorse finanziarie precisi limiti di carattere prudenziale. Ma si tratta di limiti del tutto ragionevoli  e comunque decisamente  motivati  in considerazione della finalità previdenziale che più di ogni opportunità speculativa deve caratterizzare l’operare  dell’investitore  istituzionale "fondo pensione".

                     

 

 

                        3.  Nel caso della gestione del portafoglio pensionistico attivata in via diretta dagli amministratori del fondo pensione valgono le previsioni di limite delle lettere d ed e del primo comma dell'art. 6 del decreto legislativo. Nel caso della gestione di portafoglio  attivata in via indiretta mediante l’intermediazione di imprese "gestore" la norma di primo riferimento è il quinto comma della medesima disposizione. E una volta stabilito che "i fondi" in ogni caso non possono "assumere" né possono "concedere prestiti", la disposizione del decreto provvede in primo luogo a stabilire una serie di divieti che segnano un limite alle possibili acquisizioni di partecipazioni azionarie al portafoglio finanziario dei fondi pensione. Operano con precisa finalità prudenziale le previsioni di limite quantitativo al possesso di azioni o  di "quote" con  diritto di voto. Previsioni necessarie perché  al fondo pensione altro non compete se non curare l’ interesse previdenziale degli iscritti alla forma  pensionistica. Molto opportunamente si è quindi escluso che al fondo pensione sia consentito accumulare partecipazioni azionarie di un "ammontare tale da determinare" situazioni di pericolosa commistione con interessi di diverso genere .

                       Al fondo pensione  perciò non si consente  di acquisire partecipazioni azionarie  così consistenti da farne il socio che "in via diretta" esercita "un’influenza dominante sulla società emittente". Allo stesso modo si vieta  l’acquisto di partecipazioni particolarmente rilevanti  al capitale sociale di  imprese societarie che  al tempo stesso sono "soggetti tenuti alla contribuzione" previdenziale o  soggetti "da questi controllati". Con ogni evidenza  le lettere a  e b  del quinto coma dell’art. 6 del decreto legislativo sono disposizioni nel segno del necessario rigore. E disposizioni da considerare nella prospettiva degli interventi di pubblica vigilanza  che anche per questa parte di materia sono come si sa strumenti di garanzia   disposti  con norme che se non consentono invasioni dello spazio di self regulation  dovuto alle iniziative di previdenza privata al tempo stesso esigono tuttavia una  interpretazione  in senso forte della funzione di controllo.

         In caso di società ammessa alle quotazioni di mercato azionario  i fondi non possono  "investire le disponibilità di competenza" negli strumenti finanziari costituiti da  azioni o quote "con diritto di voto"  per un valore nominale superiore "al cinque per cento" del valore nominale  complessivo di tutte le azioni o quote con diritto di voto emesse dalla società medesima>. In caso di società non quotata in mercati regolamentati la soglia quantitativa da non superare  è invece stabilita "al dieci per cento"  delle azioni o "quote" con diritto di voto. In entrambi i casi sono precluse le partecipazioni che configurano posizioni di influenza dominante. Considerata la contenuta entità delle partecipazioni azionarie che ne sono permesse sarà chiaro che  disposizioni di questo genere sicuramente costituiscono mezzo utile al fine di scongiurare il rischio (tutt'altro che marginale) delle possibili commistioni tra finalità istituzionali del fondo pensione e interessi finanziari di altro genere inevitabilmente tali da determinare effetti iinquinanti.

        Altro ancora occorreva tuttavia stabilire per assicurare completezza e operatività di regole  all'indicata policy di garanzia. Quanto alle partecipazioni azionarie che fossero costituite da  azioni o quote  "emesse da soggetti tenuti alla contribuzione" o  da soggetti controllati o "direttamente"  o in via indiretta  "per interposta persona" o ancora  per mezzo di società fiduciaria  la soglia  invalicabile degli investimenti del fondo pensione è  perciò   in linea generale  stabilita  alla misura  del "venti per cento delle risorse del fondo".  E’  invece stabilita la soglia del trenta per cento del suo patrimonio  "se trattasi" di fondo pensione "di categoria". Medesime previsioni di limite valgono per le situazioni di controllo che la norma del decreto legislativo  richiama per rinvio al secondo comma dell’art. 27 della legge 287 del 10 ottobre 1990. Tra  fondi pensione e  imprese societarie che contribuiscono alla forma pensionistica complementare si configura così una garanzia di  "separatezza" quanto mai consigliabile. E sarà l’esperienza a segnalare eventuali opportunità di correzione degli indicati limiti di soglia.

                           Nel disegno di insieme del decreto legislativo 124  le previsione di limite e i divieti stabiliti con le sue norme  andavano tuttavia integrati dalle ulteriori discipline di vincolo rimesse ai poteri regolamentari delle autorità di governo.  E disponendo che con suo decreto il Ministro del tesoro doveva individuare le attività finanziarie che possono diventare parte  del portafoglio mobiliare dei fondi pensione, al tempo stesso  il quarto comma quinquies  dell’art. 6 del decreto legislativo  impegnava  l’autorità di governo a stabilire per esse "i rispettivi limiti massimi di investimento". A questo il decreto ministeriale del novembre 1996 ha provveduto con una norma che se naturalmente conferma i limiti e i divieti  già stabiliti dall’art. 6 del decreto legislativo  al tempo stesso  ne integra in modo circostanziato la disciplina, indicando soglie quantitative di investimento contestualmente  diversificate per singole tipologie di valori mobiliari secondo una metodologia di intervento che trova adesso puntuale riscontro nella circostanziata normativa dell’art. 14 del progetto di direttiva comunitaria.

          Ad esclusione del caso  di "temporanee" e "comprovate esigenze" che possano eventualmente determinarsi nella  amministrazione  finanziaria della forma pensionistica, le soglie di investimento stabilite dal decreto ministeriale costituiscono prescrizioni di vincolo che all’asset allocation  del fondo pensione non è consentito derogare . Posto che l’insieme degli investimenti  deve essere "per almeno un terzo" denominato  in una valuta congruente "con quella nella quale" saranno  "erogate le prestazioni del fondo pensione" , precise disposizioni riguardano gli strumenti finanziari che  il decreto ministeriale indica come  "liquidità, considerando tali i titoli del mercato monetario o  altri titoli di debito con vita residua non superiore a sei mesi "ivi compresi i depositi bancari a breve" Valori mobiliari che possono essere  parte del portafoglio finanziario del fondo pensione entro una soglia pari al venti per cento del suo patrimonio complessivo. E la medesima soglia vale per la parte del portafoglio che il fondo pensione ritenesse di investire in quote di fondi comuni di investimento mobiliare o immobiliare "chiusi", dovendosi considerare anche la soglia del venticinque per cento del valore del fondo comune "partecipato". Sono (permesse le operazioni di "pronti contro termine" e)  vietate  le "vendite allo scoperto".

           Più articolata e complessa la disciplina  delle  indicazioni di soglia relative all’insieme degli altri strumenti finanziari sia che costituiscano  "titoli di debito" sia che si tratti di "titoli di capitale". In estrema sintesi per il decreto ministeriale sono "titoli di debito" che interessano il portafoglio dei fondi pensione i valori mobiliari di genere debitorio  emessi "da stati o da organismi internazionali", le obbligazioni societarie  anche se si tratta obbligazioni "convertibili in azioni", i certificati "di deposito" o  "di investimento" e ancora le cambiali finanziarie o altri strumenti finanziari che comunque  prevedano a scadenza la restituzione del capitale. E naturalmente configurano "titoli di capitale" le azioni emesse da società di capitali così come  gli altri strumenti finanziari "negoziabili" e "rappresentativi" di capitale di rischio.  Ma va considerato anche   le quote di società immobiliari a responsabilità limitata  sono valori dal decreto ministeriale ricompresi appunto nella categoria generale dei "titoli di capitale".

           Con riguardo a questi comparti di financial economy vale una normativa  molto circostanziata che in queste pagine si segnala nella misura strettamente necessaria per precisare in quali proporzioni l'investimento delle risorse del fondo pensione può essere appunto investimento in "titoli di capitale" e perciò in partecipazioni azionarie (o titoli che  ne consentano la acquisizione).  Operano in primo luogo  limiti di soglia stabiliti in ragione del soggetto emittente e della negoziabilità degli strumenti finanziari. Nel caso dei "titoli di capitale" (ma anche nel caso di "titoli di debito") qualora costituiscano oggetto dell’investimento finanziario "titoli" che negoziati in mercati regolamentati "dei paesi dell’Unione europea, degli Stati Uniti, del Canada e del Giappone" , e sempre che si tratti di titoli emessi da paesi aderenti all’Ocse ovvero da "soggetti ivi residenti"  esiste ampio spazio aperto alle propensioni di investimento del fondo pensione. Ma alla sua asset allocation  si è  tuttavia stabilito un vincolo che ne circoscrive i possibili investimenti  entro il limite di soglia del cinquanta per cento delle  complessive disponibilità finanziarie. E l’art. 4  del decreto ministeriale avverte in qual misura "entro tale limite" vanno ancora  osservate ulteriori previsioni di limite .

         Previsioni che in via breve  e per l'essenziale  possono così essere rappresentate. Secondo la già indicata logica  di sistema  i "titoli di capitale" non possono superare il dieci per cento del patrimonio, così come "il complesso" dei  "titoli di debito" e "di capitale"  di emittenti diversi dai paesi aderenti all’Ocse o dagli organismi internazionali "cui aderiscono almeno uno degli Stati appartenenti all‘Unione europea" non può spingersi al di là della soglia del venti per cento della ricchezza finanziaria del fondo pensione. E al cinque per cento del suo patrimonio si situa la soglia degli investimenti in titoli (ancora una volta "di capitale" e "di debito") emessi da soggetti diversi dai paesi aderenti all’Ocse "ovvero da soggetti residenti in detti paesi". Occorre comunque che si tratti di titoli negoziabili e "negoziabili" in  "mercati regolamentati" dell’Unione europea, degli Stati Uniti, del Canada e del Giappone.  A completare nel modo necessario la disciplina del decreto ministeriale  provvedono le disposizione di limite relative alla identità dell’emittente e alla sua  eventuale appartenenza "di gruppo".  Rimangono in ogni caso "fermi i limiti previsti dal primo comma" dell’art. 4 del decreto.

       E se in queste pagine non è pensabile una più ampia ricognizione di materia spinta alle disposizioni di genere particolare e allo loro complessiva ratio legis (che pure naturalmente molto rilevano) sarà forse utile aggiungere qualche ulteriore precisazione.Con la comprensibile esclusione dei titoli di debito emessi da Stati aderenti all’Ocse , il secondo comma della norma stabilisce tuttavia che per i "titoli" emessi da uno stesso emittente o da emittenti appartenenti ad un medesimo "gruppo" societario le propensioni di investimento del fondo pensione incontrano un limite di soglia situato al quindici per cento del suo patrimonio. Va poi considerato che la previsione di vincolo opera sia che si tratti (di titoli di debito oppure) di titoli di capitale o  invece di "prodotti derivati" che "danno diritto" al loro acquisto. Sempre il secondo comma dell’art. 4 del decreto ministeriale avverte che entro l’indicato  limite di soglia del quindici per cento opera un ulteriore limite (che è del cinque per cento) relativamente  alle quantità  dei titoli non negoziati in mercati regolamentati dei paesi dell’Unione europea, degli Stati Uniti, del Canada e del Giappone.

          Se questo è lo scenario di insieme  delle disposizioni che stabiliscono  la disciplina di asset allocation  del fondo pensione, sarà chiaro in qual  misura nel loro contesto operano normative che  consentono consistenti flussi di investimento  in "titoli di capitale",si tratti di partecipazioni azionarie  o di altri titoli comunque capaci di assicurare partecipazioni al capitale di rischio di società azionarie. E per opinione ormai generale  una strategia di asset allocation intesa a valorizzare quanto occorre il portafoglio dei fondi pensione  deve  assegnare una certa consistenza alla sua componente azionaria. Naturalmente occorre operare  secondo criterio di prudente equilibro e e nelle quantità volta a volta proporzionate alla particolare natura della singola "forma pensionistica" (e alle aspettative degli iscritti che saranno diverse in ragione di posizioni professionali e classi di età).  Ma il maggior rischio dell'investimento azionario nel lungo periodo è pur sempre compensato dalla ragionevole probabilità di capital gains. Nel caso dei fondi pensione del mondo del lavoro dipendente si deve poi considerare il possibile beneficio di un in investimento di quote di t.f.r in strumenti finanziari, quando si segua l'indicata regola di prudente equilibrio non essendo da escludere l'eventualità di un  investimento di genere azionario.  Ma sia pure con estrema sintesi in materia di t.f.r.  sarà forse utile qualche riferimento di quadro generale.

 

 

 

                                  4.   All’origine  il t.f.r., il "trattamento di fine rapporto" per il lavoratore del settore privato come si sa  era semplicemente  una forma di assicurazione contro il rischio di disoccupazione. Diventa  tutt’altra cosa nel corso di un processo evolutivo che finisce per configurare  la corresponsione di un capitale "a fine rapporto" come  una forma di "retribuzione differita" che si corrisponde appunto al tempo della cessazione del rapporto di lavoro. La sua disciplina si trova nell'art. 2120 del codice civile come modificato dalla legge 297 del 29 maggio 1982. Stabilito che  il prestatore di lavoro "ha diritto" ad un "trattamento di fine rapporto", la norma del codice civile ne  determina la misura in ragione di una "quota" per "ciascun anno di servizio"  derivata dal complessivo "importo della retribuzione dovuta" al lavoratore.  Ancora l’art. 2120 del codice civile stabilisce il  tasso di rivalutazione del suo ammontare essendo poi  previste possibili anticipazioni  in caso di spese mediche o di acquisto della prima casa. Per i lavoratori  quanto si riceve come "retribuzione differita"e trattamento di fine rapporto è naturalmente parte importante del loro portafoglio  finanziario.

                                    Si tratta infatti di  un capitale a immediata disposizione per le necessità di vita che non si possono affrontare con la pura e semplice disponibilità di una periodica  corresponsione di rendite di genere pensionistico. Ma il "trattamento di fine rapporto" è  forma di retribuzione differita che ha un   rendimento finanziario tutt’altro che elevato. La norma dell’art. 2120  stabilisce infatti che "il trattamento"   di fine rapporto sia pure "su base composta" è "incrementato" anno per anno "con l’applicazione" di un "tasso" costituito dall’uno e cinquanta per cento "in misura fissa" e dal settantacinque per cento "dell’aumento dell’indice dei prezzi al consumo"  accertato dall’Istat con le modalità di determinazione poi precisate dal  quinto comma dell’art. 2120.  E gli incrementi  che complessivamente ne derivano sono quanto mai  contenuti.  Nel conto economico dell' impresa   "datore di lavoro" l’obbligo di provvedere alla erogazione di trattamenti "di fine rapporto" tuttavia   costituisce una passività finanziaria di grande consistenza.  Ma per l’impresa "datore di lavoro" il regime di t.f.r. al tempo stesso  costituisce  una rilevante  modalità di acquisizione di risorse monetarie  a condizioni vantaggiose.

                                 Essendo "quota" di retribuzione differita al lungo periodo il trattamento "di fine rapporto" è  infatti  materia di  un diritto di credito del lavoratore  a prestazioni monetarie per importi che intanto si trattengono presso l’impresa a basso costo di remunerazione.  E considerato quanto sono contenuti i  tassi di rivalutazione del loro ammontare il beneficio finanziario assicurato all’impresa dal regime di t.f.r. è calcolabile "in termini percentuali" nella differenza tra "il costo del denaro preso a prestito" da terzi e il  meno elevato "tasso" di interesse "corrisposto ai lavoratori" per il capitale  ad essi  dovuto "a fine rapporto".  Ne risulta con ogni evidenza in che misura le risorse monetarie trattenute in conto  t.f.r per l’impresa costituiscono liquidità disponibile a costi decisamente inferiori al prezzo  delle risorse di liquidità da acquisire sul mercato monetario. Da ciò le comprensibili resistenze  di parte imprenditoriale ad innovazioni di sistema che non fossero commisurate alle necessità della finanza aziendale ma anche il progetto di politica del diritto che doveva a suo tempo conseguire un suo primo risultato operativo  con le disposizioni  del decreto legislativo 124 . 

                                 Si muoveva appunto dalla considerazione che in quanto "credito" da lavoro verso l’impresa il "trattamento di fine rapporto" è caratterizzato in negativo per i suoi rendimenti poco remunerativi. Nel primario interesse dei lavoratori si  riteneva  perciò preferibile  il  diverso impiego delle quote di "retribuzione differita" reso possibile dal trasferimento dei flussi annuali di "accantonamento"  del  t.f.r. al fondo pensione di eventuale appartenenza  del lavoratore destinatario del credito. E un progetto di politica del diritto orientato in questa direzione  era fortemente sostenuto da quanti   avvertivano che in assenza di consistenti integrazioni  il puro e semplice  versamento di contributi previdenziali è di per sé impossibilitato a garantire una sufficiente consistenza della posizione pensionistica complementare. In punto di politica economica  erano poi  da calcolare  i risultati positivi  immediatamente conseguenti ad un possibile  maggior afflusso di risorse dai fondi pensione ad un sistema di economia finanziaria che ha grande necessità di investitori istituzionali. Ancora una volta tuttavia una cosa erano  le intenzioni e un progetto pensato in astratto e altra cosa  i dati della realtà.

                                   Occorreva  infatti considerare che era (e continua ad essere) assolutamente  impraticabile qualsiasi ipotesi di acquisizione alla previdenza complementare dello stock di risorse per il passato accumulate presso le imprese in previsione dei futuri trattamenti di fine rapporto. Era invece (e continua ad essere) realisticamente praticabile una ipotesi di consistente  trasferimento al fondo pensione delle risorse finanziarie costituite dai nuovi "accantonamenti" di quote di trattamento di fine rapporto. Al tempo stesso tuttavia  occorreva valutare realisticamente quale problema sia per le imprese  la conseguente perdita della liquidità tradizionalmente assicurata dall'"accantonamento" presso di sè della massa monetaria imputata a "trattamento di fine rapporto", dovendosi considerare anche  l'entità degli oneri finanziari che sulle imprese "datore di lavoro" già gravano in termini di contribuzione obbligatoria al sistema pensionistico pubblico. In ogni caso si trattava poi di elaborare una disciplina compatibile con le determinazioni che fossero di volta in volta assunte dalle parti sociali in sede di contrattazione collettiva.

                                   Quanto fosse difficile passare da astratte progettazioni di politica del diritto ad una  accettabile disciplina di diritto positivo indicano con chiarezza le norme del decreto legislativo 124 . Si pensi alla posizione dei lavoratori dipendenti  del settore  privato.  Per i  lavoratori di "prima occupazione" dall’entrata  in vigore del decreto legislativo , e perciò dall’aprile del 1993 vale il regime  del terzo comma dell’art. 8 . E  come si sa questa  disposizione stabilisce che per le  fonti istitutive delle forme pensionistiche attivate "su base contrattuale collettiva" esiste un vincolo di  integrale destinazione al fondo pensione degli accantonamenti annuali di trattamento di fine rapporto maturati in tempi successivi alla  iscrizione del lavoratore  al fondo pensione. Ma per i lavoratori che non sono di "prima occupazione" con il secondo comma dell’art. 8 del decreto  legislativo  si è invece prevista tutt’altra e inadeguata  disciplina, essendo  semplicemente   prevista una  possibilità di conferimento  al fondo pensione di "quote" degli accantonamenti annuali rimessa alle valutazioni di volta in volta operate dai soggetti che sono fonte istitutiva della forma pensionistica complementare.

                                      Da  ciò un regime normativo così visibilmente incapace di provvedere alle necessità previdenziale del gran numero dei  lavoratori, e  in ogni caso così  lontano da qualsiasi possibile risultato di reale  incremento delle consistenze finanziarie della previdenza complementare da rendere necessaria  una   riforma di sistema.  E in attesa di una complessiva (e urgente)  riforma di regime del t..f.r  un primo passo che sembrava utile si è compiuto con le le disposizioni del decreto  legislativo 299 del 17 agosto 1999. Avvalendosi della  delega conferita al Governo con l’art. 71 della legge 144 del maggio 1999,le disposizioni del decreto legislativo 299  congegnano possibili forme di trasformazione degli  accantonamenti  di fine rapporto ricevuti dal fondo pensione in "strumenti finanziari". Sono perciò disposizioni di securitization  o se si preferisce di "cartolarizzazione" di trattamenti di fine rapporto che si devono ad una precisa opzione di politica economica. Le norme del decreto legislativo 299 che maggiormente ne caratterizzano il progetto  riguardano infatti  la possibile conversione di accantonamenti annuali di t.f.r.  in valori mobiliari a tal fine emessi  dall’impresa "datore di lavoro" o da imprese del "gruppo" di imprese di sua appartenenza.

                                Questa particolare  modalità di impiego delle risorse di t.f.r. acquisite dal fondo pensione in strumenti finanziari ne dovrebbe accrescere il rendimento economico. Al  tempo stesso la loro destinazione al capitale sociale o comunque al patrimonio dell’impresa "datore di lavoro"  dovrebbe procurare all’impresa mezzi di finanziamento sostitutivi del finanziamento tradizionalmente assicurato dalla disponibilità degli importi accantonati in conto di fine rapporto. E la "relazione al decreto" diffusamente illustra    queste  convergenti  finalità  di un provvedimento  motivato da precise  intenzioni di politica del diritto.Alla possibile cartolarizzazione di  flussi di  t.f.r.  che diventano "strumenti finanziari" nella  relazione al decreto 299  si guarda  infatti come ad un congegno capace  sia  di   accrescere le risorse patrimoniali  delle forme pensionistiche complementari, sia di incentivare l’ingresso dei fondi pensione  "nell’ambito degli investitori istituzionali" che operano quanto meno "in un’ottica di medio periodo". Ma allo stesso modo la relazione al decreto legislativo 299 segnala anche gli  altri possibili benefici di una "cartolarizzazione" di trattamenti di fine rapporto intesa   ad  assicurare agli aderenti al fondo pensione rendimenti finanziari superiori al tasso di rivalutazione del t.f.r.  in un regime di compatibilità con le necessità finanziarie  delle imprese "datore di lavoro". E infatti  si precisa che se l’acquisizione al fondo pensione di maggiori risorse di t.f.r. sottrae liquidità alla imprese "datore di lavoro" va tuttavia  considerato in che misura  il conferimento di quelle stesse risorse  alle medesime  imprese "sotto forma di capitali investiti" dal fondo pensione  in loro "strumenti finanziari" opera una loro consistente  compensazione nella forma di un autentico "ritorno  della liquidità" temporaneamente sottratta.

                                

 

 

 

                                      5.   Alle singole norme del decreto legislativo 299 in queste pagine non sarà possibile portare  la attenzione che  pure sarebbe necessaria. Tuttavia sarà quanto meno il caso di ricordare  che  la lettera  d) dell’art. 1 del decreto  indica  come possibili  operatori della progettata  cartolarizzazione dei flussi di trattamento di fine rapporto  anche i fondi pensione aperti regolando in modo espresso la relativa  fattispecie. A sostegno delle operazioni finanziarie di possibile   cartolarizzazione  delle quote di t.f.r. occorreva precostituire incentivi. E ad offrire incentivi  provvedono le disposizioni dell’art. 8 del decreto legislativo 299 che stabiliscono un regime fiscale  di favore. Occorreva infine considerare i fattori di rischio conseguenti alle operazioni finanziarie. E a tutela dei lavoratori interessati alla securitization delle loro posizioni di t.f.r. per il caso di insolvenza del datore di lavoro opera il Fondo di garanzia disciplinato dall’art. 2 della legge 297 del  29 maggio 1982  secondo quanto dispongono il quarto comma dell’art. 4 e il sesto comma dell’art. 5  del decreto legislativo. Ma si tratta di misure di incentivo e di  garanzie riferite ad un progetto di politica del diritto  che a tutt'oggi non ha trovato riscontro in iniziative operanti (essendo  poi molto improbabile  che ne possano esistere in futuro).

                                   In punto di tecnica normativa le disposizioni del decreto legislativo 299 prefigurano  operazioni di genere quanto mai lineare. Il "trattamento di fine rapporto" è debito dell’impresa "datore di lavoro" verso il lavoratore. E se esiste il necessario consenso del lavoratore  che è  creditore della prestazione di fine rapporto l’impresa estingue l’ obbligazione che la vede debitore versando quote di t.f.r. al fondo pensione che per l’importo corrispondente riceve titoli emessi dall’impresa. Ma come si preciserà questo vincolo di destinazione è grave punto di caduta della normativa del decreto legislativo 299. E  in ogni caso pur essendo tanto  lineare in punto di stretto diritto il suo congegno normativo all'atto pratico  risulta invece così complesso da disincentivare le iniziative di quanti fossero interessati  a possibili iniziative di cartolarizzazione. In questo senso è già molto indicativo  il caso delle  fonti istitutive di fondi pensione che nell’ambito di contratti e accordi collettivi anche aziendali  o di regolamenti aziendali prevedano per l’appunto l’attribuzione al fondo pensione  dell’"accantonamento annuale al t.f.r.".

                                    Disciplinando la possibile  "trasformazione in titoli" del conseguente flusso  di "trattamenti di fine rapporto", l’art. 2 del decreto 299  stabilisce  che  "a decorrere dall’anno 1999" e per i tre anni successivi "in alternativa" al versamento degli accantonamenti di t.f.r. il fondo pensione  può scegliere di ricevere "strumenti finanziari"  di "corrispondente valore". Anche nel caso che  il fondo pensione ritenga di avvalersi di questa opportunità  l’art. 2 del decreto tuttavia fa salva (come deve essere) la diversa preferenza dell’aderente al fondo.  La norma dispone infatti che alla trasformazione del t.f.r. in "titoli" occorre l’approvazione del lavoratore. E questo  impegna  le fonti istitutive del fondo pensione a determinare "la modalità e il termine di manifestazione" di un "consenso" che andrà comunque  espresso in "forma scritta e specifica".  Una volta conseguite le necessarie disponibilità  sarà poi necessario dar corso ad un procedimento  di non semplice praticabilità. La  disciplina del decreto  legislativo 299  regola distintamente diverse  possibili fattispecie di "trasformazione" del t.f.r. in strumenti finanziari che  in via breve sarà utile considerare.

                                    Una prima fattispecie riguarda   la impresa "datore di lavoro" che sia società emittente di strumenti finanziari quotati in mercati regolamentati. Altra fattispecie riguarda la impresa "datore di lavoro" che  sia  invece emittente "quotando", e perciò società non quotata che tuttavia "intende" presentare domanda di ammissione alla quotazione. E’ poi considerato  il caso del possibile investimento degli accantonamenti di  t.f.r. in strumenti "finanziari" nell’interesse dell’impresa "datore di lavoro"  emessi da "qualificato operatore finanziario". E’ infine considerato il caso residuale  che si configura quanto quote di  t.f.r. sono  versate al fondo pensione semplicemente "in contanti". Come già si diceva ne risulta un insieme normativo  di genere particolarmente complesso che a tutt'oggi non ha conseguito e non sembra poter conseguire  risultati di operatività. E in questo senso è già molto indicativa la disciplina stabilita per il caso  delle imprese "datore di lavoro" che sono società quotate.

                                   Per le società con azioni quotate  l’art. 3 del decreto legislativo 299 prevede deliberazioni di aumento del capitale riservate ai fondi pensione "cui aderiscano dipendenti" della società quotata o di società del "gruppo" societario di appartenenza. Aumento di capitale che  con deliberazione del loro organo di amministrazione i fondi pensione chiusi possono sottoscrivere mediante il conferimento delle quote  di accantonamento di  t.f.r. a loro disposizione. Come si è avvertito all’operazione occorre il consenso dei lavoratori destinatari dei relativi importi. E occorre la approvazione delle imprese "gestore" del portafoglio mobiliare  del fondo pensione chiamate  perciò a valutare il  merito finanziario dell’operazione. Per il fondo pensione aperto è invece stabilito che alla  eventuale sottoscrizione dell’aumento di capitale  si provvede "previa delibera dell’organo di amministrazione" della società che  ha costituito il fondo pensione. Questa obbligata continuità tra  deliberazione della decisione di trasformare  flussi di trattamento di fine rapporto in "titoli" e  acquisizione al  portafoglio finanziario del fondo pensione  di titoli emessi dalla impresa "datore di lavoro" caratterizza anche il regime stabilito per il caso della società non quotata.

                                   Nel caso della società non quotata  l’art. 4 del decreto  prevede la emissione di un prestito obbligazionario. Ne sono  oggetto "obbligazioni convertibili in azioni"  espressamente riservate al fondo pensione "cui aderiscono lavoratori dipendenti dell’emittente" o di società del gruppo di appartenenza. E la norma  del decreto legislativo stabilisce che il regolamento del prestito  deve prevedere l’impegno della società emittente a richiedere la sua  ammissione a quotazione presso mercati regolamentati "entro il termine di due anni"  dalla sottoscrizione del prestito. Al fondo pensione deve essere assicurata "la facoltà di convertire le obbligazioni" in azioni della società "contestualmente" alla sua  ammissione a quotazione. Per l’eventualità di mancata ammissione  a quotazione delle indicate azioni  a tutela del fondo pensione  operano  alcune speciali  disposizioni di salvaguardia. Ancora più complessa (e difficilmente praticabile) la fattispecie di possibile  trasformazione delle quote di trattamento di fine rapporto  in strumenti finanziari  emessi da "qualificati operatori finanziari", e perciò da banche  o imprese assicurative o società di gestione del risparmio o  ancora altre imprese di intermediazione finanziaria. E al riguardo sarà il caso di leggere quanto dispone l’art. 5 del decreto. Ma  più interessa la disposizione dell’art. 6 che pure configura una ipotesi dalle norme del decreto considerata per così dire "residuale".

                                  Per le imprese "datore di lavoro" che non possano o non ritengano di provvedere con la emissione di strumenti finanziari si suggerisce un ricorso a  soggetti  "finanziatori delle imprese" che offrano  liquidità da conferire al fondo pensione in quantità commisurata  agli accantonamenti annuali del trattamento di fine rapporto. In alternativa alla possibile "cartolarizzazione"  e conseguente trasformazione in strumenti finanziari degli apporti di t.f.r.,  con le modalità e secondo il  regime  che si indicano nell’art. 6 del decreto  a favore del fondo pensione ne  risulta quindi  configurato un conferimento degli accantonamenti annuali di fine rapporto  senza vincolo di destinazione. Nell’ipotesi che si sta considerando il  fondo pensione riceve infatti quote di t.f.r.  nella forma del puro e semplice versamento del loro importo "in contanti". Ma la normativa del decreto 299 considera questa il possibile versamento "in contanti"  come fattispecie pur sempre residuale e al margine del suo progetto di politica del diritto, che appunto in questo ha il suo grave punto di caduta  perchè naturalmente la esclusione di qualsiasi regola di obbligata destinazione della liquidità che il fondo pensione riceve in conto di trattamenti di fine rapporto è cosa che molto giova alla sua gestione finanziaria. In questo senso sarà chiaro quale policy occorre invece attivare.

                                   Qualsiasi disposizione di vincolo del  portafoglio dei fondi pensione al possesso anche se temporaneo di taluni prestabiliti "strumenti finanziari" segna infatti un limite alla libertà di destinazione  e alla mobilità degli investimenti che con ogni evidenza sono assolutamente necessarie per garantire alla gestione del fondo pensione sia l' asset allocation che si ritenga preferibile sia la possibilità di tutte  variazioni dell’asset allocation volta a volta suggerite dagli andamenti di mercato. Da ciò motivate obiezioni a qualsiasi normativa che possa  legare il fondo pensione a possessi azionari o comunque a valori mobiliari necessariamente correlati all’impresa "datore di lavoro". E la obbligata conclusione che anche quanto alle risorse di t.f.r. se si giustificano  disposizioni del decreto legislativo 124 intese a garantire compatibilità tra investimento azionario e caratteri distintivi delle finalità esclusivamente previdenziali del  fondo pensione certamente non si possono giustificare prescrizioni ulteriori,una volta stabilito che come è chiaro  soltanto operando secondo pura e semplice logica di financial industry è pensabile di realizzare al meglio i dovuti incrementi della ricchezza pensionistica degli iscritti. In questo senso indicazioni di  rilievo si devono alle normative  di ordinamento del settore che sia pure in via breve si sono già segnalate.

 

 

                                    6.   Quando si sono considerate  le norme che valgono da disciplina di insieme dell' asset allocation  delle risorse finanziarie del fondo pensione si è osservato in che misura  nel loro contesto rilevano le diposizioni che regolano l'nvestimento in partecipazioni al capitale di rischio di società per azioni. Disposizioni che  se segnano invalicabili limiti di soglia alle grandezze del portafoglio azionario del fondo pensione al tempo stesso tuttavia consentono pur sempre di spingerlo a consistente dimensione. In questa prospettiva di analisi merita certamente attenzione già la lettera d del primo comma dell’art. 6 del decreto  legislativo, dove si disciplinano le possibili fattispecie di partecipazione al capitale di società immobiliari  in quantità  "anche superiore" ai limiti di cui al comma quinto, lettera a acquisite in via diretta per deliberazione degli amministratori del fondo pensione. Ma una volta di più la maggior attenzione si deve alla complessiva ratio legis  delle disposizioni del decreto legislativo, dove si stabilisce invece quali sono le norme di regime dell'investimento azionario che si operi per la via indiretta delle decisioni di investimento degli intermediari "gestore" del  patrimonio del fondo pensione,anche per questa parte del portafoglio previdenziale attivi sul  mercato degli strumenti finanziari nella loro posizione di agent che svolge il ruolo protagonista.

                                Ne emerge con chiarezza una precisa logica di sistema. Come si ricorderà complessiva ratio legis di quelle disposizioni è certamente la prevenzione del rischio di situazioni che possano determinare una pericolosa interferenza di altri interessi in valutazioni che devono essere compiute nell'esclusivo interesse previdenziale degli iscritti al fondo pensione. E allo stesso modo è ratio legis condivisa dalla intera serie di quelle disposizioni l'assunto che è cosa lontana dalla finalità  di una "forma pensionistica"  l’acquisizione di partecipazioni azionarie di grandezza  tale da  fare del fondo pensione un azionista  d comando o comunque  capace di influenza "dominante". La loro consistenza può  tuttavia essere tale da consentire di esercitare una influenza notevole. Da ciò la posizione  dell’investitore istituzionale "fondo pensione"  confermata dalle disposizioni del decreto ministeriale  del tesoro del novembre 1996. Il fondo pensione "azionista" è per definizione azionista di minoranza. Ma è pur sempre  azionista  qualificato dalla possibile consistenza della sua partecipazione societaria. E comunque particolarmente qualificato dalla rappresentatività sociale di fondi pensione  che sono  importante espressione del mondo del lavoro.

                              Saranno poi le "linee di indirizzo" della gestione finanziaria del singolo fondo pensione a prefigurare l’asset allocation che anche con riguardo alle partecipazioni azionarie le imprese "gestore" provvederanno a precisare e a rendere operativa.  In caso di gestione per così dire "passiva" il portafoglio azionario del fondo pensione sarà proporzionato alle grandezze indicate dal benchmark di riferimento. In caso di gestione "attiva" si daranno invece notevoli margini di flessibilità provvedendosi ad una stock selection aperta a tutte le variabili di investimento necessarie per provare a conseguire plusvalenze maggiori di quante ne possono derivare dalla ripetizione dell’asset allocation  indicata dal benchmark. A decidere degli investimenti delle risorse del fondo pensione anche in materia di investimenti azionari saranno comunque le imprese "gestore", con tutta la estensione di campo dei poteri di decisione che si sono già segnalati  quando si è avvertito che al riguardo  non esiste spazio per  direttive o interferenze  degli amministratori della forma pensionistica. Ma come si sa altro è invece il regime dei diritti conseguenti alla titolarità di partecipazioni azionarie.

                               Non diversamente da ogni altro azionista il fondo pensione deriva dalla partecipazione azionaria un insieme di diritti (e di obblighi) che configurano un particolare status socii che si deve attentamente considerare.  Ad ogni azionista (e perciò al fondo pensione) competono infatti diritti di genere patrimoniale come il diritto agli utili,diritti di genere amministrativo come il diritto al voto, diritti a carattere complesso al tempo stesso "amministrativi" e "patrimoniali" come il diritto di opzione in caso di un aumento di capitale. Va poi considerato che esistono diritti indifferenti alla consistenza della partecipazione azionaria (essendo ad esempio sufficiente anche una sola azione per il diritto di esame dei libri sociali), diritti invece proporzionati alla quantità delle azioni possedute (essendo ad esempio tale il diritto agli utili secondo la disciplina dell’art. 2433 del codice civile) e infine diritti che si possono esercitare soltanto se si è al possesso di un certo numero di azioni. Ne consegue uno status socii multiforme e ancora più complesso se si guarda alle norme del T.u.f.  che regolano le posizioni di portafoglio costituite da partecipazioni al capitale di società con azioni quotate in mercati regolamentati. E lo status socii dell’azionista "fondo pensione" è materia di problemi  in ampia misura ancora tutti da studiare.

                              Per fare soltanto un esempio, si pensi al tema della  possibile partecipazione dell’azionista "fondo pensione" ad accordi "parasociali" (dovendosi considerare in modo particolare la sua possibile partecipazione  ad  accordi che comportano "sindacati di voto"). Già le disposizioni del decreto legislativo 124 escludono tuttavia dall’ambito dei problemi aperti il regime della attribuzione  dei diritti di voto.La disciplina giuridica delle società di capitali di regola istituisce un immediato e diretto rapporto tra  rischio dell’investimento in partecipazioni azionarie e attribuzione della titolarità dei diritti di voto . E la disciplina delle partecipazioni azionarie del fondo pensione stabilita con la lettera c  del  quarto comma  bis dell’art. 6  del decreto legislativo 124  si uniforma alla regola generale , assegnando per l’appunto  al fondo pensione e non all'intermediario "gestore" del suo portafoglio finanziario  la titolarità dei diritti di voto. La disposizione del decreto  stabilisce infatti che le convenzioni di gestione delle risorse del fondo pensione devono "in ogni caso"  e sempre prevedere  l'"attribuzione" al fondo  pensione  della "titolarità" dei diritti di voto "inerenti ai valori mobiliari nei quali risultano investite le disponibilità del fondo medesimo". Ne consegue la posizione di grande rilievo che  al fondo pensione in via diretta si assegna quanto all’intera serie dei possibili temi di corporate governance. E un evidente incremento della rappresentatività e delle responsabilità degli amministratori delle forme pensionistiche complementari al riguardo dovendosi  poi considerare con particolare attenzione la possibile insorgenza  di situazioni di un agire in conflitto di interessi.

                                La  disciplina della "titolarità" dei diritti di voto espressa dal decreto legislativo 124 ha costituito da più parti  materia di ricorrenti obiezioni. Talvolta si è motivato il dissenso  osservando che non  sembra  né opportuno né razionale separare le decisioni di voto (che competono agli amministratori del fondo) dalle decisioni di investimento (che competono al gestore). E altra volta  in considerazione della composizione degli organi di amministrazione della forma pensionistica   si è espressa la preoccupazione che gli amministratori del fondo pensione possano esercitare il loro diritto di voto secondo una logica diversa da quella  dell’azionista interessato soltanto alla redditività dell’investimento  del suo portafoglio finanziario. Ma le norme che prescrivono i requisiti necessari per la designazione a componente degli organi di amministrazione sono per l’appunto norme di garanzia della  loro professionalità. E la formale separazione che si stabilisce tra "decisioni di investimento" e "decisioni di voto" non esclude la concertazione di orientamenti e le consultazioni che fossero ritenuti utili. L’indicazione normativa in ogni caso era univoca  e del tutto vincolante. Altri "diritti amministrativi" appartenenti allo status socii possono considerarsi disponibili (ed essere perciò diversamente regolati). Ma non il diritto all’esercizio dei diritti di voto.

                                 Alla univoca e vincolante disposizione del decreto legislativo si sono perciò senz’altro uniformate le discipline regolamentari che la Commissione di vigilanza  ha deliberato "di intesa" con le altre autorità di governo dell’economia finanziaria. E lo "schema tipo di contratti" che vale da modello per le convenzioni di gestione delle risorse del fondo pensione deliberato dalla Covip a gennaio del  1998 là dove enumera le sue disposizioni di principio avverte che ogni singola convenzione  impegnerà il gestore  a rilasciare agli amministratori del  fondo pensione la documentazione  necessaria per l’esercizio dei diritti di voto. La disciplina di statuto della forma pensionistica preciserà poi  secondo criterio di self regulation le modalità operative dell’esercizio del diritto, regolando ancor prima le modalità della delega al voto conferita al presidente dell'organo amministrativo. Ma è possibile provvedere anche con delega  conferita ad altro dei suoi componenti. E va al tempo stesso attentamente considerata la ancor maggiore estensione dello  spazio aperto alle libere determinazioni del singolo fondo pensione. Dalle normative regolamentari della Covip non è infatti  escluso né era ragionevole escludere  che il fondo pensione possa invece conferire al gestore "la rappresentanza (…) per l’esercizio del diritto".

                               La convenzione gestoria  in tal caso deve tuttavia  espressamente  stabilire che per poter esercitare il diritto di voto "inerente ai valori mobiliari oggetto della gestione" in rappresentanza del fondo pensione  l'impresa "gestore" dovrà ricevere "procura" rilasciata "per iscritto" e per ogni  singola  assemblea della società partecipata. Ma vi è di più perché  il gestore così legittimato all’esercizio del diritto  dovrà  comunque conformare le sue dichiarazioni di voto alle istruzioni "impartite" dal fondo pensione. E sono indicazioni di voto che la Commissione di vigilanza  ha dichiarato di intendere come istruzioni  vincolanti. Qualora non ritenga  di provvedere in via diretta all’esercizio dei diritti di voto (e non ritenga che la cosa migliore da fare sia conferire incarico  all’impresa  "gestore") il fondo pensione naturalmente potrebbe poi comunque avvalersi  della ordinaria disciplina delle norme del codice civile  che in linea generale regolano la materia del conferimento delle relative attribuzioni a "terzi" (ma diversi dall’impresa "gestore"). Va infine considerato il caso del trasferimento delle risorse del fondo pensione nella "titolarità" del gestore secondo la previsione del quarto comma quater  dell’art. 6 del decreto legislativo.

                                  In tal caso la convenzione disporrà infatti che "il gestore si impegna a rilasciare" al fondo pensione "delega" per l’esercizio del diritto di voto. Ma "le parti possono concordare che il gestore eserciti direttamente il diritto di voto sulla base di istruzioni vincolanti (…) impartite dal fondo". Complessi e numerosi (e a tutt'oggi molto discussi) problemi  si pongono  poi nel caso della forma pensionistica "a prestazione definita"  che come si sa  per disposizione del terzo comma  dell'art. 6 obbligatoriamente comporta "apposite convenzioni con imprese assicurative". Ne risulta configurata una "forma previdenziale" che a veder bene non attiva gestioni finanziarie per conto e a rischio del fondo pensione ma garanzia assicurativa del risultato costituito appunto  dalla entità della prestazione previdenziale già all'origine "definita". E non sarà necessario ripetere gli argomenti già svolti altrove per dimostrare che in tale fattispecie non si applica la disposizione della lettera c del comma quarto bis dell’art. 6  del decreto legislativo, dovendosi invece ritenere che la titolarità delle partecipazioni azionarie e perciò anche i relativi diritti di voto appartengono all’impresa assicurativa e non al fondo pensione.

                               

 

 

 

                                7. Sarà  poi chiaro che quando invece il fondo pensione per il suo status socii si trovi ad essere titolare di diritti di voto è  dovere degli amministratori provvedere all’esercizio di questa prerogativa offrendo voce al collettivo interesse degli iscritti alla forma pensionistica. E in materia di voice  dell’investitore istituzionale "fondo pensione" non occorre aggiungere molto a quanto da più parti si è già ampiamente osservato guardando anche  alla posizione di mercato  e alle responsabilità di altri investitori istituzionali. Se ha in portafoglio "azioni" (e "diritti di acquisto di azioni" o ancora obbligazioni convertibili in azioni), l’investore istituzionale  "fondo pensione" che amministra un portafoglio  finanziario nell’interesse e per conto di una collettività di risparmiatori deve necessariamente organizzare in modo razionale la sua strategia di mercato. E parte importante naturalmente ne sono sia lo strumento della voice che comporta esercizio dei diritti di voto sia  il ricorso all’exit costituito dalla dismissione della partecipazione azionaria. Ma ricorrenti discussioni (riferite in modo particolare alla posizione dell’ azionista  fondo comune di investimento) talvolta segnalano notevoli divergenze di orientamenti quanto alle regole dell’agire degli investitori istituzionali. Secondo una opinione talvolta fortemente sostenuta l’esercizio dei diritti di voto  dovrebbe considerarsi prerogativa marginale se non estranea al modo di operare dell’investitore istituzionale.

                                    La  sua gestione del portafoglio finanziario dovrebbe infatti  circoscriversi  alle operazioni di acquisto  di  partecipazioni azionarie verosimilmente capaci di adeguato rendimento e alla dismissione  di quante invece si ritengono scarsamente remunerative. E certamente è vero che quando la gestione  della società partecipata risulti inefficiente o comunque lontana dalle aspettative dell’investitore istituzionale "azionista", la dismissione della partecipazione azionaria molto spesso non ha alternative razionali. In situazioni di questo genere l’opzione exit diventa perciò via obbligata  nell’interesse stesso del portafoglio  amministrato. Ma naturalmente curare questo interesse significa al tempo stesso esercitare i diritti di voto conseguenti alla titolarità dei valori azionari  che per intanto sono  presenti nel portafoglio finanziario che si amministra. E' perciò decisamente più persuasiva l'opinione di quanti  segnalano tutto il rilievo della partecipazione alle deliberazioni  dell’assemblea dei soci, considerandosi l’esercizio dei diritti amministrativi e   l’opzione voice parte importante delle funzioni che competono all’investitore  istituzionale. E a proposito di voice ed exit  quanto al fondo pensione non è  davvero difficile fare chiarezza, essendo certamente da respingere la tesi di quanti hanno espresso l’avviso che il fondo pensione dovrebbe scegliere la linea della astensione dall’esercizio dei suoi diritti di voto.

                              Se è vero che nel caso del fondo pensione decisioni di investimento azionario e decisioni di exit  competono in via esclusiva all’impresa "gestore"  delle sue risorse, il potere di voice  che la disciplina del decreto legislativo conferisce in via altrettanto esclusiva agli amministratori della forma pensionistica presenta caratteri di evidente significatività, dovendosi segnalare tutta la evidente  gravità dei possibili casi di un  voto espresso da amministratori che operano in conflitto di interessi con  il fondo pensione amministrato. Un corretto esercizio dei diritti di voto sarà atto di amministrazione della forma pensionistica quanto mai rilevante in un grande numero di casi. A veder bene la opzione voice  già si fa ampiamente preferire  tutte le volte che la dismissione della partecipazione azionaria  risulti essere   soluzione non proporzionata  al grado di dissenso dalla gestione societaria .Si devono poi considerare le  situazioni di portafoglio tali che alla dismissione della partecipazione azionaria  non si potrebbe pervenire senza  dover segnare al passivo notevoli minusvalenze di portafoglio.

                               Ma valgono anche considerazioni di ordine più generale dovendosi considerare  in che misura il fattore voice   deve la sua particolare incidenza  alle speciali  connotazioni dell’investitore istituzionale "fondo pensione". E non sarà davvero  il caso di aggiungere molto alle considerazioni già svolte sulla sua posizione di investitore "paziente" che anche in materia azionaria guarda lontano. Anche quanto all’investimento in azioni (e in diritti di acquisto di azioni) l’investitore istituzionale "fondo pensione" non è  operatore finanziario del breve periodo. In ogni caso non è operatore che possa ragionevolmente costruire il suo portafoglio di partecipazioni societarie su ipotesi di genere speculativo. E per un investitore che non operi secondo logica di short termism con intento speculativo, naturalmente è sempre importante interpretare in senso forte il ruolo dell’azionista attivo che è presente in assemblea, esercita diritti di voto e si fa sentire ogni volta che la discussione riguarda deliberazioni assembleari di consistente rilievo. Ancora una volta più che le riflessioni nell’astratto delle teorie tuttavia interessano le indicazioni offerte dall’esperienza dei paesi dove i fondi pensione costituiscono ormai una consolidata realtà.

                                 E  l’esperienza dei paesi più evoluti insegna che se un ampio ricorso ai poteri di voice  caratterizza la presenza di mercato dell’investitore istituzionale "fondo comune di investimento", tanto maggiore è  lo shareholder activism  dei fondi pensione per la particolare configurazione  del suo portafoglio azionario. Se l’investitore "fondo comune" può operare secondo modalità di continua movimentazione del suo portafoglio azionario, l’operatore "fondo pensione" istituzionalmente interessato al lungo e lunghissimo periodo progetta invece investimenti  intesi a conservare nel tempo  le sue partecipazioni societarie, essendo perciò molto  più motivato  ad un continuo monitoring delle imprese partecipate che si esercita appunto mediante una interpretazione in senso forte del ruolo dell’azionista che interviene e vota .E  in altra ma non lontana  prospettiva di  analisi merita attenzione l’ esperienza nord-americana  del Council of Institutional Investors, la associazione di oltre cento fondi pensione che periodicamente provvede ad elaborare graduatorie e classifiche di performance delle società azionarie, provvedendo così ad un autentico "monitoraggio" di qualità e di efficienza gestionale ormai  esteso all’intero sistema delle imprese  da valutare per le possibili strategie di investimento di risparmio con finalità previdenziale.

                                Sono ancora le indicazioni offerte dalle esperienze già maturate altrove a confermare che  lo shareholder activism  molto spesso influisce in misura determinante sull’assetto proprietario e su decisivi orientamenti di gestione delle società azionarie fortemente partecipate da fondi pensione. E in  più di un caso l’ingresso di fondi pensione nel capitale di rischio di società azionarie ha avviato processi che nel lungo periodo dovevano sostituire al modello dell’impresa governata da un gruppo di azionisti di comando una organizzazione societaria sul modello delle public companies ad azionariato diffuso dove investitori istituzionali e fondi pensione finiscono per svolgere molto consistenti funzioni di corporate governance. Le esperienze già maturate altrove confermano infine una prevalente tendenza a consegnare parti molto consistenti del portafoglio finanziario dei fondi pensione all’investimento in azioni  e in diritti all’acquisto di azioni opportunamente ripartito su di un consistente numero di mercati. E si tratta di una tendenza  che ha motivazioni razionali.

                               Perché se si guarda ad una prospettiva temporale così ampia da essere davvero rappresentativa la storia  dei mercati finanziari sembra dimostrare che l'investimento azionario consegue risultati di segno positivo notevolmente più elevati di qualsiasi possibile alternativa di investimento. Ma naturalmente va anche considerato che la lunghezza del periodo tuttavia non azzera  il rischio  di  perdite consistenti del portafoglio azionario, per l’iscritto al fondo pensione tanto più  gravi in sempre possibili situazioni di pericolosa contestualità tra crisi di mercato e tempo di determinazione della grandezza della prestazione pensionistica complementare che si deve ricevere. Per valutazioni di questo genere  sarà bene lasciare la parola agli studiosi di economia finanziaria.  Va tuttavia almeno ricordato che sono appunto autorevoli studiosi di economia finanziaria ad indicare nell’investimento azionario il principale motivo di preferenza per sistemi pensionistici e  per forme di previdenza complementare private e "a capitalizzazione".

                                  In un sistema pensionistico a ripartizione il rendimento della posizione pensionistica è pari al tasso di crescita del "monte retributivo". E’ perciò pari alla somma dei tassi di aumento della popolazione lavorativa e della retribuzione media dei lavoratori. Somma che corrisponde al tasso di crescita del prodotto nazionale. In un sistema pensionistico a capitalizzazione il rendimento di una posizione pensionistica corrisponde invece ai rendimenti del portafoglio finanziario nel quale risulti investita la ricchezza pensionistica dei suoi destinatari. E una  autorevole scuola di pensiero ritiene di poter sostenere che a lungo andare il tasso di rendimento della ricchezza pensionistica investita sul mercato finanziario è decisamente più elevato del tasso di crescita della "massa retributiva" di un sistema paese. Se ne deriva  la ritenuta preferibilità dei sistemi pensionistici a capitalizzazione  che si indicano come quelli meglio capaci di incrementare il rendimento delle posizioni previdenziali appunto per lo spazio aperto ad investimenti azionari. Sempre che (sarà bene ripetere) si tratti di sistemi regolati da norme  che non stabiliscano immotivati vincoli alla libertà di destinazione delle risorse del fondo pensione e di movimentazione  del suo portafoglio finanziario.

 

 

                       (*) Derivate  da una più ampia trattazione dell'argomento già svolta altrove, queste pagine sono la trascrizione dell'intervento di apertura di un "incontro di studio" che si è organizzato a marzo del 2001.

 

 

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