La responsabilità civile per lo svolgimento
di attività pericolose
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di Pier Giuseppe Monateri (*)

Le pagine che seguono sono parte dei un capitolo del secondo tomo di "Illecito e responsabilità civile", volume destinato al Trattato di diritto prvato dell'editore Giappichelli.

 

Sommario: 1. La natura della responsabilità ex art. 2050 c.c. – 2. L’ambito dell’art. 2050 c.c. – 3. La nozione di attività pericolosa. – 4. La casistica giurisprudenziale. – 5. L’azione ex art. 2050 c.c. – 6. Il nesso causale e la prova liberatoria.

1.   La natura della responsabilità ex art. 2050 c.c.

La disciplina voluta dal legislatore del 1942 con l’art. 2050 c.c. ha un significato peculiare [1]: sottrarre alla regola generale dell’art. 2043 c.c. il fenomeno delle attività pericolose [2]. Questo significato domina il senso che le si deve attribuire. La norma riguarda, dunque, attività che sono destinate a generare danni con un grado di probabilità particolarmente alto, ma che non possono che venire considerate lecite, in virtù della loro utilità sociale [3]. La giurisprudenza mette l’accento sulla necessità che, comunque, fin dall’origine, siano adottate le cautele opportune a garantire il più possibile l’integrità personale dei collaboratori e dei terzi [4]. La dottrina discetta sulla natura della responsabilità introdotta dall’art. 2050.

Il Guardasigilli svolse una Relazione [5] tesa a rappresentare l’art. 2050 c.c. come una soluzione intermedia tra i due modelli della responsabilità per colpa e delle responsabilità oggettiva. Questa sua posizione di equilibrio non ha mancato di riflettersi nelle massime della giurisprudenza [6]. La rilevanza dell’elemento soggettivo apparirebbe dalla previsione di una prova liberatoria imperniata sul comportamento dell’esercente. Lo schema oggettivo risulterebbe peraltro dallo stesso regime rigoroso della prova. In effetti la locuzione «se non prova di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno» è lessicalmente compatibile tanto col modello dell’assunzione di uno standard di due care, quanto con quello dell’imposizione di una strict liability. Senonché, al di là delle formule verbali, è giocoforza dover scegliere a quale modello fare riferimento [7].

I primi precedenti della Cassazione, dopo l’entrata in vigore del codice del ’42, hanno imboccato decisamente la strada della responsabilità per colpa, sostenendo [8] che il legislatore avrebbe inteso escludere il ricorso ad un criterio di imputazione oggettivo della responsabilità, che di per sé scoraggerebbe le iniziative economiche private [9]. Una dottrina poco incline alle innovazioni ha sottolineato che l’unica differenza con l’art. 2043 consisterebbe nell’inversione dell’onere della prova, unico elemento introdotto dal legislatore a maggior garanzia della vittima [10]. Le formule basate sulla presunzione di colpa hanno continuato ad accompagnare le enunciazioni della Cassazione, anche quando, la stessa [11] riconosce che, quando si verifica un danno in concreto, la prova del danno lascia supporre che vi sia stata un’omissione colpevole di cautele opportune e doverose.

È stato, però, facile indicare come i giudici prescindano in realtà da qualsiasi valutazione del comportamento del danneggiante, sotto il profilo soggettivo [12]: il che avviene appunto quando: 1) l’esistenza del danno viene considerata per se stessa una prova evidente di negligenza o incuria dell’esercente; 2) l’attribuzione della responsabilità avviene in base ad un giudizio di causalità materiale.

Questa discussione non può stupire se si considera che tra criterio della colpevolezza e responsabilità oggettiva esiste in realtà un continuum e non uno spartiacque netto [13].

Approfittando di tale continuum la dottrina si è però lanciata nei virtuosismi più eleganti. Non è così mancato chi abbia intravisto nell’art. 2050 una norma fondata sulla culpa laevissima [14]. Questa teorica, nella sua versione più raffinata [15], ha raccolto anche il plauso della giurisprudenza [16]. Secondo tale impostazione esisterebbe una differenza essenziale tra il criterio di colpevolezza enunciato dall’art. 2043, ed il grado di diligenza richiesto dall’art. 2050. Tale grado di diligenza sarebbe ricavabile dal contenuto della prova liberatoria, giacché il legislatore non avrebbe richiesto al convenuto di dimostrare di aver predisposto «cautele atte ad evitare il danno», ma di aver adottato «tutte le misure idonee» ad evitarlo. Si tratterebbe quindi dell’inasprimento del normale obbligo di diligenza [17]. Tutto ciò viene tradotto in gergo dicendo che l’esercente dovrà rapportarsi non al comportamento di un individuo di normale prudenza, ma a quello di un soggetto spiccatamente meticoloso ed esperto [18]. Una tale impostazione ha ricevuto critiche varie. Alcune apertamente inconsistenti. Altre fondate. Tra quelle inconsistenti si rammenti il ragionamento per cui Forchielli e Geri [19] ritengono il parametro del buon padre di famiglia sufficientemente elastico da coprire anche l’ipotesi della responsabilità ex art. 2050 c.c.: il buon padre di famiglia sarebbe, infatti, un individuo sufficientemente accorto da prestare, in esecuzione di un’attività pericolosa, una attenzione peculiare onde scongiurare i possibili danni. Naturalmente non si tratta qui che di un semplice truismo [20]. Ci si chiede infatti che interesse possa rivestire per il giurista un criterio così ampio da far sembrare identiche le responsabilità del mandatario a titolo gratuito (che risponde solo per una grossolana divergenza dalle regole di diligenza standard) e quella del gestore di attività pericolose (che risponde a termini dell’art. 2050).

In contrappunto con le tendenze ora citate si è naturalmente sviluppato il filone di coloro che considerano l’art. 2050 come un’ipotesi netta di responsabilità oggettiva. Tale filone fa perno su due punti essenziali. La condotta dell’esercente l’attività pericolosa costituisce un semplice antecedente dell’evento dannoso, che gli viene ascritto indipendentemente da ogni riguardo per le sue condizioni psico-fisiche, talché l’esercente è chiamato a rispondere del danno ancorché minore o incapace naturale [21]. Inoltre il contenuto della prova liberatoria esula dalla dimostrazione di una assenza di colpa. L’esercente deve dimostrare l’esistenza di una organizzazione preventiva in cui siano presenti tutti gli accorgimenti tecnici idonei ad evitare il danno [22]. Parlare in questi casi di dovere di diligenza nel senso del principio di colpevolezza non fa che confondere le acque. Ovviamente chi deve predisporre una organizzazione preventiva, idonea ad evitare il danno, è soggetto a doveri di diligenza, ma alla valutazione giudiziale della sua condotta non si applica il reasonable man standard, il parametro del pater diligens, per ciò l’insieme di doveri che su di lui incombono non sono rapportabili all’operatività del principio di colpevolezza. Vi sarebbe, perciò, una differenza essenziale tra i due punti di vista: la mancata adozione di misure precauzionali non consiste nella violazione di un dovere di condotta (nel senso della colpevolezza), tutte le volte in cui il rischio del danno è relativamente scarso, e l’adozione di ulteriori accorgimenti si presenta come eccessivamente costoso [23]. Insomma, se il principio di colpevolezza deve avere un qualche contenuto empirico identificabile, allora si deve ammettere che in certi casi l’esercente risponde del danno anche se supererebbe il vaglio del principio di colpevolezza [24]. All’esercente si può muovere un rimprovero nel senso del diritto (ex art. 2050), ma questo rimprovero non discende dal principio di colpevolezza; egli cioè non è rimproverato perché è colpevole, ma perché non ha prevenuto il danno.

Come sempre, e come abbiamo più volte indicato, nonostante la difficoltà della vecchia dottrina a comprendere il punto, responsabilità oggettiva non può significare responsabilità assoluta. La responsabilità che grava sull’esercente dovrà quindi essere una responsabilità per rischio oggettivamente evitabile [25].

La norma in esame non si estende alla problematica degli infortuni sul lavoro. Si tratta di una norma diretta alla protezione dei soggetti estranei allo svolgimento dell’attività stessa [26].

2.   L’ambito dell’art. 2050 c.c.

Date le guidelines prima delineate vediamo di addentrarci nel dibattito sui rapporti tra l’art. 2050 e le altre norme di responsabilità.

Nonostante la sua collocazione, antecedente gli artt. 2051-2054, gli autori non ritengono che l’art. 2050 esprima criteri generali che trovano applicazione negli articoli seguenti: l’elemento del pericolo sarebbe il proprium della norma, che si porrebbe, quindi, come figura coordinata e collaterale rispetto alle altre figure delineate dagli articoli seguenti [27]. Taluni vi hanno visto una figura residuale applicabile quando il connotato della pericolosità non sia riconducibile alla sfera di applicazione delle altre norme citate [28].

I principali problemi di coordinamento si riferiscono all’art. 2051 in riferimento alla responsabilità da cose in custodia.

Si vuole tracciare una distinzione tra le due fattispecie in relazione all’aspetto dinamico o statico del prodursi del danno rispetto alla cosa. L’art. 2050 sarà applicabile se il danno deriva da un processo cinematico, in cui l’energia dell’uomo si esplica in una serie di azioni che hanno a che fare con l’utilizzo della cosa. Invece si applicherà l’art. 2051 quando il danno viene cagionato da cose pericolose non azionate dall’uomo, anche se le stesse si inseriscono nell’ambito di una attività pericolosa [29]. Una teoria più restrittiva escluderebbe l’applicazione dell’art. 2050 tutte le volte in cui la cosa, pur azionata dall’uomo, scarichi la propria energia distruttiva in una direzione, o in una misura, diversa da quella determinabile ex ante dal controllo umano [30].

Come si vede il linguaggio si fa inutilmente ingarbugliato e animistico. A me sembra che in modo piano si possa dire che l’art. 2050 scatta quando la cosa è azionata dall’esercente l’attività pericolosa, mentre diversamente si applica l’art. 2051.

Dal canto suo la giurisprudenza ha creato un ircocervo dalle due disposizioni, forgiando la categoria delle cose pericolose e riportandola nella sfera di applicazione dell’art. 2051. La casistica aiuta a capire di cosa si tratti: danni provocati da cancello meccanico di un garage [31]; annegamento in uno specchio lacustre con fondale reso scivoloso dallo scarico di terriccio [32]; caduta nella fossa utilizzata per riparare le vetture [33]. Come si vede si tratta di casi in cui il danno non deriva direttamente né dall’attività dell’esercente, né dalla cosa lasciata indisturbata, ma dall’uso che della cosa pericolosa viene fatto da un terzo, che incappa nelle sue insidie: cade nella fossa, annega nel laghetto, si fa ferire dal cancello meccanico. Tale doctrine non è però sempre rispettata dai giudici, per cui ecco che si trova applicato l’art. 2050 alla caduta nella fossa di calce viva mal custodita [34], in una cisterna [35], in una buca collocata in uno scantinato [36]. Sempre l’art. 2050 viene applicato in caso di bomba rimasta inesplosa [37].

La nozione di attività o cose pericolose è stata recentemente approfondita in Angelici c. C. Terni [38] escludendosi che la tromba delle scale sia una res periculosa, e che l’attività di controllo di essa sia a sua volta rientrante nella previsione dell’art. 2050 c.c. La Suprema Corte ha infatti stabilito che sono pericolose quelle attività qualificate tali dalla legge di pubblica sicurezza o da altre norme speciali, e quelle in cui la pericolosità sia insita nei mezzi impiegati, ovvero nella loro stessa natura, ma non quelle in cui la pericolosità insorga per errori e colpe nell’uso di esse. Si mediti sul fatto che si trattava del caso di un minore imprudente che, arrampicatosi sulla ringhiera delle scale, si era sporto all’esterno sbilanciandosi e cadendo nel vuoto. Ovviamente la Suprema Corte ha respinto anche la pretesa fondata sull’art. 2051 c.c., ricordando che tale responsabilità può venire in gioco (secondo il consueto linguaggio animistico che alligna in tali decisioni) solo quando i danni siano cagionati dalla cosa medesima, per la sua intrinseca natura e per l’insorgenza in essa di agenti dannosi, ma non per i danni dovuti da comportamenti dolosi e colposi di chi detenga la cosa. A proposito del danno cagionato da un cancello azionato elettricamente, in Soc. Peget it. c. Vescia [39] la Suprema Corte ha chiarito che la responsabilità ex art. 2051 c.c. postula un inidoneo controllo, e un improprio governo della cosa, da parte di chi ha l’obbligo di controllarla (si confronti tale decisione con quella immediatamente precedente), e che tale responsabilità si differenzia da quella ex art. 2050 c.c., dacché quest’ultima postula una successione continua e ripetuta nel tempo di atti che rivelino, una potenzialità dannosa superiore al normale, e rilevabile ex ante.

Mi sembra quindi che la giurisprudenza si stia avvitando in una serie di ragionamenti non sempre lineari. In base alla doctrine delle cose pericolose queste ultime verrebbero disciplinate in modo meno rigoroso di quelle non pericolose, giacché la prova liberatoria richiesta dall’art. 2050 sarebbe meno gravosa di quella prevista dall’art. 2051 [40]. Credo quindi che la doctrine vada abbandonata [41], e si debba ritornare ad una lettura più piana dell’art. 2050. Chi esercita un’attività pericolosa può anche essere considerato custode di certe cose. Chi esercita l’attività edile è anche custode delle buche di calce viva. Se il terzo viene colpito da un mattone in caduta libera si applicherà l’art. 2050. Se il terzo cade nella buca si applicherà l’art. 2051. L’esercente del garage può far eseguire dei lavori di ristrutturazione, e allora (lui o il «suo» appaltatore) risponderà ex art. 2050, ma è anche custode del cancello automatico rispetto al quale risponderà ex art. 2051.

Ciò non equivale affatto a sostenere che possa esservi un concorso delle due norme, ma piuttosto che le due norme scorrono parallele, e che non si da l’ipotesi di una responsabilità da cose pericolose, ma una da attività pericolose, e l’altra da cose (tutte) in custodia.

Perciò mi sembrano da condannare quelle decisioni che fanno applicazione contemporanea delle due norme richiedendo al convenuto di fornire entrambe le prove liberatorie. Tali ad esempio le decisioni che hanno applicato le due norme all’incendio cagionato dallo scarico dalla nave di materiali infiammabili, o al danno cagionato da una betoniera utilizzata in un lavoro edile [42], o ancora al danno cagionato dalla rottura dei cavi ad alta tensione provocata da un temporale [43]. In questi casi il danno è cagionato dall’attività: di scarico di materiale infiammabile, dall’utilizzo della betoniera per costruire, dalla gestione dei cavi ad alta tensione, non dalla cosa. Diverso sarebbe il caso della betoniera lasciata incustodita dopo l’orario di lavoro in mezzo ad una strada, o del materiale infiammabile depositato incautamente presso il campeggio di giovani scouts [44].

Diverso problema pone il coordinamento con la disciplina voluta dall’art. 2054 a proposito della circolazione dei veicoli. Che le due norme siano collegate fu già detto nella Relazione al codice civile [45]. Gli interpreti si sono domandati se l’art. 2050 poteva essere applicato a quei danni che, pur derivando dalla circolazione dei veicoli, non ricadono nell’ambito dell’art. 2054: pregiudizi cagionati da veicoli su guida di rotaie, lesioni subite nel trasporto di cortesia. La giurisprudenza lo ha negato: le due norme sono (come già dicevamo per l’art. 2050 e l’art. 2051) parallele e mutuamente esclusive: tutto ciò che riguarda i veicoli è disciplinato dall’art. 2054, e quindi l’art. 2050 non può trovare applicazione [46]. Ciò che non rientra nell’art. 2054 rientra semmai nell’art. 2043.

Una tale posizione è poco giustificata di fronte alle tramvie. Infatti in modo un po’ discutibile la Corte Suprema ha sempre enunciato che i tram non sono pericolosi: in loro la pericolosità insorge solo ove intervengano errori o colpe da parte dei preposti o degli utenti o dei terzi [47]. L’affermazione, come ognuno può facilmente capire, è risibile per più motivi. L’attività di esercizio di tramvie è rischiosa dal punto di vista statistico, cioè dal punto di vista dei criteri enunciati dalla stessa Corte Suprema per individuare le attività pericolose. Dunque i tram andrebbero assoggettati all’art. 2050. Nella specie non rileva l’argomento delle «responsabilità parallele», perché il testo letterale dell’art. 2054 esclude appunto i tram dalla sua applicabilità. Non è quindi necessario farli rientrare nell’art. 2043 [48]: esclusi dall’art. 2054, ma pericolosi essi rientrano nell’art. 2050 come le gru, le armi, i veleni [49].

Per quanto concerne le ferrovie il legislatore speciale le ha espressamente sottratte al codice [50], ma la Suprema corte in Giacconi e Vigili c. Ditta Madonna e Ferrovie dello Stato [51] ha affermato come «in ipotesi di responsabilità extracontrattuale addebitabile all’azienda delle ferrovie possa in line adi principio trovare applicazione il paradigma normativo di cui all’art. 2050 c.c.». Ancora in tempi recenti la Cassazione in Ruotolo c. Azienda Autonoma FF.SS. [52], affermando che l’attività svolta dall’amministrazione ferroviaria non è pericolosa per dettato normativo, ma può diventarlo riguardo a specifici settori del suo svolgimento, non ha escluso in radice la disciplina di cui all’art. 2050 c.c. al settore in esame, pur non ravvisandola nel caso concreto, in cui l’attore aveva allegato che, mentre transitava su una banchina di una stazione, era scivolato su del materiale liquido finendo sui binari e venendo investito da un treno in movimento. La Cassazione, infatti, ha osservato che, come risultava dalla stessa prospettazione dell’attore, l’incidente non si era verificato per la natura del servizio o per le caratteristiche dei mezzi adottatati (nel qual caso sarebbe stata applicabile la norma in questione), bensì per le modalità asseritamene negligenti del loro impiego, e pertanto lo schema di responsabilità in cui andava inquadrata la fattispecie era quello generale di cui all’art. 2043 c.c. La Suprema corte sarebbe forse giunta a diversa soluzione, se l’incidente si fosse verificato per la particolare conformazione della banchina [53].

3.   La nozione di attività pericolosa

Il primo compito dell’interprete è quello di definire la nozione di attività pericolosa.

La norma parla di esercizio e svolgimento di tale attività. Sembra quindi ovvio desumere che la norma riguarda attività destinate ad esplicarsi attraverso una serie continua e coordinata di atti. Insomma attività continuative ed organizzate [54], cioè – almeno prevalentemente – attività di impresa, mentre restano esclusi gli atti pericolosi isolati [55]. La giurisprudenza prescinde in effetti dalla attività di impresa [56], ma non colpisce i singoli atti pericolosi, che rientrano piuttosto nelle ipotesi di imprudenza riconducibili nell’alveo dell’art. 2043.

Mi sembra, infatti, che si debba distinguere tra attività una tantum e atti isolati. Non necessariamente la norma dell’art. 2050 si riferisce ad attività d’impresa, e non necessariamente si riferisce ad attività che l’esercente debba condurre continuativamente. Ma necessariamente si riferisce ad una attività cioè ad una serie di atti. Entrare in un ristorante all’ora di punta e giocherellare con una pistola carica non è una attività pericolosa, ma un atto isolato di imprudenza. Esercitare armati il servizio di sorveglianza in una discoteca è un’attività pericolosa. Organizzare una tantum una gara di tiro al piattello, a favore dei curdi oppressi, non è un’attività d’impresa, ma è un’attività pericolosa. Recarsi a quella gara col vecchio archibugio del trisnonno bersagliere [57], mai tenuto in efficienza, non è un’attività pericolosa, ma un atto di imprudenza.

Ormai è pacifico che l’attività in questione non si restringe alle attività esercitate per fini di lucro o di utilità personale, che era la dizione aggiunta al testo della norma dalla vecchia giurisprudenza, per escludere le attività della p.a. dall’ambito di applicazione dell’art. 2050 [58]. La dottrina si era, infatti, schierata unitariamente a favore dell’imposizione della responsabilità ex art. 2050 c.c. alla p.a. Tale posizione è stata recepita dalla Suprema Corte nei confronti dell’Enel [59], ed anche, poi, anche dalle Corti di merito [60]. Inoltre in Ciacconi c. Ditta Madonna [61] si è ritenuta attività pericolosa la gestione, da parte delle ferrovie dello Stato, di una sottostazione elettrica dotata di sezionatori ad alta tensione, e si è ritenuto, rispetto a tale fattispecie, che la presunzione dell’art. 2050 c.c. può essere fatta valere anche nei confronti della p.a.

Le parole della legge «esercizio» e «svolgimento» hanno riempito di gioia gli interpreti permettendo loro di parlare di centralità dell’elemento dinamico [62], che rappresenterebbe l’elemento caratteristico della fattispecie [63]. Ci si chiede pertanto se l’attività del convenuto debba essere ancora in atto al momento del verificarsi dell’evento dannoso. Se si da risposta positiva allora occorre ricondurre all’art. 2043 le ipotesi di danno postumo da attività pericolosa ormai cessata. In questo modo ha, infatti, risposto la Cassazione non applicando l’art. 2050 alla specie di un crollo d’un muro di sostegno di una miniera abbandonata per scadenza della concessione, in un caso di danno derivante dalla presenza sul piano stradale di una colmata di scavo [64], ed in caso di furto perpetrato tramite l’ausilio di impalcature abbandonate [65]. Tali applicazioni del diritto non mi sembrerebbero corrette se non fossero accompagnate dalla doctrine della pericolosità incombente. Cioè, secondo l’insegnamento del Supremo Collegio, la norma dell’art. 2050 è applicabile quando, pur essendo l’attività pericolosa sospesa o cessata, le relative opere presentano una pericolosità incombente, in cui si sia trasfuso il pericolo insito nello svolgimento dell’attività stessa, onde le opere conservano una intrinseca potenzialità lesiva. Tale doctrine viene applicata soprattutto ai danni provocati dallo scoppio di bombole del gas [66], o, per analogia, di lumi a gas [67], o, ancora, in caso di deflagrazione di proiettili inesplosi [68]. Peraltro non è sembrato meritevole applicare tale doctrine ai prodotti pericolosi, per cui si è detto che quando le cose, in cui si trasfonde la pericolosità dell’attività, sono uscite dal luogo di produzione, l’esercente è responsabile solo se sussiste un «preciso rapporto causale» fra tale esercizio ed il danno lamentato [69].

Occorre, quindi, fare chiarezza. Abbiamo qui tre parametri delineati dalla giurisprudenza: l’art. 2050 si applica quando l’attività sia ancora in esercizio al momento del danno, a meno che si tratti di cose intrinsecamente pericolose, che non siano però uscite dal luogo di esercizio dell’attività. Così ricostruita la regola tracciata dai precedenti giurisprudenziali non fa senso, se non come insieme disparato di risposte a problemi diversi. A me sembra che oggi [70], per ragioni di specialità e coordinamento, l’art. 2050 non possa applicarsi alle fattispecie di danno da prodotti, ma anche che l’art. 2050 non possa applicarsi alle ipotesi che devono ricadere sotto l’art. 2051. Lo spazio residuo è quindi proprio quello dell’esercizio dell’attività pericolosa. Se il lume a petrolio esplode all’interno della fabbrica che lo produce si applicherà l’art. 2050; se esplode all’esterno per un difetto di produzione si darà applicazione alla direttiva; se esplode all’esterno per causa diversa dal difetto di produzione si darà ingresso alla responsabilità del custode [71]. Non mi sembra però che vi sia in alcuna norma il limite della necessità che l’attività sia ancora esercitata nel momento in cui si produce il danno. Un danno potrebbe infatti prodursi, a seguito di smaltimento di scorte radioattive, ben dopo che tale attività sia eventualmente cessata, e non vedo ragioni per non imputare il danno all’antico esercente [72].

Facendo palesemente confusione i giudici hanno dato ingresso alla nozione di omissione pericolosa [73]. Si tratta di un errore giustamente sottolineato dalla dottrina [74]. L’omissione di cautele doverose è, infatti, l’infrazione stessa dell’art. 2050 in quanto riconnettibile all’esercizio di una attività. L’omissione pericolosa evidentemente c’è sempre in tutti i casi di condanna da attività pericolosa [75], mentre non è pensabile che la norma dell’art. 2050 si rivolga a destinatari, che istituzionalmente decidano di non intervenire nelle faccende umane, quando vi siano dei pericoli. Una tale banda di pitagorici potrebbe essere responsabile ad altro titolo, ma non ex art. 2050.

Ma quando, dunque, l’attività può essere definita pericolosa?

Con formula classica si è detto che ogni attività è per se stessa idonea a cagionare danno ad altri: l’art. 2050 si applica quando la pericolosità rappresenta un dato tipico e immanente [76]. Pertanto la pericolosità deve consistere in una potenzialità lesiva di grado superiore al normale [77].

Sono qui possibili, allora, due criteri concorrenti [78]:

a) tenere conto della quantità di danni abitualmente cagionati dall’attività in questione;

b) tener conto anche della gravità dei pregiudizi minacciati [79].

L’attività sarà quindi pericolosa quando statisticamente cagiona molti incidenti, e quando minaccia di cagionarne di molto gravi [80].

Il 2050 ci parla della natura dell’attività e dei mezzi impiegati. Ovvio quindi considerare che i due criteri appena enunciati vadano applicati non solo alla prima, ma anche alla scelta dei secondi [81]. Così secondo il Supremo Collegio la rimozione di un pavimento non sarebbe pericolosa, ma lo è l’attuarlo per via di martellamento [82]. Anche l’attività didattica può, quindi, essere eseguita con «mezzi pericolosi», ad esempio in occasione di un esperimento di parallelismo della corrente [83]. A me sembra che il legislatore abbia semplicemente usato una endiadi [84].

È appena il caso di ricordare che il connotato della pericolosità varia col tempo: attività un tempo pericolose possono cessare di esserlo, mentre conseguenze dannose insospettate possono emergere da attività considerate in precedenza innocue [85]. Mi sembra naturale che si debba avere riguardo alle cognizioni dell’epoca in cui si è svolta l’attività, nel primo caso, e all’epoca in cui si è manifestato il danno nel secondo caso. Non avrebbe infatti senso escludere la responsabilità dell’esercente solo perché successivamente la tecnica ha reso più sicura la sua attività. Non avrebbe però neanche senso non ascrivere all’esercente le conseguenze negative che si sono manifestate successivamente, quando invece all’inizio la sua attività sembrava innocua [86]. Infatti la norma prescinde dalla colpevolezza, ed il criterio di riconoscimento della pericolosità si individua correttamente sulla base della statistica dei danni cagionati, statistica che può apparire chiara, appunto, solo dopo che i danni si sono manifestati [87].

La giurisprudenza adotta non solo uno standard generale, ma anche un test di pericolosità in relazione alle circostanze concrete in cui l’attività si è svolta. Così l’attività cinematografica diventa pericolosa se riguarda le riprese di una carica di cavalleria [88], l’installazione di una rete a bassa tensione se avviene in un deposito di materiali infiammabili [89]; lo smontaggio di un banco di vendita se effettuato in una strada ad intenso traffico pedonale [90]. Cioè l’attività diviene pericolosa quando in concreto è possibile che, date le circostanze di tempo e di luogo in cui viene effettuata, si realizzino molti incidenti, o se ne realizzino di molto gravi [91]. Occorre però prescindere dalla gravità di un singolo pregiudizio verificatosi in concreto: il singolo evento, infatti, può non rappresentare l’indice di rischio di cui una determinata attività è retaggio [92]. Conta piuttosto la potenzialità dannosa che appare connaturata all’attività nel suo complesso, riferibile a parametri stabiliti ex ante [93]. Queste formule sono ineccepibili, ma non sempre di facile applicazione. È giocoforza che la giurisprudenza operi talvolta un giudizio ex post basato proprio sulla gravità dell’evento dannoso che si è verificato [94]. Se il giudice non è abbastanza accorto nel motivare, queste sue valutazioni ex post potranno venire cassate: egli deve dire che la gravità del singolo evento si pone in qualche modo come dimostrazione concreta della astratta potenzialità dannosa dell’attività del convenuto.

Naturalmente la vittima che invoca l’art. 2050 deve dimostrare la pericolosità dell’attività del convenuto. Il suo accertamento è affidato all’apprezzamento sovrano del giudice di merito. La Cassazione controlla la logicità della motivazione [95], e, dunque, i parametri in base ai quali un’attività è giudicata pericolosa. In base a tale potere di controllo la Suprema Corte ha stabilito, appunto, che la potenzialità dannosa deve essere appurata secondo il criterio della normalità media, da desumersi da dati statistici ed elementi tecnici, ma giusta le nozioni di comune esperienza [96].

Quali sono, allora, gli indici da valutare?

Un primo criterio può sicuramente consistere nella previsione legislativa che una data attività sia sottoposta all’obbligo di adottare determinate misure precauzionali [97]. Un secondo indice può consistere dall’eventuale sottoposizione della attività alla potestà autorizzativa della p.a. [98]. Fin qui i parametri burocratici. Altri indici possono venire anche più giustamente desunti dagli indici di rischio definiti nelle tabelle assicurative [99], o dall’esistenza di tassi di premio notevolmente superiori alla media [100].

Il concetto mistico di attività può condurre a problemi pratici notevoli, e invogliare allora gli Autori a sbizzarrirsi nel distinguere un’attività complessa in un’attività principale, ed in singole sub-attività, o in varie attività complementari. In questo modo si dice che la valutazione della pericolosità deve svolgersi in modo distinto per ciascuno dei settori complementari o collegati, in ragione del grado di dannosità di ciascuno [101]. Perciò se l’attività accessoria non è pericolosa essa ricadrà nell’ambito dell’art. 2043, onde diventa un truismo quello per cui il carattere di pericolosità non si trasmette dalla principale all’accessoria, ove questa attività non lo sia per sua natura [102]. Ci si è voluti discostare [103] da questo insegnamento per sostenere l’idea primitiva per cui la pericolosità dell’attività principale contagia anche le attività complementari, onde un deposito di tronchi diventa pericoloso se annesso ad una segheria elettrica. Questo orientamento primitivo non va condiviso.

In conclusione: per alcune attività ci si può riferire ad un criterio burocratico [104], altre sono definibili tali per la loro intrinseca natura, o quella dei mezzi impiegati [105].

Naturalmente la norma dell’art. 2050 è una norma eccezionale, che dovrebbe essere di stretta interpretazione [106], ma questo rilievo ha scarso contenuto rispetto ad una locuzione tendenzialmente indefinita come quella di attività pericolosa. Il vero problema è sapere se, quando il manto dell’art. 2050 si ritira, lascia spazio all’art. 2043 o all’art. 2051. Se quelli che abbiamo fin qui discusso sono i criteri generali è logico però che l’applicazione si spezzetti in una variegata casistica giurisprudenziale.

4.   La casistica giurisprudenziale

Vi è innanzitutto da dire che la legislazione ha sottratto all’ambito dell’art. 2050 proprio le attività maggiormente pericolose: l’impiego pacifico dell’energia nucleare [107]. Sulla norma del codice prevale allora la disciplina specifica [108].

La navigazione aerea è regolata compiutamente dal codice della navigazione [109]. La guida di veicoli è disciplinata dall’art. 2054 c.c. Le attività professionali, ancorché pericolose, soggiacciono alla disciplina dell’art. 2236 c.c. [110].

Per chi dunque è dettata la norma dell’art. 2050?

In primo luogo la giurisprudenza non ha mai avuto dubbi nel qualificare come attività pericolosa la produzione e distribuzione di energia elettrica ad alta tensione [111].

La bassa tensione sarà pericolosa a seconda delle modalità di erogazione [112].

Come abbiamo già visto la p.a. (Enel) è ora soggetta all’art. 2050 [113].

In secondo luogo è pericolosa la produzione e la distribuzione di gas in bombole [114]. Sulla base dell’eadem ratio sono pericolose le produzione di lumi a gas e di aerosol in bombole [115]: non è invece pericolosa la distribuzione di bombole spray [116]. Nel caso dei gas in bombole il produttore rimane responsabile ex art. 2050 anche quando il pregiudizio insorge successivamente alle fasi di riempimento, trasporto e distribuzione [117]. D’altronde una regola diversa non avrebbe senso.

È altresì pericolosa la produzione e la distribuzione del metano [118]. Sulla base degli stessi criteri vengono considerate pericolose tutte le attività connesse al trasporto ed alla conservazione di sostanze combustibili facilmente infiammabili: petrolio greggio attraverso un oleodotto [119]; la discarica di combustibile da una nave, la gestione d’un deposito di oli minerali infiammabili [120], le operazioni di pulizia di una cisterna adibita alla raccolta di carburante [121]. Con una certa riluttanza la Corte Suprema ha riconosciuto come pericolosa l’attività pirotecnica [122] e la fabbricazione, manipolazione e infustazione del carburo di calcio [123]. Sono comunque pericolose in genere tutte le attività che hanno a che fare con le armi [124] e gli esplosivi [125].

Naturalmente sono da considerarsi pericolose, secondo me, anche le attività connesse con la produzione e distribuzione di sostanze venefiche o infettive [126].

Anche le attività edilizie ed i lavori stradali sono pericolosi [127]. La manutenzione stradale non è di per sé pericolosa: si tratta di valutare caso per caso le singole attività in cui si esplica [128]. È pericolosa la manutenzione dei semafori [129], la scalpellatura di pietre sulla pubblica via [130], la posa di condutture nel sottosuolo [131], lo scavo di una trincea trasversale sulla pubblica via [132], la costruzione di un metanodotto [133], in genere l’escavazione o lo sbancamento [134]; lo scavo d’una profonda buca nel pavimento d’un vano scarsamente illuminato, ma accessibile al pubblico [135], l’apprestamento d’una fossa di calce viva [136]. Laddove si scava e si usano esplosivi la pericolosità è assicurata: tale è il caso della gestione di cave e miniere [137].

Non è stata giudicata pericolosa la tinteggiatura degli interni e degli infissi d’un appartamento [138], e l’immissione di acqua nelle tubazioni di un impianto di termosifoni [139]. Infatti la giurisprudenza si mostra un po’ restia ad allargare le maglie dell’art. 2050 al di là delle attività edilizie (costruire e scavare) in senso stretto. Così in Sollina c. Enel [140] si è stabilito, abbastanza incredibilmente, che la gestione di una diga non è un’attività pericolosa, a differenza dell’attività di costruzione di una diga. La stravagante conseguenza è quindi quella per cui nel caso di allagamenti dei terreni circostanti, dovuti a fenomeni pluviali eccezionali, il gestore non è tenuto a provare di aver adottato tutte le misure idonee ad evitare il danno. Il caso è singolarmente sbagliato sia dal punto di vista della ratio dell’istituto che dei criteri formali prima enucleati per l’individuazione delle attività pericolose.

Le varie attività agricole in genere non sono pericolose [141], mentre lo è l’operazione di taglio degli alberi [142].

La giurisprudenza bolla come pericolose le attività connesse con certi mezzi meccanici come le seghe e le gru ovvero i montacarichi [143].

Per quanto riguarda le attività mediche alcuni precedenti hanno ritenuto pericoloso l’impiego dei raggi X [144], e non pericolosa la elettrochocterapia [145]. Pare sia altresì possibile configurare una responsabilità ex art. 2050 c.c. anche per l’attività trasfusionale [146], così come per la produzione di farmaci [147].

L’interesse dei giudici è stato spesso condotto dagli attori ad occuparsi dell’attività sportiva in relazione all’art. 2050.

Pacifica è parsa a tutti la qualificazione dell’attività venatoria come attività pericolosa, in relazione all’uso delle armi da fuoco [148].

La giurisprudenza non ha saputo che orientamento consolidare in relazione all’attività sciistica. Alle volte ci si è lanciati a dire che tale attività è intrinsecamente pericolosa [149], altre volte si è preferito sospendere un tale giudizio [150]. Come vedremo, la tendenza principale in riferimento a tutte le varie ipotesi di responsabilità aggravata è quella di ricondurre gli sci sempre sulla pista dell’art. 2043. E quindi per ragioni di coerenza sarebbe opportuno evitare di farli rientrare nelll’art. 2050.

Nessun dubbio invece che siano pericolosi gli impianti di risalita, le seggiovie e le sciovie [151].

Pericoloso è lo sci nautico [152]. Pericolosa la gestione di una scuola di equitazione [153], e di una pista di go-karts [154].

Per quanto riguarda l’organizzazione di gare sportive [155] la vecchia giurisprudenza distingueva caso per caso, fidandosi di una dottrina [156] che ancorava l’applicazione dell’art. 2050 all’intrinseca pericolosità dell’attività sportiva organizzata. In tal modo veniva ritenuta attività pericolosa l’organizzazione di una gara automobilistica [157], ma non quella di una gara ciclistica [158] o la mera organizzazione di campi da gioco [159].

In Allevamento Ischitella c. Soc. Ippica Villa Glori [160] la giurisprudenza ha valutato in generale la responsabilità degli organizzatori di attività agonistiche, ed ha stabilito che, fermo restando a carico degli organizzatori l’obbligo di rispettare il principio del neminem laedere, l’esercizio di una attività agonistica comporta che ricadano su coloro che vi si dedicano gli eventuali danni sofferti, e rientranti nell’alea normale, nel rischio normalmente presenti in quel tipo di gara, come «insito e connaturato ad esso». Nella specie, però, si trattava dello slittamento, su una pista adibita a corsa di cavalli, dell’autostart che, postasi di traverso, provocava una rovinosa caduta di purosangue. Gli organizzatori, si dice, imposero lo svolgimento della corsa nonostante le avverse proibitive condizioni climatiche. L’indagine sul nesso causale tra le condizioni climatiche e lo slittamento dell’autostart è stata embrionale, ma le circostanze del fatto descritto sono state comunque ritenute sufficienti a ingenerare la responsabilità degli organizzatori. In tal modo la ratio decidendi della decisione si caratterizza come favorevole ad una responsabilità generale degli organizzatori di gare sportive, per danni diversi da quelli che possono tipicamente occorrere a chi pratica un certo sport in condizioni normali.

Dopo una tale apertura la giurisprudenza è stata investita di numerosi casi concernenti i danni insorti in occasione di manifestazioni sportive.

In Mazzoleni c. Gianesini e altro [161] si è stabilito che il giocatore di una partita amichevole di squash non è tenuto alla buona riuscita dei colpi eseguiti (meno male!). Perciò quando sbaglia la traiettoria di un colpo di recupero e manda la palla a superare la parete di fondo, pur dimostrando nell’occasione un’imperizia sportiva, non è responsabile del danno causato all’occhio di uno spettatore assiso in tribuna. Qualcuno deve però ben essere responsabile. Naturalmente il giudice non ha avuto difficoltà a ritenere che la responsabilità sia da attribuirsi al circolo sportivo. Nella specie il circolo non aveva violato nessuna norma: i campi e le tribune erano fatti a regola d’arte. Ma il giudice gli ha rimproverato l’inosservanza della regola generale di cautela e di prudenza che impone alla gestione del centro sportivo di adottare una opportuna barriera con recinzione od elevamento della parete di fondo campo, onde evitare pericolo per gli spettatori nell’eventualità di un’anomala fuoriuscita della pallina.

Così è responsabile la società di calcio per le lesioni riportate da uno spettatore in seguito alla caduta dovuta alla presenza sulle gradinate di frammenti di vetro e di altri rifiuti [162]. Così si asserisce, in termini assai generali, che sussiste la responsabilità dell’organizzatore per l’incidente occorso ad un atleta durante la competizione sportiva, quando si è omesso di assicurare con tutte le possibili ed opportune cautele che lo svolgimento della manifestazione avesse luogo senza pericolo per l’incolumità dei partecipanti [163]. Un vero criterio di strict liability forse un po’ esagerato, tenendo conto che in una gara sportiva si corre, si salta, si lanciano dei pesi, ecc.

In Ministero Pubblica Istruzione c. Sportass [164] la S.C. si è addirittura spinta al ragionamento seguente. Si trattava di una gara sportiva scolastica. Uno scolaro fu colpito da un attrezzo sportivo mentre assisteva alla gara. La S.C. ha sostenuto che quando non è possibile ricostruire le esatte modalità dell’evento lesivo la responsabilità dei precettori può essere fondata su un ragionamento induttivo dal quale risulti senza dubbio la loro colpa.

È chiaro che i precettori non hanno potuto fornire la prova dell’impossibilità di impedire il fatto, e quindi è stata posta a loro carico la responsabilità dell’evento non ben ricostruibile. È altrettanto chiaro però che quando un martello è partito in volo (si fa per dire) è impossibile per chiunque ormai impedire il fatto. Gli spettatori devono essere a distanza di sicurezza, ma tale distanza evidentemente coincide con quella in cui il martello non può arrivare.

Dalle attività sportive alle attività di svago il passo è breve, e passa per le piscine. Una congerie di precedenti degli anni sessanta non hanno saputo risolvere il problema, giacché in certi casi si è affermata [165], ed in altri negata [166], la pericolosità dell’attività di gestione della piscina. Simile indecisione ha mostrato la giurisprudenza in relazione alle attività da luna-park, a proposito delle autopiste elettriche [167], e degli autoscontri [168]. Con riferimento all’utilizzo delle armi è stata riconosciuta invece la pericolosità del tiro a segno pur con fucili ad aria compressa [169]. Nessun dubbio ha pure avuto il Supremo Collegio a riconoscere la pericolosità del gioco delle bocce [170], mentre ha escluso che le piccole giostre tradizionali possano venire considerate pericolose alla stregua dell’art. 2050 [171].

Direi che questa giurisprudenza deve ora essere ricostruita alla luce del­ l’evoluzione che si è avuta in tema di gare sportive. In buona sostanza l’organizzatore risponde dell’incolumità dei terzi spettatori, o comunque coinvolti nella vicenda, e di quella dei partecipanti all’attività che derivi dal cattivo stato o dall’inidoneità dei mezzi forniti per praticarla.

Il requisito della pericolosità è stato negato in svariate ipotesi [172], ed alcuni celebri casi lo hanno escluso pure a proposito dell’attività bancaria in relazione al rischio di esservi rapinati [173].

È interessante, allora, notare come al di là di certi precedenti strambi [174], il variegato operato della giurisprudenza finisca per orientarsi verso alcune ipotesi riconoscibili: la pericolosità è insita nelle attività che hanno a che fare con l’energia, il gas, il fuoco; il veleno, le armi e gli esplosivi; il costruire e lo scavare (quindi anche miniere e cave); l’uso di mezzi meccanici come gru e seghe (e quindi il taglio degli alberi); i ludi ginnici.

5.   L’azione ex art. 2050 c.c.

La dizione letterale dell’art. 2050 non fa limitazioni: chiunque sia danneggiato dall’attività pericolosa può fare azione di danno.

Nondimeno alcuni Autori [175] hanno sollevato dubbi e questioni. In particolare essi tendono ad escludere quei soggetti la cui sfera d’interesse si confonde con quella del convenuto: i familiari o i partecipanti alla gestione dell’attività [176]. Non mi sembra che sia possibile escludere i familiari in quanto tali [177]. Il problema si riduce quindi ai familiari in quanto coesercenti dell’attività pericolosa, e si pone appunto in termini più corretti di coesercizio dell’attività. Posta in questi termini la questione mi sembra fondata [178]. L’art. 2050 è posto a protezione di chi sia estraneo alla attività in quanto vuol far internalizzare agli esercenti l’attività stessa i costi del maggior rischio creato: esso non offre quindi protezione a costoro, ma solo agli estranei.

In alcune ipotesi la giurisprudenza ha fatto stranamente applicazione del principio del non cumulo, per cui ha negato la protezione dell’art. 2050 a chi fosse legato contrattualmente all’esercente dell’attività [179]. Si tratta di una giurisprudenza palesemente resa per incuriam atteso che il nostro ordinamento si fonda sull’ammissibilità del cumulo delle responsabilità [180], che infatti si applica anche nella specie [181].

Alla luce di quanto detto la protezione dell’art. 2050 si estende a tutti coloro che non sono esercenti dell’attività, e quindi anche a coloro che partecipano all’attività [182], e quindi anche al prestatore di lavoro [183]. Estraneità significa qui estraneità all’esercizio della attività nel senso di controllo e direzione dell’attività stessa, essendo palese che è il soggetto che ha tali poteri di comando e controllo dell’attività, che deve internalizzare i rischi creati dalla stessa per la generalità di tutti coloro che si trovano esposti al pericolo da essa derivante: in primis ovviamente i prestatori d’opera [184].

Questo scopo economico di prevenzione della norma spiega anche bene come la responsabilità ex art. 2050 sia alternativa ad altri compensation schemes. Ovvero se i dipendenti sono soggetti ad assicurazione obbligatoria contro gli infortuni opererà, in relazione agli eventi coperti dall’assicurazione, un esonero dell’esercente dalla responsabilità ex art. 2050 [185]. In caso di reato ascrivibile al datore di lavoro, o agli incaricati della direzione e sorveglianza, non tornerà comunque in gioco la responsabilità dell’art. 2050, ma essa sarà quella regolata dalla legge speciale [186].

Il soggetto passivamente legittimato all’azione risarcitoria sarà quindi l’esercente dell’attività, cioè colui che ha il controllo, la signoria, sull’attività pericolosa, anche se tale controllo sia sporadico, ma si riferisca comunque al momento del verificarsi della lesione [187]. In caso di pluralità di soggetti responsabili ex art. 2050, si applicherà ai fini della ripartizione dell’obbligo risarcitorio il disposto dell’art. 2055.

È appena il caso di ricordare che l’esercente risponde dell’attività materialmente svolta dai suoi dipendenti subordinati [188]; nel qual caso troveranno contemporanea applicazione gli artt. 2050 e 2049 [189].

Come abbiamo visto legittimato passivo è anche chi organizza l’attività pericolosa altrui [190].

Alla stregua di questi criteri non risponde invece ex art. 2050 chi affida ad altri il compimento di un’attività pericolosa, senza che egli abbia un potere di organizzazione e di controllo di tale attività. Così in caso di appalto non risponde l’appaltante, ma l’appaltatore [191]. Non mi sembra che qui vi sia spazio per l’applicazione della doctrine del nudus minister [192] in quanto non si tratta di una responsabilità vicaria per l’attività altrui, ma di una responsabilità oggettiva per la mancata adozione delle cautele necessarie nell’esercizio dell’attività pericolosa. L’appaltatore è un soggetto che professionalmente deve conoscere ed attuare tali cautele, indipendentemente dagli ordini minuziosi ricevuti dal committente. Si tratta di una questione di incentivi, per cui l’appaltante non può essere incentivato ad adottare misure di cautela rispetto ad una attività che non controlla, e che magari nemmeno professionalmente conosce: occorre evidentemente incentivare l’appaltatore. Viceversa l’appaltante deve essere incentivato a scegliere un soggetto in grado di svolgere professionalmente il proprio compito, perciò è corretto che l’appaltante risponda se è caduto in una grossolana culpa in eligendo affidando l’incarico a persona inesperta o inidonea [193].

Vige in materia il principio di effettività, per cui il soggetto responsabile deve essere colui che in concreto aveva il potere di controllo, la signoria, sulla attività pericolosa. Ne segue che non sarà l’eventuale concessionario dell’autorizzazione amministrativa a rispondere, ma il soggetto che ha effettivamente svolto l’attività o curato la sua organizzazione [194]. Il concessionario dell’autorizzazione dovrà rispondere ex art. 2043 per l’uso che ha fatto in concreto delle facoltà autorizzate [195].

I soliti schermi pubblicistici [196] impediscono che sia azionata la responsabilità nei confronti dell’ente che ha rilasciato l’autorizzazione, pur in caso di concessione illegittima [197].

6.   Il nesso causale e la prova liberatoria

Perché il danno sia riconducibile all’attività pericolosa occorre che vi sia causalmente riconnesso [198]. Gli interpreti fanno un’applicazione interessante di questo principio banale. Giungono così a dire che la norma riguarda i sinistri connessi alla natura peculiare dell’attività svolta [199], con esclusione di quelli che non si pongono in rapporto immediato col carattere rischioso dell’attività stessa [200]. Una tale impostazione è congruente sia con le funzioni del nesso causale che con quella della strict liability [201]. Nella specie, il nesso causale non deve essere provato, però, in relazione ad una specifica azione od omissione dell’esercente; basta che esso sussista in relazione al generico esercizio dell’attività svolta [202]. È giocoforza concludere, allora, che il giudice deve considerare se l’evento lesivo si pone come probabile conseguenza dell’attività pericolosa. Si tratta di una responsabilità per rischio tipico dell’attività intrapresa.

Quando dunque il nesso eziologico risulterà interrotto? Al di là delle formule generali ed infelici [203] è ormai chiaro che tale nesso viene interrotto solo dal fatto del terzo [204], o della vittima [205], o dalla identificazione di una causa estranea non imputabile [206] alla sfera giuridica dell’esercente.

L’accertamento del nesso causale è come sempre rimesso al sovrano apprezzamento del giudice del merito [207], e la sua prova spetta al danneggiato [208].

Il contenuto della prova liberatoria è quindi duplice: nel senso che l’esercente può essere esonerato dalla responsabilità, se dimostra di aver adottato tutte le misure idonee a prevenire il danno, o se dimostra che lo stesso è derivato da una causa a lui non imputabile.

Ormai ha poco interesse discettare se ciò significhi imposizione di un negligence standard o di una strict liability [209], più interessante risulta osservare che cosa l’esercente deve provare in concreto.

Si ripete che le misure tecniche che devono essere adottate variano in relazione alle situazioni specifiche in cui si verifica l’attività pericolosa.

Il primo problema riguarda i doveri di informazione che incombono sull’esercente, e l’eventuale efficacia liberatoria del loro assolvimento. Sicuramente sull’esercente grava il dovere di fornire ai terzi, mediante cartelli o altri strumenti idonei, le informazioni concernenti il pericolo dell’attività con riferimento alle modalità di esecuzione, di tempo, e di luogo in cui può verificarsi il danno.

Talvolta l’aver avvertito il terzo del pericolo è stato ritenuto sufficiente a scagionare l’esercente [210]; secondo la dottrina dominante però il mero assolvere ai doveri d’informazione non scagiona l’esercente, ma rileva solamente ai fini della determinazione del concorso di colpa della vittima incauta [211]. La soluzione non mi sembra contestabile anche perché in base al criterio della pura proporzionalità la colpa della vittima può risultare assorbente al 100% e quindi scagionare in toto l’esercente. Allo stesso modo i casi che scagionano l’esercente per aver fornito le informazioni sul pericolo ai terzi possono essere interpretati come casi in cui la colpa della vittima si spiegava come unica ragione determinante e assorbente del danno.

Per quanto attiene alle misure preventive, che devono venire adottate dall’esercente, è una regola di buon senso che si debba avere riguardo al progresso tecnico e scientifico presente al momento in cui l’attività ha prodotto il danno [212], commisurando il costo degli interventi preventivi alla gravità del pericolo [213].

È appena il caso di dire che l’esercente deve adottare tutte le misure legislativamente imposte [214], ma che egli risponda ex art. 2050 solo se la mancata adozione delle cautele legislativamente prescritte si pone in relazione causale con il danno prodotto [215].

Ciò che è interessante è che ai fini della prova liberatoria non basta dimostrare di essersi attenuti alle disposizioni di legge o di regolamento [216]. L’esercente deve provare di aver adottato tutte le regole di prudenza e diligenza suggerite dalle normali cognizioni tecniche e di comune esperienza [217]. In pratica quest’onere probatorio, come già abbiamo accennato, finisce per equivalere alla dimostrazione del fortuito [218]. In parole povere, infatti, il pregiudizio verificatosi deve risultare estraneo alla signoria di controllo dell’esercente, il che appunto si verifica quando il danno è derivato da una causa esterna a lui non imputabile [219]. Chi scorra la casistica giurisprudenziale finirà per convincersi che la giurisprudenza applica un vero standard di responsabilità oggettiva, finendo per richiedere come liberatoria la sola interruzione del nesso causale, anche perché in svariate ipotesi il realizzarsi del danno viene assunto dai giudici come prova dell’insufficienza delle misure adottate [220]. A questo riguardo si deve in particolare richiamare l’attenzione sulla recente decisione del Tribunale di Milano in Pozzati e altri c. Azienda Energetica Municipale e c. Condominio di Viale Monza n. 112 di Milano [221] in cui è stata riconosciuta la responsabilità ex art. 2050 c.c. dell’azienda distributrice del gas metano «per la potenzialità intrinseca di pericolo e per la natura stessa dei mezzi adottati». Nel caso di specie un’intera palazzina era crollata a causa dello scoppio verificatosi in un appartamento per la fuoriuscita di gas metano per ragioni non del tutto chiare. Tra le varie ipotesi più probabili vi era anche quella per cui l’esplosione avrebbe avuto origine nel comportamento autolesionistico della signora che abitava l’appartamento in questione. Altra ipotesi avanzata era quella di un cattivo funzionamento di un dispositivo di sicurezza dello scaldabagno sito negli stessi locali. L’azienda si era difesa osservando che la sua responsabilità poteva individuarsi solamente per i sinistri verificatisi a valle del contatore, e che comunque sarebbe spettato agli utenti di tenere in perfetto stato di efficienza gli impianti. Il Tribunale, partendo dal presupposto che l’attività in questione è pericolosa e che la presunzione di responsabilità può essere vinta solo con una prova particolarmente rigorosa, ha ritenuto la responsabilità dell’azienda sulla base che questa aveva sì provato di avere adottato tutte le misure imposte ex lege, ma non aveva provato di avere effettuato, con la dovuta attenzione e periodicamente, controlli anche negli impianti a monte del contatore. Così afferma il Tribunale milanese: «non si può … lasciare al singolo utente del gas l’adozione in via esclusiva delle necessarie misure di prevenzione e manutenzione degli impianti per evitare pericoli di fughe di gas e scoppi». In particolare, si è osservato che l’azienda avrebbe dovuto installare negli appartamenti rilevatori di fughe di gas in modo da bloccare automaticamente l’erogazione una volta superata una certa concentrazione.

Naturalmente, come dicevamo, il fatto del terzo e della vittima, si pongono ex se come rilevanti ai fini dell’esonero della responsabilità dell’esercente. Naturalmente occorre che tali fatti si siano posti in modo da escludere la rilevanza dell’esercizio della attività pericolosa [222], altrimenti si ricadrà nell’ipotesi del concorso di responsabilità [223].

Fatto del terzo rilevante è stato ritenuto il taglio di una quercia che cadendo aveva spezzato i fili ad alta tensione [224]. Non rilevante ad interrompere il nesso è stato invece ritenuto l’agganciamento fatto da ignoti allo stesso tipo di cavi di un filo lasciato poi penzolare sopra un campo [225].

Si sostiene che il fatto della vittima valga a diminuire la responsabilità dell’esercente, ma non ad escluderla, quando lo stesso si inserisce in una situazione già di per se stessa pericolosa a cagione dell’insufficienza delle misure di precauzione adottate [226]. Sono ipotesi di concorso di responsabilità quelle della vittima che, lanciando un filo necessario ad illuminare un abete natalizio, incappa nei cavi dell’alta tensione rimanendo fulminata la notte del Santo Natale [227]; della vittima che non chiude il dispositivo di blocco di una bombola di gas che esplode [228]; della vittima che si impossessa illecitamente di un ordigno pirotecnico che le esplode in mano [229].

La sbadataggine della vittima non equivale invece a sua colpa: vittima che si sposta nella direzione sbagliata e viene colpita dall’albero abbattuto [230]. Così come non può essere in colpa la vittima che esercita un proprio diritto [231].

Infine in Anedda c. Carriga [232] la Corte Costituzionale ha giudicato, in caso di danno anonimo da attività pericolosa, ritenendo che è inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 2050 c.c., nella parte in cui non prevede che, quando non sia possibile l’individuazione di uno specifico responsabile del danno nell’esercizio di una attività pericolosa, sia applicabile la presunzione di responsabilità nei confronti di tutti i partecipi dell’attività [233].

 



[1] Cfr. Comporti, Esposizione al pericolo e responsabilità civile, Napoli, 1965, 271 s. e cfr. Ziviz, Le attività pericolose, in La responsabilità civile, a cura di Cendon, Milano, 1988, 543 ss.; Bianca, Diritto civile, V, in La responsabilità, Milano, 1994, 704 ss. Sulle origini tedesche del dibattito italiano cfr. Somma, Le tecniche di imputazione del danno extra-contrattuale tra codice civile e legislazione speciale: l’esercizio di attività pericolose nel diritto tedesco, in RDCo, 1995, 277. Da ultimo in generale sull’art. 2050 c.c.: Recano, La responsabilità da attività pericolose, Padova, 2001; Alpa, La responsabilità civile, Milano, 1999, 683 ss.; Visintini, Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 1999, 734 ss.

[2] Si dilungano giustamente a mostrare l’evoluzione industriale che rende necessaria una disciplina ad hoc Alpa e Bessone, I fatti illeciti, in Tratt. Rescigno, 14, VI, Torino, 1982.

[3] Riflessioni intuitive si trovano in De Martini, I fatti produttivi di danno risarcibile, Padova, 1973, 978.

[4] Si lanciano in proclami a difesa dell’incolumità della persona Cass. pen. 25 marzo 1971, in RCP, 1971, 698; Cass. pen. 15 marzo 1971, ivi, 1972, 643; Trib. Milano 21 dicembre 1950, ivi, 1950, 24.

[5] Relazione al codice, n. 795.

[6] Cass. 10 dicembre 1970 n. 2628, Soc. Vela c. Ragazzini, in MGI, 1970; App. Bari 25 luglio 1946, in RFI, 1947, Resp. civ., 98.

[7] Trimarchi, Rischio e responsabilità oggettiva, Milano, 1961, 276.

[8] Cass. 10 agosto 1949, n. 2271, Dionisi c. Bernardini, in MGI, 1949.

[9] Tale impostazione si giova della mancanza di chiarezza che presso i giudici contraddistingue la distinzione tra responsabilità oggettiva e responsabilità assoluta.

[10] Bonvicini, La responsabilità civile per fatto altrui, Milano, 1976, 406; addirittura Gentile, Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose, in RCP, 1950, 101 si è addentrato, con tali posizioni, in cotanto dibattito.

[11] Cass. 27 gennaio 1982, n. 537, Panunti e altro c. Enel, in FI, 1982, I, 674.

[12] Cfr. ad es. Cinelli, Contributi e contraddizioni della giurisprudenza in materia di responsabilità da attività pericolose, in RDC, 1970, II, 182 s.

[13] Supra cap. IV, n. 3.

[14] De Cupis, Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1971, 79, che passa così disinvoltamente tra onere probatorio e livello del dovere di cautela imposto al destinatario della norma.

[15] Branca, Locazione di autoveicoli e attività pericolose, in FI, 1962, I, 469; Del Conte, Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose, I, 1957, 568 s.

[16] Cass. 6 ottobre 1976, n. 3317, Cipelli c. Soc. Lonero, in MGI, 1976; Cass. 19 gennaio 1965, n. 103, Lenzi c. Cons. Porto Genova, in MGI, 1965; Cass. 7 luglio 1964, n. 1777, Cirilli c. Ministero Trasporti, in MGI, 1964.

[17] Cass. 27 gennaio 1982, n. 537, cit.

[18] Così De Cupis, loc. ult. cit.

[19] Forchielli, La colpa lievissima, in RDC, 1963, I, 206; Geri, Le attività pericolose e le responsabilità (cod. civ. art. 2050), in DPA, 1961, 316.

[20] Cfr., infatti, Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 258.

[21] Così Trimarchi, Rischio e responsabilità, cit., 279; Franzoni, Responsabilità per l’esercizio di attività pericolose, in La responsabilità civile, a cura di Alpa e Bessone, II, 2, Torino, 1987, 459.

[22] Così Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 265.

[23] Così Trimarchi, Rischio e responsabilità, cit., 277.

[24] Naturalmente la culpa laevissima rende inutilizzabile il principio di colpevolezza come landmark.

[25] Secondo la celebre formula sponsorizzata in Italia da Trimarchi, Rischio e responsabilità, cit., 279. Sostanzialmente simile l’idea della responsabilità per esposizione al pericolo espressa dal Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 266. Sostanzialmente ridicola invece la formula coniata dal De Martini, I fatti produttivi, cit., 241, per cui si parlerebbe di «responsabilità oggettiva derivante da entità irrazionale seagente». Con linguaggio degno del più ipostatizzante degli gnostici l’illustre Autore osserva che l’attività pericolosa possiede una potenzialità lesiva destinata ad inserirsi con energia autonoma nel processo causale del danno. Sembra di sentir parlare dell’Ennoia.

Dal punto di vista strutturale naturalmente è corretto dire che l’art. 2050 prevede un criterio di collegamento tipico in virtù del quale ipotesi differneziate di danno vengono ricondotte alle condizioni obbiettive poste in atto dall’esercente. Scognamiglio, Responsabilità civile per fatto altrui, in NNDI, XV, Torino, 1968, 647; Di Martino, La responsabilità civile nelle attività pericolose e nucleari, Milano, 1979, 145-156, che si dilunga, e Franzoni, Responsabilità per l’esercizio, cit., 462. Sulla natura obbiettiva della responsabilità dell’esercente cfr. anche Rodotà, Il problema della responsabilità civile, Milano, 1964, 144-164.

[26] Cfr. Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 286.

[27] Scognamiglio, Responsabilità per fatto altrui, cit., 647.

[28] Di Martino, op. cit., 1979, 36; De Martini, I fatti produttivi, cit., 267.

[29] Aderiscono a questa doctrine standard Franzoni, Il danno da attività pericolose nella giurisprudenza, in CeI, 1985, 167; Di Martino, La responsabilità, cit., 41; Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 281; Bonvicini, La responsabilità per le cose in custodia e per l’esercizio di attività pericolose, in RCP, 1962, 426; Venditti, Sull’esercizio di attività pericolose, in GC, 1957, I, 745.

[30] Trimarchi, Rischio e responsabilità, cit., 1961, 196.

[31] Cass. 24 febbraio 1983, n. 1425, Soc. Peugeot Italia c. Vescia, in RCP, 1984, 774, nota.

[32] App. Milano 18 ottobre 1968, in RCP, 1969, 381.

[33] Trib. Genova 1 luglio 1971, in GM, 1972, I, 122.

[34] Cass. 14 luglio 1959, n. 2271, Golinelli c. Piazzi, in MGI, 1959.

[35] App. Milano 8 luglio 1977, in GM, 1979, I, 605.

[36] Cass. 24 luglio 1965, n. 1737, Ditta Cingolani c. Carletti, in MGI, 1965.

[37] Trib. Firenze 3 gennaio 1952, in RCP, 1952, 365.

[38] Cass. 23 febbraio 1983, n. 1394, Angelici c. Comune Terni, in MGI, 1983.

[39] Cass. 24 febbraio 1983, n. 1425, cit.

[40] Acuta osservazione del Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 275, ripresa dalla Visintini, I fatti illeciti, I, Ingiustizia del danno. Imputabilità, Padova, 1987, 389 s.

[41] Anche se va tenuto presente che l’effetto liberatorio si raggiunge in pratica quasi sempre tramite la dimostrazione del fortuito.

[42] App. Milano 12 aprile 1974, in RGC, 1974, Resp. civ., 47.

[43] Trib. Padova 11 febbraio 1956, in ARC, 1961, 42.

[44] Per quanto riguarda il concorso con la disciplina del danno da prodotti cfr. infra cap. VII, n. 9.

[45] La comune genesi delle due norme sarebbe rintracciabile nell’art. 120 del Codice della strada del 1933.

[46] Cass. 6 marzo 1962, n. 420, Pacifici c. Comune Affile, in MGI, 1962; App. Milano 3 giugno 1949, in FP, 1949, I, 639; e così pure Geri, Le attività pericolose, cit., 491. Non sono d’accordo Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 303 s. e Franzoni, Responsabilità per l’esercizio, cit., 496 ss.

[47] Cass. 6 settembre 1968, n. 2888, Cristiano c. Soc. Tram. Prov. Napoletana, in MGI, 1968; Cass. 20 luglio 1966, n. 1974, Coppola c. Atac, in MGI, 1966; Cass. 7 agosto 1952, n. 2565, Balestrieri c. Az. Filotranv. Napoli, ivi, 1952.

[48] Come sarebbe necessario per la dottrina delle «responsabilità parallele» far rientrare tutto ciò che riguarda la guida di veicoli senza rotaie, ma che non ricade nell’ambito dell’art. 2054.

[49] Il fatto è appunto che l’art. 2054 non si occupa di tutti i veicoli, ma solo di quelli non su rotaia. Il legislatore ha usato questa locuzione perché la nostra lingua non possiede un vocabolo, per designare positivamente questi veicoli. Ma non possiamo trasformare la dizione legislativa in una sineddoche (una parte per il tutto) di cui restare schiavi. Supponiamo che la nostra lingua possieda tale vocabolo, per cui i veicoli di cui all’art. 2054 si chiamano UBU. L’art. 2054 si occupa solo degli UBU. I tram non sono UBU come non lo sono i veleni, i fuochi d’artificio, le gru edili, ecc. ma come i veleni, i fuochi, le gru sono pericolosi, quindi i tram finiscano nello stesso girone dell’art. 2050.

[50] Trova infatti applicazione l’art. 1, legge 7 ottobre 1977, n. 754, per cui rispetto al sistema precedente di cui al r.d. 11 ottobre 1934, n. 1948, sussiste a carico dell’amministrazione ferroviaria una presunzione di colpa, dalla quale questa può liberarsi solo provando che l’incidente è avvenuto per causa ad essa non imputabile. Vigente il precedente sistema l’operatività dell’art. 2050 era stata esclusa: Cass. 29 marzo 1952, n. 866, Soc. Ferrovie Val d’Orba c. Rocca, in MGI, 1952.

[51] Cass. 27 febbraio 1984, n. 1393, in FI, 1984, I, 1280 e in FI, 1985, I, 1497, nota di Comporti.

[52] Cass. 16 febbraio 1996, n. 1192, in DR, 1996, 649.

[53] Sulla responsabilità del vettore ferroviario cfr. da ultimo Bona, Responsabilità delle Ferrovie dello Stato ed onere probatorio: verso la strict liability dell’amministrazione ferroviaria?, in DR, 1999, 1233 ss.

[54] Trimarchi, Rischio e responsabilità, cit., 43 s.

[55] Così Paraglia, Appunti in tema di responsabilità da esercizio di attività pericolosa, in DPA,  645; Bonvicini, La responsabilità per le cose, cit., 428; Gentile, Responsabilità per l’esercizio, cit., 104. Va per la sua strada invece Geri, Le attività pericolose, cit., 296. Fa notare che i pericoli son maggiori proprio quando l’attività viene esercitata una tantum, al di fuori dell’organizzazione dell’impresa Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 280.

[56] Si veda la casistica al successivo n. 4.

[57] Così infatti la giurisprudenza secondo cui se la situazione di pericolo consegue ad una condotta imprudente, la pericolosità si presenta come un elemento accidentale: Cass. 29 maggio 1972, n. 1712, Caffaz c. Bonvini, in MGI, 1972, per cui tali ipotesi sono da riportare nel­ l’alveo generale della colpevolezza: Cass. 1394/1983, cit.; Cass. 11 settembre 1978, n. 4110, Camanzi c. Sansone, in MGI, 1978. Talvolta la giurisprudenza usa dell’art. 2050 in senso punitivo, facendo derivare la pericolosità dall’eventuale irregolarità dell’attività svolta: Cass. 20 marzo 1969, n. 878, Riccieri c. soc. Warner Bross continental films, in MGI, 1969; Cass. 24 luglio 1965, n. 1737, Cingolani c. Carletti, in MGI, 1965.

[58] Monateri, Art. 2050 e parametri giuridici di controllo sull’attività della p.a., in RCP, 1982, 375 e riff.

[59] Cfr. Cass. 27 gennaio 1982, n. 537, cit., in GC, 1982, I, 919, nota di Alpa e in RCP, 1982, 375, nota di Monateri.

[60] Papale c. Enel e Comune di Messina, Trib. Messina 27 settembre 1983, Papale c. Enel e altro, in RDCo, 1984, II, 215.

[61] Cass., sez. lav., 27 febbraio 1984, n. 1393, Giacconi c. Madonna, in FI, 1984, I, 1280, nota di Pardolesi; in GC, 1984, I, 2529; in RCP, 1984, 517; in GI, 1985, I, 1, 31.

[62] Tutto ciò che è dinamico è bello e interessante, tutto ciò che è statico è vecchio e sorpassato. Lo si deduce non solo dalle poesie del Marinetti, ma anche dal salmo 1, laddove tutti i verbi che descrivono l’empio sono verbi di stasi (sta seduto con gli altri presso la porta della città, ecc.) mentre quelli che descrivono il giusto sono verbi di movimento (entra in città, si reca a salutare, ecc.).

[63] Così Franzoni, Responsabilità per l’esercizio, cit., 467 s. e naturalmente Di Martino, La responsabilità, cit., 87.

[64] Cass. 15 dicembre 1976, n. 4641, Iacobellis c. Matarrese, in MGI, 1976.

[65] Cass. 21 ottobre 1976, n. 3722, Sperandio c. Soc. Patrimoniale fabbricati e terreni, in MGI, 1976.

[66] Cass. 24 novembre 1988, n. 6325, Soc. Agip Petroli c. Palaggi, in MGI, 1988; Cass. 28 ottobre 1980, n. 5799, Soc. Ultragas c. Liverani, in MGI, 1980; Cass. 20 luglio 1979, n. 4352, Soc. Fiorgas c. Varinelli, in RCP, 1980, 84; Cass. 9 maggio 1969, n. 1595, Soc. Flaminia c. Soc. Carpenter Barera, in MGI, 1969. Estravagante risulta Cass. 13 gennaio 1982, n. 182, Quarta c. Soc. Emmepigas, in MGI, 1982, data evidentemente per incuriam.

[67] App. Roma 26 novembre 1975, in TR, 1975, II, 427.

[68] Trib. L’Aquila 23 febbraio 1956, in RCP, 1956, 427.

[69] Cass. 3 marzo 1976, n. 702, Soc. Langione c. Ponti, in MGI, 1976; aderisce Di Martino, La responsabilità, cit., 129 s. quando invece si tratta di una pessima motivazione: quasi che normalmente il nesso causale possa essere «impreciso».

[70] Dopo il recepimento della direttiva sul danno da prodotti su cui cfr. cap. VII.

[71] Infra, cfr. anche cap. IV, n. 2.

[72] Oltre che all’eventuale custode.

[73] Cass. 6 maggio 1978, n. 2189, Rusconi c. Del Zoppo, in MGI, 1978; Cass. 24 novembre 1971, n. 3415, Monetti c. Soc. Assic. Compagnie du Soleil, in MGI, 1971; Cass. 13 luglio 1960, n. 1894, Soc. Colefer c. Di Marco, in MGI, 1960; Cass. 12 febbraio 1953, n. 353, Soc. Romana Elettr. c. Zirizzotti, in MGI, 1953.

[74] Franzoni, Il danno da attività pericolose, cit., 180.

[75] Si tratta dunque d’un gergo giudiziario, non di una nozione del diritto.

[76] Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 294.

[77] Cass. 23 giugno 1967, n. 1550, D’Angiolillo c. Soc. Naz. Riscald. Satragno, in MGI, 1967; Scognamiglio, Responsabilità civile per fatto altrui, cit., 647; Bonvicini, La responsabilità per le cose, cit., 426 e Gentile, Responsabilità per l’esercizio, cit., 105.

[78] Alcuni Autori hanno sostenuto che sono pericolose tutte le attività da cui scaturisce un rischio che non può essere mai del tutto eliminato, neanche a prezzo della più scrupolosa diligenza: così De Martini, Responsabilità per danni da attività pericolose e responsabilità per danni nell’esercizio di attività pericolosa, in GI, I, 2, 1973, 981; Geri, Le attività pericolose, cit., 293; Bonasi Benucci, In tema di attività pericolose (art. 2050 c.c.), 1956, 476. Gli è che tali sono tutte le attività umane!

[79] Criterio cui non mancano di aderire Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 297 e Franzoni, Il danno da attività pericolose, cit., 174 s.

[80] Ciò risulta in accordo peraltro coi dettami dell’Analisi Economica del diritto.

[81] Franzoni, Responsabilità per l’esercizio, cit., 456, il quale mette però in guardia dal confondere la pericolosità intrinseca dei mezzi impiegati, dal loro uso scorretto. Il lettore è libero di scegliere se l’attività del fabbro sia pericolosa in sé o per via dei mezzi impiegati. Si è posto il problema pensosamente e lo ha risolto a favore dei mezzi Trib. Potenza 12 novembre 1954, in FP, 1955, I, 964.

[82] Cass. 3 febbraio 1975, n. 391, Milione c. Di Muro, in MGI, 1975.

[83] Trib. Perugia 28 marzo 1955, in RFI, Resp. civile, 1955, 194. Il lettore è nuovamente libero di pensare se la vendita di palloncini gonfiati con gas altamente infiammabili sia pericolosa in sé o per la natura dei mezzi impiegati: Pret. Genova 11 febbraio 1974, in GI, 1975, I, 2, 249.

[84] Si muove nello stesso senso il Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 292.

[85] Costituisce questo un locus classicus per gli Autori che si sono occupati del tema: Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 291; Di Martino, La responsabilità, cit., 81; Franzoni, Il danno da attività pericolose, cit., 173.

[86] Si ricordi che noi aderiamo all’idea per cui l’esercente risponde anche quando il danno si è prodotto dopo cessazione della sua attività.

[87] L’esercente andrà quindi indenne solo se vince la prova liberatoria o se è intervenuta la prescrizione.

[88] Trib. Parma 15 marzo 1975, in GI, 1976, I, 2, 7.

[89] Cass. 11 novembre 1977, n. 4893, Enel c. Ditta Patalacci, in MGI, 1977.

[90] Cass. 18 dicembre 1979, n. 6573, Rigon c. Inam, in MGI, 1979.

[91] Non è diventata pericolosa l’attività di potatura di alberi d’olivo esercitata in prossimità di una linea elettrica ad alta tensione se praticata in condizioni atmosferiche normali: Cass. 8  luglio 1955, n. 2136, Ilario c. Pelle, in MGI, 1955.

[92] L’indicazione viene da Franzoni, Il danno da attività pericolose, cit., 180.

[93] Cfr. Bonvicini, La responsabilità per le cose, cit., 429.

[94] Cfr. App. Firenze 24 novembre 1964, in RCP, 1965, 194; Trib. Savona 20 dicembre 1965, in GI, 1966, I, 2, 557.

[95] Cass. 2 febbraio 1983, n. 908, Paganini c. Credito Italiano, in GI, 1985, I, 1, 527, nota; Cass. 18 dicembre 1979, n. 6573, cit.; Cass. 22 febbraio 1979, n. 1155, Quaglia c. Traverso, in MGI, 1979; Cass. 3 marzo 1969, n. 687, Abriani c. Benetello, in MGI, 1969.

[96] Cass. 13 luglio 1960, n. 1894, Soc. Colefer c. Di Marco, in MGI, 1960; cfr. sul punto Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 291.

[97] Cass. 12 febbraio 1953, n. 353, cit.; Trib. Savona 20 dicembre 1965, in GI, I, 2, 557; App. Brescia 9 ottobre 1957, in RCP, 1958, 504. Secondo alcuni Autori non tutte le attività sottoposte a norme di carattere prevenzionale rientrano nell’art. 2050, giacché la soglia di rischiosità che impone l’adozione di specifiche cautele antinfortunistiche può essere inferiore al grado di dannosità ritenuto necessario ai fini della responsabilità civile: Geri, Le attività pericolose, cit., 307 s.; Di Martino, La responsabilità, cit., 93.

[98] Trib. Milano 5 settembre 1966, in RCP, 1967, 183.

[99] Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 298.

[100] Così App. Roma 23 dicembre 1960, in RCP, 1961 e Franzoni, Responsabilità per l’esercizio, cit., 484.

[101] Cass. 225 ottobre 1967, n. 2639, Lodesani c. Caselli, in MGI, 1967; Venditti, Sull’esercizio, cit., 1957, 745 s.; Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 281; Bocchiola, I rapporti tra l’art. 2050 c.c. e l’art. 2051 c.c., in T, 1969, 417; Di Martino, La responsabilità, cit., 86.

[102] Geri, Le attività pericolose, cit., 301.

[103] Trib. Bologna 1 aprile 1952, in RCP, 1953, 171.

[104] Legge di pubblica sicurezza, relativo regolamento, leggi speciali per la prevenzione dei sinistri e per la tutela della pubblica incolumità; cfr. Cass. 1 luglio 1987, n. 5764, Cons. autonomo porto Genova c. Soc. BFP, in MGI, 1987.

[105] Cass. 27 febbraio 1985, n. 1733, Flaminia c. Moccioli, in MGI, 1985; Cass. 2 febbraio 1983, n. 908, Paganini c. Credito Italiano, cit.; Cass. 22 febbraio 1979, n. 1155, Quaglia c. Traverso, cit. Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 296 e Franzoni, Responsabilità per l’esercizio, cit., 483 si sono compiaciuti di chiamare le prime fattispecie tipiche, e le seconde atipiche, di pericolosità.

[106] In questo senso App. Milano 16 gennaio 1973, in DPA, 1973, 815 ed il tradizionale Cossu, Ancora in tema di esercizio di attività pericolose e di interpretazione dell’art. 2050 c.c., in GM, 1979, 617.

[107] Regolato dalla l. 1860/1962 e dal d.p.r. 519/1975 nonché dal d.m. 20 marzo 1979.

[108] Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 302; Montel, In tema di responsabilità per danni da attività pericolose, in ARC, 1967, 115.

[109] Cass. 12 luglio 1957, n. 2820, Comp. United States Aviation Newport c. Min. Difesa, in MGI, 1957; Cass. 12 ottobre 1964, n. 2575, Min. Difesa c. Di Gregorio, ivi, 1964.

[110] Cass. 10 luglio 1979, n. 3978, Tonon c. Geremia, in MGI, 1979; Cass. 28 settembre 1968, n. 3011, Magnone c. Giorgi, ivi, 1968.

[111] Cass. 27 gennaio 1982, n. 537, Panunti e altro c. Enel, cit.

[112] Cass. 11 novembre 1977, n. 4893, Enel c. Ditta Patalacci, in MGI, 1977; Cass. 29 maggio 1989, n. 2584, Enel c. Scullino e altro, in GI, 1990, I, 1, 234 e in RGEnel, 1990, 145.

[113] Cass. 27 gennaio 1982, n. 537, cit. e supra.

[114] Il Supremo Collegio ha infatti ricordato che l’elevata infiammabilità della materia manipolata può causare lo scoppio dei recipienti in cui viene compressa: Cass. 24 novembre 1988, n. 6325, Soc. Agip Petroli c. Palaggi, cit.; Cass. 13 gennaio 1981, n. 294, Pilla e altro c. Lucchetta, in FI, 1981, I, 1325 e in RGCir, 1982, 812, nota; Cass. 20 luglio 1979, n. 4352, Soc. Fiorgas c. Varinelli, cit.; Cass. 9 maggio 1967, n. 934, Soc. Liquigas c. Celi, in MGI, 1967.

[115] Rispettivamente App. Roma 26 novembre 1975, in TR, 1975, II, 579 e Trib. Forlì 7 maggio 1976, in GI, 1978, I, 2, 430.

[116] Cass. 8 giugno 1985, n. 3445, Soc. Siderbox c. Bianco, in MGI, 1985.

[117] Cass. 20 luglio 1979, n. 4352, cit.; Cass. 9 maggio 1969, n. 1595, Soc. Flaminia c. Soc. Carpenter Barera, in MGI, 1969.

[118] App. Milano 16 maggio 1952, in RCP, 1952, 260. Da ultimo cfr. Trib. Milano 15 giugno 2000, in Giur. milanese, 2001, n. 1, 31.

[119] Cass. 13 febbraio 1978, n. 662, Soc. Stanic c. Carrassi, in MGI, 1978.

[120] Trib. Milano 14 luglio 1966, in RGCir, 1967, 93.

[121] App. Milano 8 luglio 1977, in GM, 1979, I, 605.

[122] Cass. 25 ottobre 1967, n. 2639, Lodesani c. Caselli, in MGI, 1967.

[123] Cass. 30 marzo 1967, n. 702, Brenna c. Grigato, in MGI, 1967.

[124] Infra per quel che riguarda l’attività venatoria e di tiro a segno. Per la pericolosità della mattazione cfr. Pret. Terni 29 luglio 1959, in FI, 1961, 275.

[125] Sul brillamento di mine cfr. App. Genova 24 giugno 1952, in RFI, 1952, Resp. civ., 187.

[126] Cfr. supra cap. XXIV, n. 2.

[127] Cass. 12 dicembre 1988, n. 6739, Crosara c. Costantini, in MGI, 1988; Cass. 24 novembre 1971, n. 3415, Monetti c. Soc. Assic. Compagnie du Soleil, ivi 1971.

[128] Così con grande misura Trib. Torino 15 gennaio 1970, in GM, 1973, I, 77.

[129] App. Roma 26 novembre 1975, in TR, 1975, II, 579 per la stretta connessione che presenta con eventuali incidenti del traffico.

[130] App. Napoli 5 dicembre 1951, in RCP, 1952, 260.

[131] App. Milano 22 maggio 1956, in T, 1956, 473.

[132] Cass. 8 ottobre 1970, n. 1895, Sabbadin c. Pianosi, in MGI, 1970.

[133] App. Milano 29 marzo 1966, in RGC, 1966, Resp. civ., 107.

[134] Cass. 11 novembre 1987, n. 8304, Grifo c. Spinella, in MGI, 1987.

[135] Cass. 24 luglio 1975, n. 1737, Ditta Cingolani c. Carletti, cit.

[136] Cass. 10 agosto 1949, n. 2271, D Olimpio c. Bernabeo e altro, in MGI, 1949.

[137] Cass. 20 febbraio 1982, n. 1085, Parisi c. Soc. Menara, in MGI, 1982.

[138] Cass. 3 gennaio 1966, n. 23, Mottareale c. Versace, in MGI, 1966.

[139] Cass. 23 giugno 1967, n. 1550, D’Angiolillo c. Soc. Naz. Riscald. Satragno, in MGI, 1967.

[140] Trib. sup. Acque 27 febbraio 1992, n. 14, Sollima e altro c. Enel e altro, in FI, 1992, III, 459.

[141] Esclusione dell’art. 2050 a proposito dell’aratura a mezzo di trattore agricolo: App. Catania 30 luglio 1969, in GM, 1970, I, 11; della mietitrebbiatura: Cass. 14 marzo 1980, n. 1733, Comune Catanzaro c. Loprete, in GC, 1980, I, 1014; della potatura degli ulivi: Cass. 8 luglio 1955, n. 2136, Ilario c. Pelle, in MGI, 1955.

[142] Cass. 21 aprile 1954, n. 1188, Durat c. Urban, in MGI, 1954.

[143] Per le segherie cfr. Cass. 12 novembre 1969, n. 3691, Martiniello c. Soc. Assic. Generali, in MGI, 1969; per le attività di carico e scarico con gru e simili arnesi cfr. Cass. 19 gennaio 1965, n. 103, Lenzi c. Cons. Porto Genova, in MGI, 1965; Cass. 1 luglio 1987, n. 5764, Cons. aut. porto Genova, cit.

[144] Trib. Novara 20 gennaio 1964, in RFI, 1965, Resp. civ., 338 s.

[145] App. Firenze 18 febbraio 1964, in DPA, 1964, 422.

[146] Cfr. Trib. Ravenna, ord., 28 ottobre 1999, in DR, 2000, 1012. Sul tema da ultimo cfr. Izzo, Sangue infetto e responsabilità civile: il danno da contagio fra responsabilità del produttore ed esercizio di attività pericolose, in DR, 2000, 933 ss. Inoltre infra capitolo XXIV.

[147] Cass. 20 luglio 1993, n. 8069, in FI, 1994, I, 455, in RC, 1994, 61, nota di Busato; Trib. Milano, 19 novembre 1987, in FI, 1988, I, 144, nota di Caruso, in RC, 1988, 407, nota di Tassoni.

[148] Cass. 30 novembre 1977, n. 5222, Stefanelli c. Inail, in MGI, 1977; Cass. 23 dicembre 1968, n. 4072, Romoli c. Gualco, in MGI, 1968; Cass. 28 settembre 1964, n. 2442, Manarini c. Tomasoni, in MGI, 1964. Si ricordi che la vittima partecipante alla caccia non è considerata in concorso di colpa.

[149] Pret. Porretta Terme 20 giugno 1968, in RCP, 1968, 495.

[150] App. Bologna 26 febbraio 1972, in DPA, 1973, 815; Trib. Bolzano 5 aprile 1975, in DPA, 1975, 760.

[151] Trib. Savona 20 dicembre 1965, in GI, 1966, I, 2, 557; Trib. Como 31 maggio 1972, in DPA, 1972, 776.

[152] Cass. 27 novembre 1972, n. 3462, Az. Aut. Turismo Desenzano c. Pagliarini, in MGI, 1972.

[153] Cass. 24 maggio 1988, n. 3616, Boscarato c. Inps, in GI, 1989, I, 1, 99; Cass. 22 febbraio 1979, n. 1155, cit.; contra Cass. 15 febbraio 1979, n. 1002, Lattuada c. Tollini, in MGI, 1979.

[154] Pret. Bologna 4 febbraio 1964, in RCP, 1966, 277; Trib. Roma 31 gennaio 1967, in TR, 1967, II, 253; Trib. La Spezia 14 aprile 1966, in RFI, 1967, Resp. civ., 271.

[155] Su tali temi cfr. Di Ciommo, Il punto sulla r.c. dell’organizzatore di eventi sportivi e sui (nuovi?) rapporti tra C.O.N.I. e federazioni alla luce del d.lgs. 242/1999, in DR, 2000, 616; De Marzo, Responsabilità civile dell’organizzatore di competizioni sportive nei confronti degli spettatori: clausola generale di responsabilità e art. 2050 c.c., in Riv. dir. sport., 1992, 268; Giannini, La responsabilità civile degli organizzatori di manifestazioni sportive, in RDS, 1986, 277.

[156] Geri, Le attività pericolose, cit., 492 s.

[157] App. Milano 2 giugno 1981, Automobil Club Verona c. Manfredini e altro, in RGC, RCP, 1982, 36.

[158] Trib. Brescia 5 marzo 1970, in RGC, RCP, 1971, 55.

[159] Trib. Milano 18 luglio 1963, in ARC, 1967, 135, precedente ancora ribadito in Trib. Milano 21 marzo 1988, Wanninger c. Soc. Intern. Milano F.C., in RCP, 1988, 766.

[160] Trib. Napoli 21 maggio 1986, Allevamento Ischitella c. Soc. Ippica Villa Glori, in RCP, 1986, 568 e in AC, 1986, 973.

[161] Trib. Milano 12 novembre 1992, Mazzoleni c. Gianesini e altro, in RCP, 1993, 616, nota di Dassi.

[162] Trib. Roma 5 febbraio 1992, Scannolla c. Soc. Sportiva Lazio, in RDS, 1992, 90, nota di Bellantuono.

[163] Trib. Genova 4 settembre 1991, in RDS, 1992, 79.

[164] Cass. 22 novembre 1991, n. 12538, Min. P.I. c. Sportass, in RDS, 1992, 660.

[165] Trib. Milano 5 settembre 1966, in RCP, 1967, 183; App. Firenze 24 novembre 1964, ivi, 1965, 194.

[166] App. Roma 23 giugno 1962, in RCP, 1963, 176; Trib. Alessandria 30 dicembre 1967, in RFI, 1968, Resp. civ., 81. La pericolosità è stata negata anche nel caso di una piscina vuota non recintata Trib. Palermo 8 novembre 1963, in RCP, 1964, 314.

[167] A favore della pericolosità App. Milano 13 febbraio 1962, in RCP, 1962, 378; Trib. Napoli 26 marzo 1965, in ARC, 1967, 141; contra App. Napoli 16 febbraio 1962, in RCP, 1963, 178; Trib. Bologna 21 dicembre 1962, in DPA, 1963, 291.

[168] A favore Pret. Milano 12 gennaio 1971, in RGC, 1972, Resp. civ., 58; App. Milano 16 gennaio 1973, in DPA, 1973, 815.

[169] App. Firenze 9 maggio 1967, in RGC, 1967, Resp. civ., 102.

[170] Cass. 15 febbraio 1951, n. 388, Motto c. Migliorini, in MGI, 1951.

[171] Cass. 8 aprile 1978, n. 1629, Mazza c. Soc. Molinat, in MGI, 1978.

[172] Locazione di autoveicoli: Cass. 5 dicembre 1961, n. 2766, Montani c. Garatti, in MGI, 1961; di patìni: Cass. 29 maggio 1972, n. 1712, Caffaz c. Bonvini, ivi, 1972; collaudo di macchina frangighiaia: Trib. Lucca 30 ottobre 1974, in RGC, 1975, Resp. civ., 24; gestione di un’altalena da parte di un collegio: Trib. Massa 21 febbraio 1977, in GI, 1978, I, 2, 248; gestione di una grotta naturale: App. Firenze 18 febbraio 1964, in DPA, 1964, 422; gestione di un cinematografo: App. Firenze 24 luglio 1963, in RCP, 1964, 314; imbottigliamento e distribuzione di bevande gassate: Cass. 27 febbraio 1980, n. 1376, Papa c. Soc. Bar Cristallo e altro, in GI, 1980, I, 1, 1459; apertura al pubblico di un complesso archeologico: Trib. Napoli 14 aprile 1987, Mastrogiovanni c. Ministero Beni culturali e ambientali, in FI, 1988, I, 272; distribuzione di pneumatici: Trib. Torino 25 novembre 1987, Terzago c. Soc. Dunlop Italiana, in GC, 1988, I, 2728, nota.

[173] Trib. Napoli 5 marzo 1985, Cameretti c. Banco Napoli, in DG, 1985, 712; Trib. Genova 5 aprile 1978, in GI, 1981, I, 2, 160; App. Genova 21 dicembre 1979, Paganini c. Credito Italiano, in GI, 1980, I, 2, 159, nota.

[174] Pericolosità della panificazione: Cass. 6 maggio 1978, n. 2189, Rusconi c. Del Zoppo, in MGI, 1978; non pericolosità dell’addestramento al pilotaggio aereo: App. Roma 12 dicembre 1964, in RCP, 1965, 91.

[175] Di Martino, La responsabilità, cit., 65; su cui cfr. Franzoni, Il danno da attività pericolose, cit., 162; e 1993, 484. Il Franzoni parla a questo proposito di individuazione dei soggetti del rapporto obbligatorio nascente dall’esercizio di attività pericolose. La dizione non ci convince. Dall’esercizio dell’attività non nasce nessun rapporto obbligatorio; questo nasce dall’illecito consistente nel danno ingiusto recato in occasione dell’esercizio della attività pericolosa.

[176] In particolare i soci di società di persone e gli amministratori di società di capitali, in quanto questi soggetti sarebbero loro stessi esercenti dell’attività pericolosa; mentre, evidentemente, non lo sarebbero i soci di società di capitali.

[177] Cfr. Patti, Famiglia e resp. civ., Milano, 1984.

[178] Non si tratta qui, come vedremo, di una applicazione della nozione tecnica di terzo, ma semplicemente della distinzione tra esercente e non esercente l’attività, che è l’unica distinzione rintracciabile nella norma in esame.

[179] Trib. Como 31 maggio 1972, in DPA, 1972, 776; Trib. Firenze 9 agosto 1966, in GI, 1967, I, 2, 248 e cfr. Librando, Appunti sull’applicabilità dell’art. 2050 c.c., in FP, 1967, 45 s.

[180] Cap. XIX, n. 3 ss.

[181] Cass. 9 maggio 1969, n. 1595, Soc. Flaminia c. Soc. Carpenter Barera, cit.; Cass. 16 ottobre 1957, n. 3860, Ferrovie Stato c. S.a.c., in MGI, 1957; Franzoni, La responsabilità per l’esercizio, cit., 472 e Dei fatti illeciti, in Comm. Scialoja e Branca, Bologna-Roma, 1993, 484 ss.

[182] Chiara sul punto la giurisprudenza: cfr. Cass. 30 novembre 1957, n. 5222, Stefanelli c. Inail, in MGI, 1957; Cass. 19 gennaio 1977, n. 261, Cassa Mutua malattia Bolzano c. Huber, in MGI, 1977.

[183] Il quale sicuramente non è terzo rispetto all’attività pericolosa di impresa in cui si inserisce (cfr. supra). Il non aver considerato la differenza che corre tra il concetto di «terzo» e di «estraneo» all’attività, è stata fonte di confusioni e fraintendimenti. Tale distinzione d’altronde non è affatto né nuova né estranea alla dogmatica. Si pensi alla confusione parossistica in cui è caduto Trib. Modena 25 settembre 1959, in DPA, 1966, 463, ed anche Bonvicini, La responsabilità civile per fatto altrui, cit., 404, nell’affermare che il lavoratore che deve impiegare i mezzi di lavoro di cui conosce la pericolosità diventa «oggetto» dell’attività, sicché non può rivestire la qualifica di soggetto attivo.

[184] Molto chiara in questi termini sul punto è infatti Cass. 10 dicembre 1970, n. 2628, Soc. Vela c. Ragazzini, in MGI, 1970, nonché App. Firenze 14 dicembre 1959, in GC, 1960, I, 403.

[185] Ora in base al disposto dell’art. 10, d.p.r. 1124/1965. Tale esonero è giustamente sottolineato da Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 285 s. e preconizzato da Cass. 22 novembre 1950, n. 2628, Santilli c. Impresa Guffanti, in MGI, 1950.

[186] Art. 10, d.p.r. 1124/1965.

[187] Con una certa approssimazione il punto è comunque chiaro nella letteratura: cfr. Bonvicini, La responsabilità civile per fatto altrui, cit., 400; Di Martino, La responsabilità, cit., 1979, 60; Geri, Le attività pericolose, cit., 290.

[188] Cass. 13 gennaio 1981, n. 294, Pilla c. Lucchetta, cit.

[189] Cass. 22 novembre 1950, n. 2628, Santilli c. Impresa Guffanti, cit.; Bonvicini, La responsabilità civile per fatto altrui, cit., 397 ss.; Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 285. Si diffonde il De Cupis, Dei fatti illeciti, cit., 81 a discutere le preferenze dell’attore nell’invocare l’art. 2049 o l’art. 2050.

[190] Ad es. l’ente gestore dello stabilimento balneare rispetto alla attività di sci nautico: Cass. 27 novembre 1972, n. 3462, Az. Aut. Turismo Desenzano c. Pagliarini, in MGI, 1972.

[191] Cass. 18 marzo 1965, n. 455, Braghetti c. Albini, in MGI, 1965; Cass. 7 luglio 1964, n. 1777, Cirilli c. Min. Trasporti, ivi 1964. Così non risponde il Comune per l’attività di manutenzione dei semafori svolta da un’impresa appaltatrice in posizione di autonomia: Pret. Roma 11 aprile 1969, in TR, 1971, II, 385. Né risponde il comitato di festeggiamenti per l’attività pirotecnica svolta da una ditta specializzata: Cass. 28 marzo 1966, n. 835, Ciccodicola c. Di Carlo, in MGI, 1966; App. Milano 14 giugno 1974, in RGC, 1974, Resp. civ., 41. Se l’appalto riguarda solo una parte dell’attività (ad es. servizi antiincendio in occasione di gara automobilistica) allora l’appaltante rimane il «Signore in capite» dell’esercizio o dell’organizzazione dell’attività, e, dunque, risponde (App. Milano 2 giugno 1981, ACI Verona c. Soc. Urep Chimec, in RDS, 1983, 411) salvo poi rivalersi sull’appaltatore.

[192] Supra n. 2.

[193] Così Trib. Rossano 10 aprile 1965, in ARC, 1967, 142.

[194] App. Firenze 14 dicembre 1959, in FI, 1960, I, 403.

[195] Vuole applicargli l’art. 2050 Di Martino, La responsabilità, cit., 80, sulla base dell’argomento per cui il fatto di aver facoltizzato altri all’esercizio dell’attività costituisce una forma di efficiente partecipazione allo svolgimento dell’attività.

[196] Cfr. supra cap. XXII, n. 8.

[197] Cass., Sez. Un., 17 maggio 1958, n. 1608, Min. Interno c. Milillo, in MGI, 1958.

[198] Cass. 21 giugno 1984, n. 3678, Filippini c. Assoc. Atus, in RGEnel, 1985, 447; Cass. 31 marzo 1967, n. 746, Industrie Chimiche Bonelli c. Bornaghi, in MGI, 1967.

[199] Franzoni, Il danno da attività pericolose, cit., 191; Di Martino, La responsabilità, cit., 130; Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 295; Bonvicini, La responsabilità per le cose, cit., 430; Del Conte, Responsabilità, cit., 570 s.

[200] Cass. 30 marzo 1967, n. 702, Brenna c. Grigato, in MGI, 1967.

[201] Si giunge così a sostenere che la vittima non può giovarsi della protezione più favorevole dell’art. 2050 di fronte ad un rischio cui si sarebbe trovata esposta ugualmente, anche se l’attività fosse stata priva di qualsiasi connotato di pericolosità: Cossu, Ancora in tema, cit., 616 s.

[202] Cass. 28 ottobre 1980, n. 5799, Soc. Ultragas c. Liverani, cit.

[203] Si pensi alla formula del Geri, Le attività pericolose, cit., 484 secondo cui il legame andrà escluso ogniqualvolta il pregiudizio continui a sussistere anche indipendentemente dalla pericolosità dell’attività considerata.

[204] Così Cass. 19 settembre 1970, n. 1582, Castagno c. Impr. Cistr. Edili Righetti, in MGI, 1970.

[205] Così Cass. 25 gennaio 1960, n. 63, Canzio c. Ditta Accati, in MGI, 1960.

[206] Cass. 13 gennaio 1982, n. 182, Quarta c. Soc. Emmepigas e altro, cit.

[207] Cass. 21 giugno 1984, n. 3678, cit.; Cass. 8 febbraio 1975, n. 509, Guidi c. Soc. Ultragas, in MGI, 1975; Cass. 25 gennaio 1960, n. 63, cit.

[208] Cass. 8 maggio 1984, n. 2796, Fossati c. Soc. Italsider, in MGI, 1984. Nell’opinione di alcuni autori (Di Martino, La responsabilità, cit., 132; Franzoni, Il danno da attività pericolose, cit., 193) tale prova può risultare particolarmente gravosa, ad esempio in relazione a danni provocati da sostanze i cui effetti nocivi non sono al momento valutabili in tutta la loro portata. Ma mi sembra che ciò sia sempre vero e nient’affatto peculiare all’art. 2050.

[209] Sul punto si accaniscono De Martini, I fatti, cit., 248; Franzoni, Il danno da attività pericolose, cit., 202; Scognamiglio, Responsabilità civile, cit., 647; Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 298.

[210] App. Milano 8 novembre 1974, in DPA, 1976, 703 con riferimento all’attività edilizia effettuata in un cantiere, ed alla circostanza per cui erano stati posti cartelli di divieto d’ingresso, nonché il cantiere stesso era stato recintato in modo da richiamare l’attenzione dei terzi sulla situazione di pericolo.

[211] Unanimi sul punto Di Martino, La responsabilità, cit., 136; Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 298; ed anche Geri, Le attività pericolose, cit., 304.

[212] De Martini, Responsabilità per danni, cit., 977.

[213] Così ineccepibilmente Trib. Milano 19 novembre 1987, Ferriello c. Soc. Crinos e altro, in FI, 988, I, 144 e in RCP, 1988, 407.

[214] App. Brescia 24 marzo 1988, Soc. Sciovie Carisole c. Enel, in RGEnel, 1989, 156; Alpa e Bessone, I fatti illeciti, I, cit., 334.

[215] Militano in tal senso Cass. 20 febbraio 1982, n. 1085, Parsi c. Soc. Menara, in MGI, 1982; App. Cagliari 31 gennaio 1961, in RCP, 1963, 178, e financo Geri, Le attività pericolose, cit., 310; mentre sono andate draconianamente in senso contrario Cass. 8 ottobre 1970, n. 1895, Sabbadin c. Pianon, in MGI, 1970 e Cass. 13 aprile 1977, n. 1391, Enel c. Canterani, ivi, 1977, giungendo a sostenere la conclusione contraria ai principi (e quindi evidentemente raggiunta per incuriam) per cui, la mancata adozione delle cautele prescritte, farebbe sgorgare la responsabilità dell’esercente, anche quand’essa non ha spiegato alcun riflesso diretto nella determinazione del danno.

[216] Così Cass. 10 dicembre 1970, n. 2628, cit.; App. Firenze 9 maggio 1967, in RGC, 1967, Resp. civ., 102. Plaude a tale soluzione Geri, Le attività pericolose, cit., 300.

[217] Cass. 21 novembre 1984, n. 5960, Paolillo c. Caramico, in MGI, 1984; Cass. 9 maggio 1967, n. 934, Soc. Liquigas c. Celi, ivi, 1967. Contro tale impostazione si era dichiarato il Montel, In tema di responsabilità, cit., 1967, 115.

[218] Della stessa opinione Franzoni, Il danno da attività pericolose, cit., 205; esprime invece una diversa valutazione Comporti, Esposizione al pericolo, cit., 267.

[219] Cass. 13 gennaio 1982, Quarta c. Soc. Emmepigas, cit.; così pure Bessone, I problemi di interpretazione dell’art. 2050 c.c. e gli obiter dicta della giurisprudenza, in GM, 1983, 1060. Causa esterna significa ovviamente causa indipendente dalla pericolosità tipica dell’attività svolta: ad esempio la sovratensione elettrica originata da un temporale non può essere considerata caso fortuito in relazione alla gestione di cavi ad alta tensione: Trib. Messina 22 settembre 1961, in RCP, 1962, 97.

[220] Cfr. ad es. Trib. Savona 20 dicembre 1965, in GI, 1966, I, 2, 557; App. Firenze 24 novembre 1964, in RCP, 1965, 194.

[221] Trib. Milano 15 giugno 2000, in Giur. Milanese, 2001, n. 1, 31.

[222] In questi termini Cass. 19 settembre 1970, n. 1582, cit.

[223] Così Cass. 18 settembre 1980, n. 5307, Soc. Mag. Silos c. Martinucci e altro, in MGI, 1980; Cass. 6 maggio 1978, n. 2189, Rusconi c. Del Zoppo, cit.

[224] Cass. 10 settembre 1952, n. 2883, Gargiulo c. Soc. Meridiana Elettricità, in MGI, 1952.

[225] Cass. 1 giugno 1968, n. 1647, Az. Elettr. cons. Bolzano c. Mary, in MGI, 1968, la quale ha evidentemente costruito un dovere dell’esercente di sorveglianza dei cavi, e di sopralluogo costante dei medesimi, simile a quello che potrebbe incombere sul custode della cosa.

[226] Cass. 8 ottobre 1970, n. 1895, Sabbadin c. Pianon, in FI, 1970, I, 3058; Cass. 12 novembre 1969, n. 3691, Martiniello c. Soc. Assic. Generali, cit.; Cass. 25 gennaio 1960, n. 63, Canzio c. Ditta Accati, cit.

[227] Cass. 13 aprile 1977, n. 391, Enel c. Canterani, cit. Elifaz di Teeman e i suoi amici avrebbero trovato ottimi argomenti per consolare il nucleo dei parenti rimasti.

[228] Trib. Pesaro 20 maggio 1961, in RCP, 1963, 177.

[229] Cass. 25 ottobre 1967, n. 2639, Lodesani c. Caselli, cit.

[230] Cass. 21 gennaio 1954, n. 1188, Durat c. Urban, in MGI, 1954.

[231] Vittima che passeggia in una località in cui viene praticata la caccia: Cass. 23 dicembre 1968, n. 4072, Romoli c. Gualco, in MGI, 1968; Cass. 28 settembre 1964, n. 2442, Manarini c. Tomasoni, ivi, 1964.

[232] C. cost. 4 marzo 1992, n. 79, Anedda c. Carriga, in FI, 1992, I, 1347, nota di Ponzanelli; in GiC, 1992, 807; in GC, 1992, I, 1430; in RCP, 1992, 348; in AC, 1992, 251; in CS, 1992, II, 373; in GI, 1992, I, 1, 1202; per l’ordinanza di rimessione si veda Trib. Monza 4 aprile 1991, in AC, 1992, 21.

[233] Si trattava del caso di un pallino anonimo sparato nell’esercizio dell’attività venatoria. Gli articoli invocati per l’incostituzionalità dell’art. 2050 erano stati il 3 e il 24.


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