Il silenzio dibattimentale del coimputato:
dubbi interpretativi e prospettive future
degli artt. 513 e 210 c.p.p.

degli avvocati Carlo Alberto Zaina e Filippo Maria Airaudo

 

 

L’ordinanza del Tribunale di Rimini, con la quale si devolve all’attenzione della Corte Costituzionale la valutazione di conformità all’ordinamento degli artt. 513, 210 e 392 lett. d) c.p.p., merita particolare attenzione, soprattutto in relazione alla tematica riguardante l’esercizio del diritto al silenzio da parte dell’imputato, già giudicato separatamente, che in fase di indagini preliminari o nell’udienza preliminare abbia rilasciato all’autorità dichiarazioni auto ed eteroindizianti.

Il Collegio, infatti, avverte il disagio della mancata evoluzione normativa (rectius adeguamento normativo) dell’istituto regolato dall’art. 210 c.p.p., che si porrebbe, come ultroneo rispetto alla epocale ristrutturazione sia dell’art. 111 Cost., che del travagliato e continuo mutamento di pelle dell’art. 513 c.p.p..

In pratica, se quest’ultima norma ha dovuto, in modo radicale, scontare il dirompente effetto garantista di cui sembra permeato l’art. 111 della Costituzione, (con la conseguenza di un concreto mutamento del regime relativo alle letture delle dichiarazioni accusatorie dell’imputato, e dell’impossibilità per il giudice di utilizzare a fini di giudizio (rectius di condanna) le dichiarazioni di cui al co. 1° dell’art. 513 c.p.p., senza il consenso dell’interessato), appare evidente, secondo il pensiero del Collegio, che sia necessario che si equilibri la situazione, in quanto l’art. 210 c.p.p., richiamato dal co. 2° dell’art. 513 c.p.p. risulterebbe, in concreto norma ad effetti premiali per l’imputato.

Questi, infatti, bene potrebbe venir quasi automaticamente assolto nel silenzio dibattimentale dell’accusatore, e nell’impossibilità di rendere utilizzabili, a fini decisori le di lui dichiarazioni rese aliunde, cioè in precedenza (in caso di assenza di altri elementi di prova)

Va detto che, a parere di chi scrive, se rilevante appare la questione in ordine al contrasto fra l’art. 513, così come risultante dalla sent. n. 36 del 2 Novembre 1998 della Corte Costituzionale, che ha rilevato l’impossibilità dell’utilizzo ex art. 500 c.p.p. (co 2 bis e 4 c.p.p.) delle dichiarazioni precedentemente rese dal dichiarante che si avvalga della facoltà di non rispondere in dibattimento, la massima portata dell’ordinanza in esame si dispiega in relazione alla distonia diretta che si parrebbe evidenziarsi, secondo i primi giudici, fra l’art. 111 cost. e l’art. 210 c.p.p..

Il Tribunale, infatti, sia per l’una, che l’altre delle indicate questioni si pone il problema tecnico del recupero delle dichiarazioni accusatorie rese nel corso delle indagini, laddove in sede dibattimentale la persona da esaminare, regolarmente citata, non intenda rispondere.

Per quanto attiene alla situazione regolata propriamente dall’art. 513 c.p.p., si evidenzia la rilevante contrapposizione fra l’intervento del Giudice delle Leggi, (che – nella nota sentenza, richiamata – ha fornito una intepretazione estensiva, per il caso di mancato accordo fra le parti, ritenendo che le dichiarazioni rese in indagine preliminare o in udienza preliminare, possano assumere la valenza di vere e proprie contestazioni ai sensi dell’art. 500 co. 2bis e 4 c.p.p. e che tale mancata previsioni renda la norma contrastante con le legge fondamentale) e l’art. 111, quale norma costituzionale di recente promulgazione.

Si rileva, infatti, correttamente da aprte del Tribunale che nella situazione ipotizzata, ci si verrebbe a scontrare con la conseguenza di una acquisizione surrettizia delle dichiarazioni accusatorie, utilizzabili ed inseribili nel fascicolo del dibattimento, da aprte del giudicante, con la marchiana elusione del principio costituzionale portato dall’art. 111 Cost..

Si addiverrebbe, pertanto, ad impedire il verificarsi e radicarsi di quel controllo in sede di contraddittorio, che, per converso, ha, invece natura di tassatività, e che sopporta, con il meccanismo di cui al co. V della norma costituzionale richiamata, solo eccezioni espressamente previste, a pena di lesione del diritto di difesa.

Sicchè non può che condividersi la lucida ed attenta preoccupazione dei giudici del Tribunale, sul punto e le ragioni che sottendono alla stessa.

Maggiormente articolata e complessa è, invece, la disamina riguardante l’armonizzazione del diritto a tacere, dell’indagato in reato connesso, rispetto alla presunta necessità di recupero delle precedenti dichiarazioni dal medesimo rese in altra sede e fase processuale.

La tematica viene affrontata con un taglio molto preciso, che attesta e conferma la preoccupazione dei giudici, a che la mancata risposta dell’interessato alle domande, vanifichi i risultati dell’indagine, non essendo previsto dal legislatore un meccanismo legislativo che permetta il recupero e l’uso processuale degli elementi accusatori precedenti.

In questo caso, la nettissima divaricazione che emerge fra ciò che è accaduto in sede di indagini preliminari e di udienza preliminare, e ciò che, a contrasto, può avvenire in sede di giudizio dibattimentale è il motore della decisione del Collegio.

La non vanificazione del materiale probatorio raccolto dal P.M., laddove detto materiale, ope legis, risulti inutilizzabile per il successivo silenzio dibattimentale dell’interessato, diviene spunto per i giudici remittenti che affermano come il contemperamento delle due opposte esigenze – diritto al silenzio previsto dall’art. 210 C.P.P. e assunzione della prova in contraddittorio – può essere assolto, solo con la limitazione della facoltà di non rispondere in dibattimento riconosciuta alle persone di cui all’articolo 210 co. 1 che, per effetto dei nuovi principi introdotti dall’articolo 111 Cost., non può più essere assoluta e valida per il dichiarante "erga alios".

Chi scrive, pur rendendosi conto della portata del timore espresso dal Tribunale, non può esimersi dall’osservare che non può e non deve essere il Giudice (ancorché di rango pari alla Corte Costituzionale) a supplire a vuoti ed omissioni del legislatore.

Siffata pratica frutto degli anni del terrorismo non può essere coltivata in una materia così delicata.

In buona sostanza, sino a che la legge penale riterrà esistente una figura certamente ibrida, quale quella prevista dall’art. 210 co. 1 c.p.p., riferita ad un soggetto sottoponibile ad esame, alla stregua di un teste, ma insuscettibile dei doveri propri del testimone, non si potrà assolutamente ritenere che l’esercizio del silenzio, che a tale figura si riconosce, sia in contrasto con il principio del contraddittorio, laddove non vi sia pregiudizio per l’imputato, il quale è titolare del diritto al consenso sull’utilizzazione della prova in oggetto.

Il prevedere che l’imputato possa o meno accondiscendere all’inserimento nel fascicolo del giudizio di dichiarazioni rese in ambiti nei quali non è possibile un controllo diretto (ad es. interrogatorio del P.M. nelle indagini preliminari) è riconoscimento certo ed espresso del diritto all’esercizio della prova, che risulta armonico alla riserva di legge costituzionale.

Deriva da queste osservazioni, quindi, un primo concreto dubbio sulla fondatezza delle ragioni avanzate dal Collegio.

Ciò affermato, si deve, piuttosto, per meglio comprendere il rapporto intercorrente fra le norme in esame, soffermare la nostra attenzione sulla portata generale dell’art. 111 Cost. e le conseguenze a cascata che la norma ha determinato.

Non si dimentichi, in primis, la ventata di garantismo effettivo della stessa.

Essa, infatti, è stata promulgata (dopo lunghissime discettazioni) proprio per evitare che le sentenze di condanna si fondassero su chiamate in correità prive di un vaglio critico in sede di contraddittorio, perché rese in assenza di un giudice terzo, e di tutte le parti processuali interessate.

Si è, quindi, tentato di riportare su di un piano di effettiva parità accusa e difesa, evitando che la prova si materializzasse in ambiti diversi dal dibattimento (luogo deputato dal legislatore a tale fine) e che si fosse assunta in violazione dei diritti della difesa.

Nel caso che ci occupa, invece, la prospettiva formulata dai giudici di Rimini, pare muoversi nel senso opposto al dettato costituzionale.

Essa sembra mirare a che si giunga a costringere il dichiarante ad assumere la vera e propria qualità di teste, per il caso di dichiarazioni "contra alios"; il tutto all’evidente fine di evitare che l’imputato possa venire assolto in ossequio della regola di giudizio portata dall’art. 111 Cost..

A conferma del proprio orientamento, il Collegio espressamente richiama i lavori parlamentari in itinere (testo del Senato 6590/C), con i quali si avrebbe una previsione normativa tesa alla riduzione dei casi di incompatibilità a testimoniare ex art. 197 c.p.p., venendosi, così, ad attuare quel principio di ricerca della verità, inteso quale fine primario del processo penale, eliminando gli ostacoli che ad essa si possano frapporre.

In linea meramente teorica il principio sancito dalla Corte Costituzionale con la citata sentenza n. 255/1992 non può che essere condivisibile.

Nella pratica, invece, l’esperienza è certamente diversa e permette di affermare che troppe volte il supremo scopo del raggiungimento della verità (processuale) è stato sbandierato a fini di limitazione del diritto di difesa.

Se effettivamente si volesse impostare la codicistica penale a tale obbiettivo andrebbero mutate anche le norme in tema di prova ed unificato il criterio di valutazione della stessa, oggi portato con un criterio binario ed antitetico dagli artt. 273 e 192 c.p.p..

In una parola sarebbe necessario ripensare per l’ennesima volta ad una procedura organicamente diversa, che fissi modi e tempi di assunzione della prova dichiarativa, sin dall’inizio dell’indagine, nei quali la difesa partecipi efficacemente

Siamo, pertanto, in presenza, quindi, di una interpretazione che, a parere di chi scrive, configge non solo con la ratio originaria del citato articolo, ma che tende ad implicita riduzione delle garanzie difensive.

Si deve, infatti, ribadire che la auspicata compressione del diritto al silenzio ex art. 210 c.p.p. rientra in un contesto decisionale, che, per definizione, deve essere riservato al Parlamento quale eventuale scelta di carattere normativo e non può essere delegato – a meno di uno straripamento di poteri – all’organo giurisdizionale.

Chi scrive, inoltre, deve sottolineare che la remissione al Giudice delle Leggi di siffatta problematica, investe un organo che, ove dovesse pronunziarsi nel senso prospettato dal remittente, eccederebbe le proprie attribuzioni, con evidente conflitto fra i poteri dello Stato, venendo invasa indebitamente la funzione legislativa.

Invero il co. V dell’art. 111 Cost., nel riservare alla legge ordinaria, quale fonte sottoordinata, la disciplina dei casi in cui la prova non ha luogo in contraddittorio, non considera neppure indirettamente l’ipotesi involta dalla questione in esame.

La riserva contenuta nella disposizione in esame è limitata ad ipotesi chiare e tassative, che possono subire modifica solo per il tramite di un nuovo intervento di architettura legislativa, attraverso il ricorso alla procedura portata dall’art. 138 Cost.

Ciò posto, non può, peraltro tacersi la comprensione per l’evidenza del disagio vissuto dai giudici emittenti l’ordinanza in oggetto, di fronte ad interventi in materia processualpenalistica, che si connotano per uno spiccato carattere di provvisorietà, disarticolazione, ispirate, da oltre un ventennio (quello degli anni di piombo), alla logica di fronteggiare quotidianamente l’emergenza, senza un programma più complessivo.

Non si può, infatti, omettere di ricordare come l’art. 111 Cost. sia sopravvenuto al preesistente art. 210 c.p.p..

Si potrà, anche, discutere della circostanza che il legislatore costituzionale abbia, sorvolando (scientemente od inconsapevolmente) su di una delle questione più spinose delle fase dibattimentale.

Si potrà, forse, affermare che il Parlamento abbia, in realtà, operato una scelta politica estremamente precisa.

Certo è che, oggi, tale opzione non può venire vanificata in sede giurisdizionale.

Del pari la sospetta incostituzionalità della norma codicistica in parola (nonché dell’art. 392 lett. d) c.p.p.), ritenuta sotto altri aspetti, quali la violazione del diritto di uguaglianza, e del diritto a non essere distolto dal giudice naturale, non sembra – alla luce delle premesse sin qui svolte – sussistente, attesa la specificità della situazione di cui l’art. 210 c.p.p. è portatore.

Consegue, quindi, che qualunque sia l’opinione che si possa nutrire sull’impianto codicistico messo a nudo dall’ordinanza del Tribunale di Rimini, non si potranno operare serie riforme (neppure di dignità costituzionale), perseguendo in una legislazione a macchia di leopardo.

Si impone un vero e serio coordinamento, in ordine all’assunzione ed alla valorizzazione delle prove, (e la testimonianza -da chiunque provenga- è considerata la regina), fra indagini preliminari e fase del giudizio, recuperando la centralità e priorità di quest’ultima, esaltando il contraddittorio.

E se il vero futuro del processo penale risiedesse proprio nel ridimensionamento delle indagini preliminari ?

Avv. Carlo Alberto Zaina

Avv. Filippo Maria Airaudo