TAR CAMPANIA, sez. I, sent. 2.8.2000 n. 3102 (Coraggio, Pres. – Scafuri, rel.), URCIUOLO Reginaldo (Avv. Franco ed Alfredo IADANZA) contro MINISTERO DELLA GIUSTIZIA. – DESTITUZIONE DAL SERVIZIO – TERMINE PREVISTO DALL’ART. 9 L. 19/1990 – PERENTORIETA’ – PROVVEDIMENTO ADOTTATO OLTRE IL PREDETTO TERMINE – ILLEGITTIMITA’.

di ALESSANDRO BIAMONTE
(Avvocato del foro di Napoli)

La decisione in esame interviene in una materia segnata da innumerevoli e, a volte, non concordi pronunce giurisprudenziali. La natura (perentorietà o meno) del termine previsto per la durata del procedimento disciplinare rappresenta un tema fortemente dibattuto, in considerazione della natura dei beni costituzionalmente protetti che sono coinvolti.

I termini per promuovere l’azione disciplinare (e conseguentemente concludere il procedimento), come ha recentemente ribadito la Corte Costituzionale in una sentenza pubblicata, per ironia della sorte, in concomitanza con la pronuncia del Tribunale Amministrativo qui riportata (C. Cost., sent. 12-27 luglio 2000 n. 375, in G. Uff., 1a serie sp., 2.8.2000 n. 32) "mirano a garantire la posizione del dipendente e, al tempo stesso, il buon andamento dell’amministrazione" (cfr. anche C. Cost. sentt. nn. 197/1999, 104/1991 e, prima dell’entrata in vigore della legge 19/1990, sent. 1129/1988); per tali motivi, ribadisce la Consulta, "l’azione disciplinare si deve iniziare tempestivamente, senza ritardi ingiustificati – o peggio arbitrari – rispetto al momento in cui l’amministrazione ha conoscenza della pronuncia irrevocabile di condanna". Per tali motivi è stato dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 38 della L. 18.10.1961 n. 1168 "nella parte in cui non prevede il termine di decadenza di 180 giorni dalla cognizione della sentenza irrevocabile di condanna per il promovimento del procedimento disciplinare a carico dei vice brigadieri e dei militari di truppa dell’Arma dei Carabinieri"; confermando, così, la necessità di prevedere termini certi a tutela dell’interesse pubblico e di quello del privato (e conseguentemente sanzionare con la decadenza il loro mancato rispetto).

La necessità di garantire lo svolgimento del procedimento, secondo regole precise che ne stabiliscano precise cadenze (limitando così, garantisticamente, lo stato di incertezza in cui versano il pubblico dipendente e la P.A.), ha, pertanto, sempre più orientato il Giudice amministrativo nel senso della perentorietà dei termini prefissati (Cons. St., VI, 4.9.1998 n. 1217).

Al fine di inquadrare il quadro normativo è opportuno ricordare che l’art. 9 della Legge 7.2.1990 n. 19, dopo aver statuito, al co. 1, il divieto di destituzione di diritto – senza cioè la promozione di un procedimento disciplinare in contraddittorio – a seguito di sentenza penale di condanna, dispone (co. 2) che la destituzione può essere inflitta all’esito del procedimento proseguito o promosso entro centottanta giorni dalla data in cui l’amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile, e concluso nei successivi novanta giorni.

Differente la previsione relativa al procedimento disciplinare promosso a seguito di sentenza di proscioglimento. In tale caso (art. 97, co. 3, DPR 3/1957), lo stesso deve avere inizio, con la contestazione degli addebiti, entro 180 giorni dalla data in cui è divenuta irrevocabile la sentenza di proscioglimento (e non già dal momento della conoscenza della stessa, come in caso di condanna); termine ridotto a 40 giorni in caso di notifica della decisione.

Va poi individuato un ulteriore termine (anch’esso di 90 giorni) previsto dall’art. 120 del DPR 3/1957, del quale la sentenza del TAR in rassegna sottolinea la diversità (definendolo di "natura sollecitatoria") da quello di cui all’art. 9 L. 19/90. In questo caso è sanzionata, con la estinzione del procedimento, l’inutile decorso trimestrale, all’interno del primo periodo di 180 giorni, dall’ultimo atto, senza che nessun altro successivo sia stato compiuto. Una tale norma, reca, in sé una insidia per tutti quei procedimenti disciplinari instaurati in seguito a sentenze di proscioglimento. Per questi ultimi, infatti, a differenza di quelli originati da una pronuncia di condanna, non è contemplato un termine perentorio per la conclusione del procedimento (come quello di cui all’art. 9 L. 19/90); pertanto, l’interesse alla rapida definizione delle vicende di natura disciplinare potrebbe essere facilmente frustrato mediante l’adozione, nel tempo, di vari atti che impediscano, in limine, il compiersi dell’inerzia.

Le esigenze di civiltà giuridica poste alla base della norma di cui all’art. 9 L. 19/90 (e con essa la ratio sottesa) e le ragioni dell’interpretazione, ormai prevalente, nel senso della perentorietà dei termini fissati, possono ben individuarsi ripercorrendo le fasi salienti dell’evoluzione giurisprudenziale-legislativa (nella quale la Corte Costituzionale, con numerose pronunce, ha avuto un forte ruolo propulsivo). In tale contesto il caposaldo è rappresentato dalla sentenza 12 ottobre 1988 n. 971, con la quale la Consulta dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 85 lett. a) del DPR 10.1.1957 n. 3, nella parte contemplava l’ipotesi della destituzione di diritto, non prevedendo l’apertura e lo svolgimento del procedimento disciplinare. Tale decisione fu di portata tale da porre il freno al disegno di legge governativo (Camera dei Deputati, X leg., n. 1707), con il quale ci proponeva semplicemente di circoscrivere, parzialmente, la destituzione di diritto, escludendola per l’ipotesi di sospensione condizionale della pena. Si posero, pertanto, le basi per la riformulazione, da parte delle Camere, del testo vigente dell’art. 9 della L. 19/90. In tal senso, furono stabilite le due diverse scansioni temporali, di 180 (per la promozione del procedimento) e 90 giorni (per la sua conclusione), assicurando, in tal modo, un congruo lasso di tempo per esaminare, prima, le risultanze processuali culminate nella condanna del dipendente e, successivamente, irrogare la sanzione disciplinare.

L’illegittimità della destituzione "automatica", che sarà ribadita più volte (v. sentt. nn. 104/91, 415/91, 134/92, 126/1995, 363/96, 240/97, 197/99, 375/2000 – queste ultime due con particolare riferimento alle scansioni temporali del procedimento –), in breve "trova la sua ragion d’essere nella necessità di ponderare, con le garanzie del contraddittorio, la rilevanza disciplinare dei fatti accertati nel corso del giudizio penale, tenendo conto, altresì, della personalità dell’incolpato, del suo rendimento in servizio e di ogni altro interesse pubblico che possa essere validamente considerato nell’ambito di un detto procedimento" (C. Cost., sent. 24-28 maggio 1999 n. 197).

Alla luce di tali premesse, come espressamente riconosciuto dalla Consulta, sono stati fissati, con l’art. 9 L. 19/90, dei termini "brevi", con lo scopo precipuo di assolvere all’esigenza di "definire sollecitamente il procedimento, evitando situazioni di incertezza dannose per il buon andamento dell’amministrazione, e lesive della posizione personale del dipendente condannato". In poche parole, la preventiva sentenza irrevocabile di condanna presuppone una valutazione dei fatti alla base degli addebiti che rende superfluo ogni autonomo accertamento istruttorio (occorrendo valutare solo se i fatti risultanti dalla sentenza possono assumere rilievo sotto il profilo disciplinare). Pertanto, la previsione di tempi circoscritti (perentoriamente prefissati) per l’avvio e la conclusione del procedimento non contrasterebbe con le garanzie di difesa dell’incolpato e il principio di buon andamento della P.A.. Accedendo a tali tesi vengono fugate le tentazioni volte a considerare non perentori i termini di durata del procedimento disciplinare.

L’autorevole conferma (e definitiva) del carattere perentorio dei termini in parola proviene dalla citata sentenza n. 197/1999 della Corte Costituzionale, che muove dal ragionamento sopra articolato. La pronuncia trae origine da quattro diverse ordinanze di rimessione con le quali l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ha sollevato la questione di legittimità, ravvisando il contrasto con l’art. 9 co. 2 della L. 19/1990 in relazione agli artt. 3 e 97 Cost., nella parte in cui viene disposta la conclusione del procedimento disciplinare entro il termine non derogabile di 90 giorni. I giudici di Palazzo Spada osservano che la norma censurata si presterebbe ad una duplice interpretazione: secondo un primo orientamento devono ritenersi abrogate, per incompatibilità, le previgenti norme sul procedimento; l’altra impostazione, invece, non accede alla tesi dell’abrogazione, con la conclusione che la violazione dei termini non comporta l’illegittimità della sanzione disciplinare, quando sussistano adeguate ragioni che ne giustifichino il superamento.

Secondo l’Adunanza Plenaria detta ultima linea va disattesa, in quanto risulta inequivocabilmente chiara la formulazione dell’art. 9 nel senso di imporre la conclusione, senza deroghe, del procedimento entro 90 giorni. Non vi è spazio alcuno per ammettere una deroga del termine suddetto in presenza di elementi giustificativi e, pertanto, le ordinanze di rimessione abbandonano la lettura temperata della norma, con la quale si operava un temperamento tra le innovazioni della L. 19/1990 e le previsioni del DPRP 3/1957. La natura perentoria del termine presuppone, dunque, l’abrogazione delle differenti norme, previgenti, attinenti alle diverse fasi endoprocedimentali (considerato che l’amministrazione non potrebbe rispettare il termine dei 90 giorni applicando le norme di garanzia previste dal DPR 3/1957). Alla luce di tali conclusioni, viene, però, ravvisata la lesione degli articoli 3 e 97 Cost., dal momento che dei termini ristretti impedirebbero una ponderata valutazione dei fatti.

La Corte Costituzionale, nella fondamentale pronuncia, afferma di convenire con i Collegi rimettenti che la deroga del termine in presenza di giustificati motivi non trova fondamento nella formulazione della disposizione e "appare perciò plausibile la revisione, che così si è intrapresa, del pregresso indirizzo giurisprudenziale". Altrettanto chiaramente, però, la Consulta afferma di non condividere le censure di costituzionalità mosse all’impianto normativo.

Infatti, la previsione del termine decadenziale di 90 giorni per la conclusione del procedimento disciplinare va letta in stretta connessione con quella relativa alla statuizione del termine di 180 giorni per la sua promozione. L’amministrazione, infatti, ha "un congruo lasso di tempo per esaminare le risultanze processuali" culminate nella condanna, "e ciò prima dell’atto con cui si promuove l’azione disciplinare"; seguono poi i 90 giorni per l’adozione del provvedimento. Considerando insieme il doppio termine, cadono i dubbi di incostituzionalità. In breve "il previo svolgimento del processo penale giustifica i termini introdotti dalla normativa in esame", non essendo necessari "ulteriori accertamenti istruttori".

Discorso a parte merita l’ipotesi della sentenza di condanna ex art. 444 c.p.p., a seguito di "patteggiamento". Infatti, se la contrazione dei termini è giustificabile quando i fatti siano acclarati a seguito di dibattimenti, non altrettanto può dirsi per la differente ipotesi sell’applicazione della pena su richiesta delle parti. In questi casi, per la conclusione del procedimento disciplinare, non vale il termine introdotto dall’art. 9 co. 2, ma la disciplina del T.U. 3/1957.

Alla luce di questa importantissima sentenza è possibile comprendere le ragioni che hanno indotto il Tribunale Amministrativo, nella sentenza riportata, a ritenere perento il procedimento disciplinare per violazione del termine massimo previsto dall’art. 9 co. 2 L. 19/1990.

 

 

 

Segue il testo

 

N. 2102 reg. Sent.

Anno 2000

N. 10683 reg. Ric.

Anno 1998

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sezione I, composto dai Giudici:

Giancarlo Coraggio Presidente

Angelo Scafuri Consigliere rel. est.

Anna Pappalardo Primo Referendario

Ha pronunciato la seguente

SENTENZA

Sul ricorso n. 10683/1998 Reg. Gen., proposto da Reginaldo Urciuolo, rappresentato e difeso dagli avv.ti F. e A. Iadanza, presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Napoli – Via Duomo, 348

CONTRO

Il Ministero di Grazia e Giustizia, in persona del Ministro p.t., costituitosi in giudizio con il patrocinio dell’Avvocatura distrettuale dello Stato presso la quale per legge è domiciliato;

per l’annullamento

del decreto del 3.8.1998 con il quale è stata irrogata al ricorrente la sanzione disciplinare della destituzione dal servizio a decorrere dal 18.1.1996, della deliberazione del Consiglio centrale di Disciplina del 19.5.1998, di ogni altro provvedimento preordinato, presupposto, connesso e/o conseguenziale;

e per il riconoscimento

del diritto alla reintegra in servizio per perenzione del procedimento disciplinare, con la corresponsione del relativo trattamento economico stipendiale, maggiorato di rivalutazione monetaria ed interessi legali dal 18.10.1995 nonché la corrsponsione del trattamento pensionistico e di T.F.R.;

VISTO il ricorso, notificato in data 30 settembre 1998 e depositato in data 22 ottobre 1998, con i relativi allegati;

VISTI gli atti di costituzione in giudizio del Ministero intimato;

VISTE le memoria prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive pretese;

VISTI gli atti tutti di causa;

Alla pubblica udienza del 27 ottobre 1999 relatore il Cons. Scafuri e presenti gli avvocati di cui al relativo verbale;

RITENUTO e considerato in fatto e in diritto quanto segue:

FATTO

Il ricorrente, agente di custodia, si duole del mancato rispetto dei termini previsti per il procedimento disciplinare, a seguito del quale gli è stata irrogata la sanzione della destituzione, ai sensi dell’art. 6, secondo comma, lett. a, b, d e terzo comma lett. A del D. L.vo 449/1992 in relazione all’arresto per il reato di detenzione di armi da guerra.

Al riguardo, nel far presente che in data 31.7.1997 a seguito della definizione del procedimento penale con condanna ed inammissibilità del ricorso per cassazione, ha chiesto alla Direzione Generale la valutazione della propria posizione e che la medesima ha risposto con l’inizio dell’azione disciplinare e quindi con l’adozione del provvedimento impugnato, deduce:

la violazione del termine perentorio di 40 giorni di cui all’art. 7 D. L.gvo 30.10.1992 n. 449 e dell’art. 97 del DPR 10.1.1957 n. 3, tenuto conto della comunicazione di cui sopra del 31.7.97 ovvero della acquisizione della decisione della Suprema Corte (29.10.1997) laddove la contestazione degli addebiti è avvenuta soli il 20.12.1997;

la violazione del più lungo termine perentorio di 120 giorni previsto dalle medesime norme con decorrenza dalla data di pubblicazione della sentenza (9.7.1997);

la violazione del termine perentorio di 90 giorni previsto dall’art. 9, secondo comma, della legge n. 19/1990 per la conclusione del procedimento, laddove il procedimento iniziatosi con la predetta contestazione degli adebiti del 20.12.1997 si concluso solamente il 6.8.1998 con la notifica del decreto impugnato.

Il Ministero si è costituito in giudizio per resistere al ricorso a mezzo dell’Avvocatura distrettuale dello Stato.

Alla pubblica udienza del 27 ottobre 1999 la causa è stata introitata per la decisione.

DIRITTO

Il ricorso è fondato in maniera assorbente in relazione alla dedotta inosservanza del termine perentorio di 90 giorni previsto dall’art. 9 della legge n. 19/1990 per la conclusione del procedimento disciplinare promosso a seguito di condanna penale.

Sulla natura perentoria di tale termine è intervenuta la Corte Costituzionale, desumendola dalla considerazione che quando l’Amministrazione dispone di una sentenza irrevocabile di condanna sono superflui "autonomi accertamenti istruttori" dovendosi soltanto valutare se i fatti risultanti dalla sentenza possono assumere rilievo anche sotto il profilo disciplinare (amplius sentenza n. 197 del 28 maggio 1999).

Per quanto riguarda la decorrenza del detto termine perentorio l’indirizzo più rigoroso affermatosi in giurisprudenza ravvisa il dies a quo nella scadenza del periodo di centottanta giorni dalla notizia della sentenza penale di condanna (previsto dalla medesima legge per proseguire o promuovere il procedimento disciplinare), essendo del tutto irrilevante in quale modo si distribuisce tra la fase degli accertamenti preliminari ed il successivo procedimento l’arco temporale complesivo previsto per l’adozione del provedimento sanzionatorio.

Nella specie è pacifico che l’Amministrazione abbia ricevuto in data 29.10.1997 la comunicazione della sentenza con la quale la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso proposto dall’interessato avverso la condanna disposta in primo e secondo grado (cfr. fascicolo Avvocatura del 17 settembre 1999 pag. 2).

Orbene da tale data inizia a decorrere il predetto termine, per cui il relativo procedimento disciplinare avrebbe dovuto concludersi dopo 270 giorni (180 per la promozione del procedimento più 90 per la sua conclusione), vale a dire entro e non oltre il 24 luglio 1998.

Al contrario il provvedimento finale costituito dal decreto ministeriale di irrogazione della sanzione è stato adottato in data 3 agosto 1998, oltre quindi il ripetuto termine decadenziale.

Al riguardo la difesa dell’Avvocatura distrettuale, incentrata sul rispetto del termine (anch’esso di 90 giorni) di cui all’art. 120 del DPR n. 3/1957, non tiene conto che la parte non ha mai lamentato l’inosservanza di tale termine endoprocedimentale, dall’evidente natura sollecitatoria, che comunque concerne la scansione del procedimento disciplinare in generale e non la specifica fattispecie in esame, relativa all’avvio e alla conclusione del procedimento disciplinare a seguito di condanna penale.

In conclusione la decorrenza del ripetuto termine di conclusione previsto dall’art. 9 della legge n. 19/1990 ha determinato la perenzione del procedimento disciplinare onde trattasi, con ogni conseguenza di legge sulla ricostruzione del servizio del ricorrente ed il relativo trattamento economico, maggiorato di rivalutazione monetaria ed interessi.

Le spese del giudizio sono poste a carico dell’Amministrazione soccombente.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale dell Campania – sede di Napoli, sez. I,

ACCOGLIE

Il ricorso in epigrafe proposto da Reginaldo Urciuolo e, per l’effeto, pronuncia l’annullamento dei provvedimenti impugnati, nonché la reintegra in servizio del ricorrente con corresponsione del relativo trattamento economico maggiorato di rivalutazione ed interessi.

Le spese di giudizio, liquidate in L. 1.500.000 (unmilionecinquecentomila), sono poste a carico dell’Amministrazione soccombente.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dalla Autorità amministrativa.

Così deciso in Napoli nella camera di consiglio del 27 ottobre 1999

IL PRESIDENTE f.to Giancarlo Coraggio

IL CONSIGLIERE est. F.to Angelo Scafuri